La guerra del vespro siciliano/Capitolo III
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo II | Capitolo IV | ► |
CAPITOLO III
La vittoria di Carlo innalza parte guelfa in Italia. Risorgon pure i Ghibellini, e chiaman Corradino all’impresa del regno. Sollevasi per lui la Sicilia. È sconfitto a Tagliacozzo, e dicollato a Napoli. Carlo spegne la rivoluzione in terraferma con rigore, in Sicilia con immanità. Eccidio d’Agosta. 1266-1268.
S’eran riscossi i Guelfi alla passata di Carlo, aiutato l’aveano all’impresa, ed ora partecipando della vittoria, tutta Italia ingombravano, rafforzati dalla riputazione e dalle armi del re. E vacando tuttavia l’imperial seggio, papa Clemente, che alcuna autorità non n’avea, dette al re il titolo di vicario dell’impero in Toscana, per aprirgli la strada a più larga ambizione. Così mutossi per parte guelfa lo stato di tutte le province italiane; al nome ghibellino non restando che Siena e Pisa: gli altri uomini di questa parte, attoniti più che spenti, cedeano il campo, chi esule, chi acquattato in patria; e tutti covavan rancori. Ond’e’ guardarono in Lamagna a Corradino, entrato già nell’adolescenza, e verace signore di Sicilia e di Puglia; i quali stati, com’or feano piegar le bilance pe’ Guelfi, l’avrebber mandato giù, se renduti a casa sveva. Con loro s’intendeano gli usciti di que’ reami, e i partigiani che s’eran sottomessi a Carlo; i quali non avean saputo difender Manfredi, ed or pensavano a rifar guerra. Rincoravali la mala contentezza di questi popoli, che sotto Carlo non sentiano scemare i tributi, crescer anzi la molestia de’ ministri e degli officiali infiniti del re, ingordi, inquisitivi, superbi, più insopportabili come stranieri, e in Sicilia peggio, perchè ai non domi con le armi peggio puzza un’insolente dominio. Amaramente piangean Manfredi, da loro lasciato correre alla morte come quei che togliea parte di lor sostanze, per trovar ora chi tutte rapiale, e per ammenda le persone manomettea.
Entro un anno dunque dal subito conquisto, risvegliansi, congiurano e Ghibellini, e usciti del regno, e baroni sottomessi a Carlo, e stranieri principi. Adunan moneta i Ghibellini; volenteroso entra Corradino nell’impresa; il duca d’Austria il segue, giovanetto e congiunto suo; seguonlo per amor di parte o d’acquisto molti baroni e uomini d’arme di Lamagna. Fin d’Affrica sursero per lui due perduti uomini del sangue regio di Castiglia, Arrigo e Federigo; che di lor patria fuggiti, combatteano a’ soldi del re di Tunisi; e infastiditi, o a lui venuti in sospetto, rituffaronsi nelle brighe de’ battezzati: ma Arrigo ancora cocea privato rancore contro Carlo, perchè avendogli dato in presto, quand’ei si preparava alla impresa, una grossa somma di danari raccolta da lui in Affrica e serbata a Genova, Carlo, preso il regno, nè dette feudi o stati ad Arrigo, nè rendea la moneta, ma menzogne di cortesia; e stucco de’ richiami dello Spagnuolo, gli parlò leonino1. Perciò Arrigo cercava vendetta. Ad annodar que’ fili giravan di qua, di là i più vivi partigiani; Corrado Capece corse e ricorse tra Lamagna e Tunisi. E fur sì destri, che l’anno stesso sessantasette Corradino, con quattro migliaia di cavalli tedeschi e parecchie di soldati a piè, calava in Verona: Roma tumultuando chiamava senatore don Arrigo di Castiglia: si levavano da per tutto i Ghibellini: tumultuava la Sicilia contro re Carlo.
Perchè don Federigo e Capece non prima sepper la passata di Corradino, che mosser d’Affrica, sì come s’era ordinato, a rizzare in quest’isola l’insegna sveva. Con una ventina di cavalli, e poche centinaia di fanti raunaticci, spagnuoli, toscani, tedeschi, saraceni, posero sulle spiagge meridionali a Sciacca. Capece si promulga vicario del re; spaccia messaggi ai già disposti e consapevoli; bandisce la proclamazione di Corradino, esortante i popoli a sorger nella santa causa di lui: fanciullo, l’avevan tradito il fratel del padre suo, il pastor supremo della Chiesa; or adulto, e in sull’armi, e affidato nella lealtà dei sudditi, veniva a scacciare l’oppressor loro, l’usurpatore del regno. Rapida corse dell’arrisicato sbarco la fama, gratissima ai nostri, poco formidabile dapprima a’ Francesi, che fecer sembiante di spregiarla; e Fulcone di Puy-Richard, reggitor dell’isola per Carlo, tutto sdegnoso mosse con forte oste de’ suoi e di milizie feudali siciliane a schiacciare gli assalitori. I quali come videro il nimico vicino, fidati nelle lor pratiche, escon tosto al combattimento: e al primo scontro i feudatari siciliani s’infingon di fuggire; poi s’arrestano, straccian le bandiere d’Angiò, spiegan le sveve, e minacciosi stringonsi a schiera. Fulcone allora, lasciato il campo, più che di passo si rifuggì in Messina. E questa, con Palermo e Siracusa, restaron sole in fede; nel rimanente della Sicilia divampò un subito incendio, gridando tutti il nome di Corradino: nè a lui però ubbidirono, nè a Carlo, ma a posta sua ciascun disordinatamente si prevalse. Sbigottite e poche le armi provenzali; poche e disordinate quelle di don Federigo e di Capece; il malo studio delle parti, entrato già in questa terra, non crescea forza ad alcuno de’ contenditori, ma sfogavasi in particolari vendette. Perocchè alla venuta di re Carlo, un talento servile, o una speranza di guadagno e autorità, molti precipitò a prostrarsi alla nuova dominazione, lor viltà onestando sotto specie di parteggiare per quella; molti più profondamente l’abborrirono. Ferracani i primi, Fetenti s’appellarono gli altri: nomi d’ignota origine, che nelle nostre istorie son oscuri, e mertanlo; perocchè s’udian solo in questa rivoluzione, l’uno e l’altro per villani misfatti. Il mal governo poi di re Carlo fu amara ma certa medicina a dileguar queste fazioni in un ferocissim’odio comune. E così nel vespro appena si vide un’ombra di parte; ma restò solo per detto di contumelia e villania il nome di Ferracano; che traditor della Sicilia suonava, e partigiano de’ tiranni stranieri.
Nè a particolareggiare i casi atroci di quest’anarchia del sessantasette, vo’ dilungarmi or io dal bello argomento propostomi. Dirò solo quali odî seminassersi allora, che render doveano il vespro più sanguinoso e più grande; perocchè spesso nasce il bene dai mali estremi; e convien sia colma la misura a far che gli uomini tra lor mense, e amori, e guadagni, e ambizionucce, ed ozi onesti, ed ozi vituperevoli, ricordinsi d’esser cittadini, talchè, arrischiando per poco questa vita sì breve e amara, nella causa pubblica risorgano. La quale altra è che lo sciogliersi a misfare senza modo nè grande intento, come allora in Sicilia avveniva. Baroni, borghesi, vassalli con rapine e omicidî e violenze d’ogni maniera laceravansi tra loro: i deboli, al solito oppressi da’ nemici e dagli amici, non sapeano cui ubbidire: era piena la Sicilia di sangue: di fame e di pestilenza perivano i campati alla rabbia degli uomini. Invano qui venne per Corradino il conte Federigo Lancia con una armatetta di galee pisane. Invano per Carlo il prior Filippo d’Egly, degli Spedalieri, frati combattenti, i quali in queste nostre risse mescolavansi più volentieri che nelle sacre guerre di Palestina. Avversi ai carlisti i popoli; i tre capi corradiniani disputavansi l’autorità suprema; e loro forze dividendo, disertaron sè stessi e la causa del principe. Queste parti dunque, delle quali niuna potea vigorosamente ordinarsi e metter giù l’avversa, dilaniarono senza pro la misera Sicilia; finchè, spento Corradino, venner da Napoli a risanarla i carnefici2.
Non uso a questi subiti italiani movimenti, sbigottì Carlo a veder mezza la penisola in romore per Corradino; la Sicilia perduta; la Puglia piena d’umori di ribellione; e Corradino, che per diffalta di danari era sostato dapprima a Verona, vincer sull’Arno, accrescersi in Roma pe’ favori d’Arrigo di Castiglia, e, non curando scomuniche, minaccioso venire alla volta del regno con dieci migliaia di cavalli, e più numero di fanti, tra tedeschi, spagnuoli, italiani, e usciti di Puglia. Nè tanta moltitudine avea Carlo in sull’armi; ma eran Francesi i più, e in migliore disciplina, e con altri capitani: ond’ei come animoso, fè testa ai confini. Presso a Tagliacozzo si pugnò, nel pian di San Valentino, a ventitrè agosto del sessantotto: ed era di Corradino la giornata, quando la terza schiera francese instrutta dal vecchio Alardo di Valery e da Guglielmo principe di Morea, diè dentro; e ruppe e mietè i disordinati per fidanza della vittoria. Presi i maggiori dell’esercito; scannata a frotte la plebe; nella quale trovando parecchi Romani, Carlo non fu contento della lor sola morte, in vendetta del toltogli uficio di senatore della città. Comandava nel primo boglimento di rabbia, che fosser mozzi i piè a quei prigioni; ma per timore che portassero miserando spettacolo, da rinfocare contro di lui gli animi in Roma, l’ordine rivocò, e chiuder li fece entro una casa, e vivi brugiare. Quest’era il campion della Chiesa! Corradino fuggendo fu conosciuto ad Astura, e preso a tradimento. I partigiani ch’eran tuttavia grossi di numero, perdetter l’animo a quella rotta; si sbrancarono; pensò ciascuno a salvar sè solo; e tutti furon perduti3. Quel d’Angiò, come avea preso tanto stato, così il mantenne, per una sola battaglia. Ma per che modo sì assicurava e vendicava, m’è duro a narrarlo.
E comincio da Corradino, comechè pria del suo sangue scorresse già quel de’ sudditi a fiumi. Altri appone a Clemente il mal consiglio, altri lo scolpa; io penso che il papa e il re d’un animo volesser la morte del giovanetto, stimolati entrambi da rabbia d’aver tremato, e sospetto dell’avvenire. Nè sicari in carcere, ma rappresentanti della nazione in faccia alla nazione e a Dio, bruttavansi del comandato assassinio. Convocò re Carlo un parlamento di baroni, e sindichi, e buoni uomini delle città di Puglia; a scherno osservar fece tutte del giudizio le forme: talchè par vedere altri tempi a leggere con che sillogismi quella straordinaria corte dannava a morte Corradino e i seguaci suoi, come in tali casi è costume. Ed ebbe animo ad opporsi un Guidone da Suzara, famoso professor di dritto civile, che non era suddito di re Carlo nè si curava della sua grazia; e lor coscienze rimordean gli altri; e piangeano in cuore i buoni; i Francesi stessi esecravano il crudele atto del re: ma il re volea, e tremavano i giudici, onde ogni schermo fu vano. Un fanciullo di sedici anni, ultimo erede di tanti imperatori e re, dritto signore egli stesso di Sicilia e di Puglia, il dì ventinove ottobre del sessantotto, tratto era al patibolo in piazza di mercato a Napoli; seguendolo una funata di vittime, perchè più largamente si vendicassero gli sturbati ozi della tirannide. A paro a paro con esso veniva il duca d’Austria, statogli compagno amantissimo dall’infanzia: biondi ambo e gentili, impavidi nel sembiante, a fermo passo andavano al palco. Di porpora era coperto il palco, quasi a regia pompa; con torvi armati all’intorno; foltissimo il popolo in piazza; dall’alto d’una torre guardava quella tigre di Carlo. Salì Corradino, mostrossi, e lettagli in volto la sentenza che il chiamava sacrilego traditore, ne protestò nobilmente al popolo e a Dio. A queste parole susurrava la moltitudine un istante; e poi ghiacciata di paura tacque; stupida e scolorata affisò Corradino. Il quale nell’abbassar lo sguardo su quell’onda di spaventati volti infiniti, ghignò di amaro disprezzo, poi gli occhi alzò al cielo, e ogni terren pensiero depose. Lo scosse un colpo: vide il capo del duca d’Austria già tronco sul palco; ond’avidamente il raccolse Corradino, se lo strinse al petto, il baciò cento volte, baciò gli astanti, baciò il carnefice, pose il capo sul ceppo; e la scure piombò. Narran che prima gittasse il guanto a significar la investitura de’ reami a Pier d’Aragona, genero di Manfredi; narran che il conte di Fiandra, marito d’una figliuola di re Carlo, non reggendo all’empio sagrifizio, di sua mano uccidesse Roberto di Bari fabbro e dicitore della sentenza. Ben i bizzarri costumi dell’età aggiugnerebber fede a cotesti fatti; ma più certi e atroci prendo io a narrarne, affrettandomi a uscir di tanti orrori4.
In terraferma quanti eran rimasi fedeli a Carlo, o, dubbiosi finchè fu dubbia la vittoria, or voleansi purgar dal sospetto, fecersi giudici insieme e carnefici degli scoperti ribelli. Il parlamento avea offerto regie vittime al re; gli uomini delle province immolavangli i partigiani, e guadagnavan possessioni in premio della fedeltà o de’ misfatti5. Presero i beni, rapirono, uccisero, accecarono, straziarono: fu tanto, che Carlo trattenne al fin lo immane zelo che facea del regno un deserto, perdonò al fine6. Ma ai Siciliani nulla mercè7. A farne macello manda i suoi baroni francesi: e Guglielmo l’Estendard era il primo; uom di guerra e di strage, che la pietà avea a scherno, più crudele d’ogni crudeltà, dice Saba Malaspina, e di sangue ebbro, e tanto più sitibondo quanto più ne versasse. Costui valicò lo stretto con un drappello di Provenzali fortissimi, e di forti Siciliani l’accrebbe a vergogna nostra; abbattè senza ostacolo la parte di Corradino, cui speranza non restava alcuna. Ma in Agosta mille cittadini in sull’armi, con dugento cavalli toscani, fieramente difendeansi, aiutati dal sito inespugnabile; onde Guglielmo, postovi il campo, gran pezza indarno affaticossi: e a tanti doppi ne crescea quella sua natural ferità. Sfogolla alfine senza battaglia, perchè sei traditori, schiusa di notte una postierla della città, indifeso diergli in preda quel valente presidio: ed ei nè valore rispettò, nè innocenza, nè ragione d’uomini alcuna. Ivano i suoi per la città, contaminando ogni luogo con uccisioni, stupri, saccheggi; cercavano lor vittime per fin entro le cisterne e le fosse del grano. Ma dopo la prima strage, quando fu satollo il furor de’ soldati, non si spense nel crudo animo del ministro del re. Chiama al macello un manigoldo d’estrema forza: al quale adduconsi legati gli Agostani; e quegli li spaccia con un largo brando; e quand’è spossato gli si porgon colmi nappi di vino, che tracanna insieme col sudore e sangue di che gronda tutto; e con fresche forze ripiglia l’opera scellerata. Alzò sulla marina una catasta di capi e di tronchi; dove tra le misere vittime loro andavano a monte i sei figliuoli di Giuda, ben premiati così da Guglielmo. Non rimase persona viva in Agosta. Molti fuggendo al mare, sì precipitosamente accalcaronsi sopra un legnetto, che diè alla banda e si sommerse. Gavazzavano intanto i Francesi nella insanguinata città, che deserta e squallida fu poi per lunghissimi anni8. Nè queste immani stragi, nè questi immani tripudi ricordavano i più degli storici narrando con tanto studio la strage del vespro, che misura fu per misura! A quella carnificina tenner dietro negli altri luoghi i supplizi. Corrado Capece s’affortificò in Centorbi: ma visto balenare i suoi, uscì solo a darsi nelle mani di Guglielmo; e quegli il fe’ accecare, e trarre a Catania, e per la gola impiccare. Marino e Giacomo fratelli di lui periano anco sulle forche a Napoli; per altri casi gli altri principali partigiani: sol campò Federigo di Castiglia, che si difese in Girgenti, ma Guglielmo come congiunto di re Carlo gli diè di partirsi con una nave. Sulle misere città di Sicilia, o state ribelli, o state fedeli, piombò intanto la rapace man d’Estendard, con imprestiti e altri mal dissimulati ladronecci9. Lucera di Puglia, ove i Saraceni siciliani fatto avean sì bella difesa, s’arrendè poco appresso per gli strazi d’orribilissima fame: trionfò Carlo da per tutto senz’alcun freno. Così crescon per doma ribellione e peggiorano i principi, stimolati da sdegno e sospetto, nè mansuefatti da timore alcuno de’ sudditi; i quali per diffidar l’un dell’altro e spossamento comune, forz’è che lungo tempo servano, e stiansi.
Note
- ↑ Questa ragione della nimistà d’Arrigo di Castiglia è riferita da Bernardo D’Esclot, Istoria di Catalogna, cap. 60, ed. Buchon, 1840.
- ↑
Saba Malaspina, lib. 4, cap. 3 e seg.
Bart. de Neocastro, cap. 8 e 9. Gio. Villani, lib. 7, cap. 20 al 23.
Raynald, Ann. eccl. 1267, §§. 2, 12 e seg., 1268, §§. 2 a 29.
Nic. di Jamsilla, in Murat. R. I. S. tom. VIII, pag. 614 e seg.
Veggansi anche i seguenti diplomi del r. archivio di Napoli:
Diploma di Carlo I, dato di Viterbo 11 aprile undecima Ind. (1268) al segreto di Sicilia, per le spese di fra Filippo d’Egly dello Spedale di S. Giov. di Gerusalemme. Reg. di Carlo I, segnato 1268, O fog. 18.
Altro dato dal campo sotto Lucera il 2 giugno undecima Ind. (1268) a Falcone di Puy-Richard vicario di Sicilia, perchè munisse con estrema cura Messina, tamquam portum et portam Sicilie. Ibid. fog. 18.
Altro dato di Capua a 10 dicembre duodecima Ind. (1268) pel castel di Licata, che avea sostenuto assai guasti da’ ribelli. Ibid. fog. 22.
Conti resi da Bartolomeo di Porta giustiziere della Sicilia di là dal Salso, per l’amministrazione dal 14 ottobre 1268, a tutto novembre 1269. Ibid. fog. 75.
Da una partita di questo conto si scorge, che il giustiziere mandava al re, Nicolò di Marchisano a chiarirgli falsa la voce dello sbarco del re di Tunisi in favor de’ ribelli; e che avea pagato un’oncia a Lorenzo di Trapani, il quale con la sua barca portò questo corriere da Palermo in Principato, ov’era il re. - ↑ Gio. Villani, lib. 7, cap. 24 al 27.
Bart. de Neocastro, cap. 9.
Saba Malaspina, lib. 4, cap. 13. - ↑ Bart. de Neocastro, cap. 9 e 10.
Gio. Villani, lib. 7, cap. 28 e 29.
Saba Malaspina, lib. 4.
Frate Francesco Pipino, lib. 3, cap. 9.
Ricobaldo Ferrarese, Hist. imp. an. 1268, etc.
Un verso di Dante, se bene o mal interpretato non importa, diè luogo ai primi comentatori poco discosti dal secol XIII a narrare un aneddoto intorno la morte di Corradino. Nella loro età diceasi, che Carlo I d’Angiò, per superstizione mezzo pagana venuta di Grecia, avesse fatto cuocere una zuppa, e mangiatola su i cadaveri di Corradino e degli altri guastati con esso; il quale rito s’avea per fermo che purgasse il peccato dell’omicidio, o troncasse il corso alla vendetta. Il verso è questo:- .... Ma chi n’ha colpa creda,
- Che vendetta di Dio non teme suppe. Purg., c. 33.
Su le opere di Guidone da Suzara, veg. Tiraboschi, Storia letteraria d’Italia, tom. IV. Suzara è città nel distretto di Mantova. - ↑ Veggansi le molte concessioni di feudi e altri beni fatte da re Carlo in questo tempo, che leggonsi nel r. archivio di Napoli, reg. di Carlo I, segnato 1269, D, fog. 1 ed 8. Tra gli altri si trova a fog. 6, a t. e duplicato al 114, a t. un diploma del 15 genn. tredicesima Ind. (1269) pel quale furon date all’arcivescovo di Palermo le case che possedeva in Napoli Matteo de Termulis, fellone.
- ↑ Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.
Capitoli del regno di Napoli, pag. 14. Misericordiam, etc. - ↑ Capitoli del regno di Napoli, pag. 16. Nel preambolo si legge essere stati i ribelli di Sicilia, conculcati, et gladio ultori perempti.
- ↑ Saba Malaspina, lib. 4, cap. 17.
- ↑ Conto reso da Bartolomeo de Porta giustiziere della Sicilia di là dal Salso. Nel archivio r. di Napoli, reg. di Carlo I (1268), O, fog. 75.
Da questo si veggono gl’imprestiti sforzati fatti per ordinamento di Guglielmo Estendard, maresciallo e vicario generale in Sicilia, di Guglielmo di Beaumont, ammiraglio, e di Fulcone di Puy-Richard. Un altro argomento di estorsione, come si ricava da’ medesimi conti, fu l’assedio di Sciacca, non so bene se quel del primo sbarco di Federigo di Castiglia, o un secondo quando trionfò la parte angioina. Richiedeansi le città di mandar forze a quest’assedio, e invece d’uomini si prendea da esse denaro. Sul cumulo di queste composizioni furono assegnate all’ammiraglio per ordine del re once 621.
Da’ medesimi conti ricavasi, che in questo tempo il prezzo del grano montò a venti tarì a salma.