La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XXII. Reminiscenze. Agnese
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XXII
REMINISCENZE. AGNESE
Sono già parecchi giorni che i medici mi hanno consentito di prendere un boccon d’aria, non piú che un’oretta. Mi è parso uscir di prigione, ed ho respirato a grandi sorsi, e mi sono sentito allargare il petto e i visceri. Mi sono ricordato le lunghe passeggiate di un tempo, li a Capodimonte o sul Vomero; ma ohimè! debbo camminare adagio, e non mi posso stender molto lungi. Oggi, 8 marzo, mi sento meglio in gambe, e sono stato alla solita passeggiata, lungo il corso Vittorio Emanuele. Giunto al convento dei Pasqualini, lá dov’ero solito rimettermi in carrozza e rifare la via, mi è venuta la voglia di far ritorno per un’altra via: tanto, non mi sentivo stanco, e le gambe volevano ancora andare. Sono sceso lemme lemme, per una scala erta, che mi hanno detto menare alla chiesa della Madonna dei Sette Dolori. Guardo e guardo: cercavo la casa dov’erano i Fernandez, e non trovo nulla, e non ravviso la strada. L’ingegneria, per fare il corso Vittorio Emanuele, ha disfatto due strade belle a quei tempi miei, quella di San Pasquale e l’altra di San Martino. Scendo e scendo, e non mi ci raccapezzo. Giunto alla chiesa, respiro: tutto mi torna a mente. Laggiù è Magnocavallo, la strada nobile che mena a Toledo. Ma io piego a mancina e fo adagio quella scalinata lunga e sozza, fermandomi a ogni tratto, e mettendomi la mano sulla fronte, come se volessi evocare la mia giovinezza, vissuta in quelle parti. Giungo al palazzo ove abitavano e non so se abitano ancora i Minervini. A dritta è la strada del Formale. Mi ci avvio quasi automaticamente, ancorché non fosse la mia strada. Ma era la strada della mia prima giovinezza, piena di memorie. Da quella parte la via è incassata tra due mura alte e nude di vecchi conventi, entro di cui sono incavati certi primi piani e certe stanze terrene, simili a covili: un putridume. Le vedo imbiancate, ripulite, e vedo la via bene spazzata. — Manco male, — dissi; — qui c’è progresso — . L’occhio da lontano afferrava già il portone numero 23. Mi ci fermo, e quell’entrata, dove sonarono già i miei clamori fanciulleschi, mi pare sporca e umida. Certi monelli cenciosi mi guardavano con un occhio interrogativo, come volessero dire: — Cosa vuole questo signore? — Mi fo un po’ lontano, ed alzo un’occhiata su al terzo piano, e veggo una donnicciuola ingiallita, d’aspetto volgare e civettuolo, li sul balcone dove io soleva declamare le ottave del Tasso. Mi pare proprio un insulto quella donna. Scendo ancora e do un’occhiata obliqua al numero 39, a sinistra, dove fui così spesso a visitare zia Marianna, con zio Carlo e Giovannino. E dove sono ora? Vengo in malinconia e rifò i miei passi, e m’imbocco per la strada Rosario a Porta Medina. Giunto al larghetto dove è posta la chiesa, mi batté il cuore, ché presso v’è la casa da me abitata. Entro risolutamente nel cortile e guardo la scalinata. — Cosa volete? — dice una vecchiarella. — Eh! niente. Qui ho abitato, più di trent’anni or sono. — Gesummaria! — disse lei, come vedesse l’orco; — trent’anni! — In questo caso, io dovrei ricordarmene, che sono antico di qua — disse un uomo grosso, cavandosi il berretto. — Si? Ma io non mi ricordo di te, — diss’io. — Ti ricordi tu quando venivano tanti scolari? — Restando esso tra il si ed il no, gli domandai: — Ma in che anno sei venuto tu qui? — Signore, nel 1845. — E io ci fui nel 1841. — Eh! oh! eh! — Io li lascio lì ad esclamare, e mi pianto su l’uscio, e guardo su, dirimpetto, al terzo piano, e vedo il balconcino; ma non c’era lei. Povera Agnese! Mando così un respiro alla creatura dei miei passati di, e torno lentamente a casa, pensoso e tutto pieno di questa giornata. Ho voluto raccontarla.
Sicuro! Dirimpetto al mio balcone era un balconcino, sul quale gli studenti gittavano furtivi sguardi. Assorto negli studi, non me n’ero avvisto; poi, guardai anch’io. Avevo preso l’abitudine di gittar per via occhiate alle donne, senza malizia, perché il mio spirito era altrove. In Napoli c’è spesso un saettio di occhiate tra balcone e balcone: cattiva abitudine anche questa. Ciò si chiama uno spassatiempo, un modo di passare il tempo. La donna era per me non so che vicino alla Divinità, troppo lontana da quelle ombre femminili che mi rasentavano il fianco per via. Il mio intelletto, profondato negli studi, era rimasto involuto, e non c’era entrata la malizia. Guardai a quel balconcino, e vidi una signorina vestita con semplicità non priva di gusto, un po’ magrolina, con due occhi che parlavano. Ero così timido che non osavo guardarla fiso in faccia, e la guardavo con la coda dell’occhio. Ella stava li come una esposizione, e si faceva guardare. Talora la guardavo per di sopra a un libro che avevo in mano. Anche passeggiando e ripensando la mia lezione, gli occhi scappavano verso il balconcino. Sembra che ella sapesse tutte le mie ore, perché, affacciandomi, la trovavo sempre lì. Se con me erano altri giovani, la stava pur lì e tirava occhiate di fuoco, mentre io voltavo le spalle per non farmi scorgere. Ma quando di lontano vedeva venire zio Peppe, la scappava subito: quella figura erculea e fiera le faceva paura. Cosi continuarono le cose per parecchi mesi. Io non ci pensavo che quando ero al balcone. Tutti i giorni si somigliavano: non si andava innanzi né indietro. Vedevo che la mi faceva di gran gesti; ma non ne capivo nulla. Talora si tirava dentro, e alzava la voce e pestava dei piedi; io guardava intontito: mi pareva una matta. Un sabato, dopo pranzo, che zio Peppe era sortito per non so quale faccenda, mi vedo volare sulla testa un involto di carta. Lo raccatto, lo spiego, ci trovo una letterina profumata, e vi era scritto così: «O mia celeste Emilia, domani a vent’ore sarò a San Martino. Verrai?» Rimasi trasognato. Voltavo e rivoltavo quella carta, e guardavo al balcone, e non c’era nessuno. Credo che la dovesse star da un canto, e farsi le grasse risa della mia dabbenaggine.
Il di appresso zio Peppe era andato a dir messa, e io, fattomi al balcone, vidi lei un po’ indietro, e mi vidi piovere sopra un secondo involto. Lo afferrai per aria, e vi trovai scritta la stessa canzone, e sentivo di là dentro venire una voce che pareva fosse l’eco, e diceva: — Verrai? verrai? — Io presi subito una carta e ci scrissi sopra: «Si»; ma vidi ch’era troppo leggiera e sarebbe cascata giù. Presi un cartone e ve la inviluppai dentro, e con un filo la legai bene, e la lanciai di gran forza, che pareva volessi sfondare il muro. Ella apri con avidità, credendo trovare un letterone, e come vide quel si asciutto, alzò il muso, in aria di disappunto. Io, spaventato della mia temerità, m’ero fatto un po’ indietro.
Quel di mangiai distratto. Zio Peppe scherzava sulla mia distrazione, e m’andava stuzzicando. Ma mi girava pel capo la mia bella del balconcino, e lo lasciavo dire e alzavo un tantino le spalle. Alle frutta mi levo in furia e in fretta, m’infilzo l’abito e mi calco il cappello. — Dove vai? — disse lui, guardandomi sospettoso. Quella sua guardata mi fece salire una fiamma sul sul volto. — Vado, — fec’io; — fra un par d’ore sarò qui. — Bene, t’aspetto. È la prima volta che ti vedo uscire a quest’ora e con questi calori. Bada, non sudare, e fai presto, che vogliamo farci una bella passeggiata al fresco.
Quando fui in istrada, m’incamminai frettoloso, ché mi pareva l’ora tarda, e feci, a quattro a quattro, le scale che menano alla Madonna dei Sette Dolori, e volsi a dritta e infilai la via di San Martino. Salgo e salgo; avevo il fiato grosso e mi fermai alla terza rampa, dove era un bel giardino, convegno di gente allegra che andava li a fare baldoria. Mi si apriva innanzi la vista di mezza Napoli: case addossate a case, di mezzo a cui spiccavano cupole e campanili. Alzai il capo, e non mi parve mai così bello quel vivo, limpido azzurro del cielo. Mi ricordai che, nella mia adolescenza, di li appunto avevo mirato, tra gran folla, uno dei primi palloni che in Napoli si fossero alzati a spettacolo, e la zia mi tirava per la mano e diceva: — Vedi, vedi il pallone, è lì — ; e mi indicava col dito, e io ficcavo gli occhi tra le nuvole e non vedevo niente, e mi arrabbiavo, e zia diceva: — Cosa ci vuoi fare? sei miope — . Era la prima volta che sentivo parlare della mia miopia. Quella ricordanza se ne trasse appresso molte altre, ché quella era la via solita dei miei trastulli coi cugini e coi compagni. In quel giardino facevamo le nostre merenduole, e andavamo a mangiare le troianelle, i dolci fichi così cari ai napoletani. Pensando a quella innocenza di vita, mi parve una follia quel correr dietro a una donna, e il cuore mi disse: — Torna, torna, ché zio Peppe ti aspetta — . Rifeci un po’ i miei passi, sospeso tra il si e il no, e l’occhio errava distratto tra quella infinità biancheggiante di case, e li vedevo lei e non potevo cavarmela dinanzi, e mi sentivo mormorare all’orecchio quel suo: — Verrai? — . Mi fermai, pensando a quel mio sí, e che ella era li e m’attendeva, e la bella figura ch’io farei: «Dirà per lo meno ch’io sono un bullone». Salivo già, tra questi pensieri, e mi trovai su quell’ampia pianura erbosa ch’è alle spalle di Sant’Elmo. Guardavo e non vedevo nessuno, e mi venne il pensiero che la bricconcella si fosse voluta pigliare gioco di me. — Tanto meglio, — dissi, e feci per tornare, pensando a zio Peppe, quando la vidi sbucare di mezzo alle erbe, che mi parve una ninfa. — Ciccillo, — fece ella, e mi tese la mano. Io la guardai, stupito. — Conoscete il mio nome? — Sicuro! ti ho inteso tante volte chiamare da zio Peppe con quella sua vociona. — E conoscete pure zio Peppe? — fec’io, e la guardava trasognato.
Ella rideva rideva, mostrando una fila di denti bianchissimi, e diceva: — Come vedi, io sono di casa — . E qui, saltellando e tirandomi seco, mi raccontò la lunga storia dei suoi sospiri, dicendo di me alcune particolarità che mi facevano stupire. Mi fece sino il nome di qualche signorina alla quale davo lezione, e faceva la gelosa e diceva: — Già si sa, il signor maestro non poteva pensare a me — . Mi venne innanzi come un baleno ch’ella mi umiliasse; ma non avevo tempo di fissare la mia idea, ch’ella parlava così lesta come camminava, e non mi dava tregua, e mi tirava nei suoi pensieri e nelle sue impressioni. Mi fece molto ridere di quel «letterone». — Diavolo! un maestro tuo pari uscirsene con quel si secco e smunto; mi.attendevo un bello scritto, ché so scrivere anch’io e ho una bella calligrafia. — Vi faccio i miei complimenti, — diss’io. Ed ella mi parlò dei suoi studi, e come sapeva un po’ di disegno, e aveva fatto anche la sua grammatica. — Bravo voi, — diss’io. — Voi! voi! sempre con questo voi! Tu mi devi dare del tu. — Ma una signorina come lei... — Ah! eccoci ora col lei. Tu mi confondi la grammatica, signor maestro! — Io mi feci rosso come uno scolarello colto in fallo. E lei, sdegnosetta, mi prese la mano e disse: — Tu mi devi dare del tu, hai capito? — Ma se questo tu non mi vuole uscire!... — Ma tu non capisci che noi siamo predestinati ad esser marito e moglie?
Qui la disse un po’ grossa. Io mi feci un po’ indietro, e con tuono fermo di voce risposi: — Sentite, io ho il dovere di farvi una dichiarazione; sono un uomo leale e non soglio ingannar femmine. Mia moglie non potete voi essere, perché ho già la mia sposa — . Ella si fece pallidissima, e io esaltandomi continuai: — Mia sposa è la gloria, alla quale mi sono votato — . Ruppe in una risata sonora: — Oh! di questa signora gloria non sono punto gelosa — . Ma io, preso il verso, continuava e non mi lasciava interrompere, e lei sentiva sentiva, pigliando un’aria di ammirazione. Parlai dei miei studi, delle mie aspirazioni, dei miei ideali, dei miei giovani, acceso in volto, tutto dentro in quei pensieri, e quasi dimentico che lei fosse lì. — Cosa è la vita senza la gloria? E la donna è nemica della gloria, e distrae la gioventù, e la tira nell’ozio. — La donna è il demonio, — interruppe lei con un ghigno che aveva del beffardo. Ma io non la sentiva e tirava innanzi e rinforzava la voce, insino a che ella, perdendo la pazienza, mi afferrò la mano per aria, facendo: — Uh! uh! uh! E finiscila mo. Capisco che sei venuto qua per farmi il predicatore, per farmi il casto Giuseppe — . Questa sua uscita mi troncò la parola, e la guardai e mi parve bellina, e raddolcii la voce. — Questo vi posso promettere. — conchiusi, — che se mi amate per davvero, nessun’altra donna porrò in vostro luogo. — Per ora, me ne contento, — disse lei.
Cosi infocati, facemmo molta strada, e, giunti a una svoltata che menava in città, e visto che lei tirava per diritto, dissi: — Dove si va? — Dove amor ci porta, — disse lei ridendo. E io la guardava con la faccia imbrogliata. Volevo dire e non volevo dire. E finalmente dissi: — È tardi; torniamo di qui — . Lei mi fece una mossa col muso, come a dire: — Questi non è buono a niente — . Io le dissi che zio Peppe mi aspettava, e che avevo promesso di fare una passeggiata con lui. — Vai dunque con zio Peppe; io me ne vo sola — . E mi fece un tale gesto di sprezzo, ch’io mi sentii freddo. Cercai di rabbonirla, e mi segui mormorando. Giunti in giù, quando la strada era piena di gente, dissi: — Addio, ora possiamo dividerci. — Già, perché ti veggono i tuoi scolari — . E mi voltò le spalle. Non ci badai molto, ché avevo in capo zio Peppe. Corsi, e giunsi trafelato e tutto in sudore; ma era già quasi buio, e zio Peppe era uscito. Quando tornò, non mi salutò e io non fiatai. Ma il brav’uomo non sapeva tenere il broncio, e la mattina mi parlò come se niente fosse.
Quel giorno ero un po’ soprapensiero. Tenevo gli occhi spesso verso il balconcino, spingendo lo sguardo anche addentro, ma non c’era anima viva. Le mie solite lezioni furono una medicina, perché il sentimento del dovere e l’abitudine mi tenevano il cervello a segno. Talora mi si presentava lei tra una frase e l’altra, ma era un lampo e non avea la forza di fissarsi. Tornato a ora di pranzo, l’occhio corse là; ma quella casa già piena della sua voce, era solitudine e silenzio. A tavola zio Peppe, che aveva avuto vento della cosa, motteggiava, non mi dava requie, toccava questo e quel tasto, e io non rispondeva a tuono. Quando fu a letto per fare il suo sonnellino del dopo pranzo, io mi posi a passeggiare per la stanza della scuola, e cercava di ficcarmi in testa la lezione; ma non c’era verso, ché l’occhio andava pur li, e quel pensiero era come un verme fitto nel cembro, che me lo teneva inquieto. «Dunque, — dicevo, — allons, pensiamo alla lezione»; ma la lezione non voleva andare, e stava sempre lì, tra quelle prime idee, e io ci stagnavo come in una palude. Più era lo sforzo, e più m’ingarbugliavo e non facevo via. Mi provai a socchiudere le imposte, per togliermi dagli occhi quel maledetto balconcino; ma che! in quella mezza luce la vedevo dovunque fissavo l’occhio, e talora sulla cattedra, con quel suo tuono beffardo, quando diceva: «La donna è un demonio». Quando vennero i giovani, tutto fini. In mezzo a loro mi sentii un altro; ripresi il mio buon umore, e tra quella concitazione mi usci una lezione tale, che fu applaudita. Parlai di Dino Compagni. Volevo mostrare ch’era un bon omo e cittadino probo e un gran cuore, ma inetto alle pubbliche faccende. Scorsi tutta la sua Cronaca, pigliando di qua e di là, frizzando, motteggiando e sfogando su di lui tutta la stizza che avevo in corpo. Non è che quelle idee mi venissero giù così all’improvviso; più volte mi erano passate per il capo, ma quella sera le condensai, le colorii, fui eloquente. E quella lezione mi piacque tanto, che la ripetei l’anno appresso, cosa insolita, e me ne rimase memoria, e mezza la inserii nella mia Storia della letteratura. A sera tarda zio Peppe mi disse: — Passeggiamo? — Sono stanco, — risposi: parte verità, parte pretesto. Volevo star solo. Andavo qua e là nelle stanze, e i punti più belli della lezione mi tornavano in mente, e si ficcavano tra le ombre della giornata; e fantasticando, mi trovavo spesso alla finestra, al balcone, tossendo, pestando dei piedi; e quella cameretta era sempre muta e oscura. «Sarà ita in collera», pensai, e mi rimproverai certe mie rozzezze, riandando quella passeggiata.
Cosi passò il dimani e il di appresso. Quel balconcino deserto mi facea venire la stizza e fomentava il desiderio. La sera del mercoledì uscii soletto; mi attendeva zio Peppe tra una brigata di amici. Avevo appena voltato a destra, quando udii un pissi pissi. E una vecchia mi porse una carta, e via. Era un bigliettino profumato, che lessi al lume di un lampione. Diceva che lei era stata ammalata dalla collera, e ch’io m’era portato male, e che voleva vedermi, e mi dava posta per domenica alla stessa ora e nello stesso luogo. Fui allegro. Quei giorni mi parvero lunghissimi. Lei non si lasciava vedere, e io diceva: «Poverina! è malata». La domenica non promisi a zio Peppe di passeggiare con lui, volevo esser libero. La trovai li, tra l’erbe; mi venne incontro mogia mogia, malinconica. L’avrei abbracciata, se non fosse stata via pubblica. Lei mi si mise sotto il braccio senza cerimonie, e mi contò la sua storiella di quei giorni, e io le contai la mia. Tra vezzi e rimbrotti, mi tirava seco come un fanciullo; e mi menò per una svolta, in un bel pratello erboso e fiorito, dov’erano di grosse pietre muscose, come sedili fatti apposta per noi. — Fa caldo, — disse lei, — sono stanca; sediamo qui — . Io la guardava; non l’aveva mai vista così bene. Aveva un bel cappellino che ombreggiava un visetto grazioso; era una simpatica creatura. Quel suo riso mi ammaliava, e ci aveva messo dentro non so che malinconia piena di dolcezza. Vivi sudori mi scorrevano sulla fronte, e lei si cavò di tasca un fazzoletto odoroso, e me li asciugava, accostando il viso; e io mi trovai con la bocca sulla sua fronte, e le labbra mi tremavano. Stupito della mia temerità, e turbato, mi levai. Ella mi segui, facendo un «oh!». Mi gittai a terra, raccattando la sua scarpina, che le si era sciolta dalla gola. Gliela porsi; ma lei mise la mano indietro, dicendo: — Non vuoi legarmela tu? — Mi avvicinai a quella gola, ma non ci vedevo, e le mani s’imbrogliavano, timorose di toccare il nudo della carne. E lei rideva, rideva d’un riso birichino, e s’aggiustò la sciarpa.
La passeggiata fu così lunga ch’io potei mostrarle le dorate nubi e la candida luna e le luccicanti stelle, e m’ingolfai in quella contemplazione. — Vedi là, — disse lei, — quella stella che luce più — . E in tuono di vezzosa caricatura modulava:
Quant’è bella chella stella, Ch’è la primma a comparò. |
Avrei voluto darle un bacio, ma mi tenni. Vide la mossa, e disse argutamente: — Quella è la stella del nostro amore. Vogliamo darle un nome? — Diamole il tuo nome. A proposito, come ti chiami? — Mi chiamo Agnese.— Il nome di mia madre! — Non so dire se ciò mi piacque o mi dispiacque. Mi pareva quasi che quel nome a me sacro fosse profanato in quell’avventura. Poi dissi: — Poiché porti il nome di mia madre, dobbiamo condurci come se quella fosse presente — . Lei stava seria, ma non mi persuadeva: c’era in quella serietà non so quale ostentazione, che non mi faceva simpatia.
Fummo d’accordo che ci saremmo veduti tutte le domeniche, stessa ora e stesso luogo. Le passeggiate furono parecchie. Nella settimana mi mandava dei bigliettini. La scrittura era bella, ma non mancavano errori di ortografia e qualche sgrammaticatura. Talora io facevo il signor maestro, non senza sua noia. C’erano giornate intere e anche intere serate che non compariva: quella stanza mi pareva allora disabitata. Gliene facea motto, ma era sempre pronta qualche storiella. Io aveva fatto di lei il mio confidente, e le raccontava i miei pensieri e i miei casi della settimana. Lei aveva esaurito tutto il suo magazzino di tirate e di novelle, e mi lasciava dire, e poco parlava. Io non trovava miglior materia di discorso che le mie lezioni, e recitavo brani di poesia, e talora anche versi miei:
Cara, tu ben rammenti. In noi fu quasi Il vederci e l’amarci un solo istante. Come, non so. Cosi musico suono L’orecchio e il core in un sol tempo invade. |
Ora che ci penso, quello non era che un amore d’immaginazione. Non mi distraeva, non mi turbava, anzi era uno sprone acuto che mi scaldava la fantasia e rendeva geniali le mie lezioni. Il buon successo mi esaltava, e pensavo alla domenica quando ne avrei parlato con lei. Avevo una certa giovialità interiore, che mi rendeva piacevole il mio compito a scuola, soprattutto nel parlare improvviso, quando si esaminavano i componimenti. S’era già fatto un progresso; non si stava più alla lingua e alla grammatica; si guardava allo stile e anche alla tessitura.
Una sera capitò a leggere un suo lavoro un giovinetto di quindici o sedici anni, un biondino, bassotto, facile ad arrossire, e si chiamava Agostino Magliani. Il Marchese l’aveva caro, perché nel tradurre era corretto e castigato; e talora diceva scherzando: — Gracilino si, ma la cassa del petto è ben munita — . Non aveva fatto ancora cosa che tirasse gli occhi sopra di lui. Quel suo lavoro era intitolato: La donna. Andava piano e soave, con pronunzia chiara, e si faceva sentire, tanto che si fece subito un gran silenzio, come nei momenti solenni. Fini tra le approvazioni.
— Ecco una prima rivelazione, — diss’io, parola che poi spesso mi veniva sul labbro. E volevo dire che in quel lavoro s’era rivelato l’ingegno. Non volli interrogare nessuno, com’ero solito; ma parlai io subito. Il lavoro era di genere didascalico, come avrebbe detto il Marchese. Il piccolo autore senza frasi e senza enfasi faceva le lodi della donna, con un discorso così chiaro e così bene ordito, ch’io potei riprodurne a memoria tutte le parti per filo e per segno. — Che memoria! — dissero i giovani maravigliati. E io di rimando: — Merito non mio, ma dell’autore, che ha fatto questa mirabile orditura, e s’è rivelato uomo d’ingegno — . Il tema era bello; io ero in vena, e parlavo con quel mezzo riso sulle labbra, che esprime l’interna soddisfazione. Finii contento di me, tra gli applausi. Quella sera fu una festa.
La domenica era aspettatissima. Parlavo con lei de’ miei successi, e m’esaltavo della mia stessa esaltazione. Venne un tempo che lei si annoiò di quella vita, voleva stringere un po’ più le cose. — Sono stanca, — diceva alcuna volta; — questo camminare così lungo mi toglie la lena; dovresti trovar modo che ci potessimo parlare senza tanto fastidio. — Vengo a casa tua. — Mia mamma non vorrebbe. — E chi è tua mamma? — È una lavandaia, — mi disse lei a bruciapelo e fissandomi. Io non mostrai sorpresa: questo le piacque. Dissi: — A casa tua no; a casa mia né tampoco. — E perché no? — Se non ci fosse zio Peppe! — Zio Peppe non è un orco. — No, no. Zio Peppe non vuole — . Una sera, erano tre ore di notte. Zio Peppe s’era coricato e russava potentemente. L’uscio era socchiuso. Entrò lei, e io voleva menarla in salotto. — No, — disse lei, resistendo. Io le parlava a voce alta. — Zitto, — disse lei, — che non si svegli. Menami piuttosto da là. — Ma di là è la cucina. — E sia, — disse lei. Entrando, ci giunse un urlo: — Ciccillo! — Lei scappò, io corsi a lui. — Che rumore è questo? — Io sostenni che rumore non c’era.
Il di appresso fui in casa di un tal don Vincenzo, un giovane chirurgo che mi faceva l’amico, e abitava nella stessa strada. Scherzando, io gli contai il fattarello, l’urlo di zio Peppe e la fuga della mia bella. Egli parlava un po’ alla libera, e mi andava motteggiando sulla mia scelta. Io gli feci mille scongiuri, che la era una giovane per bene, e purissima e virtuosissima, e gli raccontai le passeggiate. Lui mi seguiva, facendo caricature col muso. D’una parola in un’altra, mi usci detto che il suo nome era Agnese, e che abitava di faccia a me. Allora colui scoppiò in una potente risata, lungo tempo trattenuta, sì che io vedea quasi l’interno della sua gola. Mi narrò che quella virtuosa giovane andava spesso a fare una scampagnata coi belli giovinotti, e passava la notte fuori, e a lui stesso incontrò di averla in un giardino, che faceva la schizzinosa e fingeva le convulsioni, con la bava sulle labbra. Orrore!
Quella notte non ebbi pace. Ricordai le intere giornate che non compariva. Ci credevo e non ci credevo. Ero di un animo così delicato, che nella passeggiata non le dissi nulla. Solo le facevo un risolino equivoco. Le dissi che volevo andare a casa sua. Fece un po’ la ritrosa. Una sera ci fui, e l’incanto finì. Quella stanzetta, che innanzi all’occhio dell’immaginazione pareva un tempietto d’amore, mi fece turare il naso, così era sudicia. La trovai insipida, mera materia di piacere. Ella che aveva molta finezza, fiutò il mio disgusto. Il domani mi giunse questo vigliettino: «Carino. Con un po’ più di pazienza e di garbo ti avrei fatto mia vittima. Del resto, quel brutto zio Peppe mi ha fatto il tiro».
Così finì l’avventura.