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reminiscenze 123


Avrei voluto darle un bacio, ma mi tenni. Vide la mossa, e disse argutamente: — Quella è la stella del nostro amore. Vogliamo darle un nome? — Diamole il tuo nome. A proposito, come ti chiami? — Mi chiamo Agnese.— Il nome di mia madre! — Non so dire se ciò mi piacque o mi dispiacque. Mi pareva quasi che quel nome a me sacro fosse profanato in quell’avventura. Poi dissi: — Poiché porti il nome di mia madre, dobbiamo condurci come se quella fosse presente — . Lei stava seria, ma non mi persuadeva: c’era in quella serietà non so quale ostentazione, che non mi faceva simpatia.

Fummo d’accordo che ci saremmo veduti tutte le domeniche, stessa ora e stesso luogo. Le passeggiate furono parecchie. Nella settimana mi mandava dei bigliettini. La scrittura era bella, ma non mancavano errori di ortografia e qualche sgrammaticatura. Talora io facevo il signor maestro, non senza sua noia. C’erano giornate intere e anche intere serate che non compariva: quella stanza mi pareva allora disabitata. Gliene facea motto, ma era sempre pronta qualche storiella. Io aveva fatto di lei il mio confidente, e le raccontava i miei pensieri e i miei casi della settimana. Lei aveva esaurito tutto il suo magazzino di tirate e di novelle, e mi lasciava dire, e poco parlava. Io non trovava miglior materia di discorso che le mie lezioni, e recitavo brani di poesia, e talora anche versi miei:

Cara, tu ben rammenti. In noi fu quasi
Il vederci e l’amarci un solo istante.
Come, non so. Cosi musico suono
L’orecchio e il core in un sol tempo invade.

Ora che ci penso, quello non era che un amore d’immaginazione. Non mi distraeva, non mi turbava, anzi era uno sprone acuto che mi scaldava la fantasia e rendeva geniali le mie lezioni. Il buon successo mi esaltava, e pensavo alla domenica quando ne avrei parlato con lei. Avevo una certa giovialità interiore, che mi rendeva piacevole il mio compito a scuola, soprattutto nel parlare improvviso, quando si esaminavano i componimenti. S’era già fatto un progresso; non si stava più alla lingua