La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XXI. Cose di lingua
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XXI
COSE DI LINGUA
In quest’anno feci un corso sulla lingua. Non c’era un concetto chiaro di cosa dovess’essere una lingua. Alcune parti erano nella grammatica, altre nella rettorica; nel vocabolario c’era un materiale morto, come un pezzo anatomico, con copia di significati e di esempi, in confuso, come una tiritera senza lume di storia né di filosofia. Ora anche qui erano penetrate la scienza, la storia, l’erudizione. Mi erano familiari gli studi sulla lingua del Perticari, del Monti, del Cesarotti, del Cesari, oltre gli antichi del Cinquecento e del Seicento. M’immersi subito nelle quistioni più delicate di quel tempo. Tenni come sovrano arbitro delle cose della lingua l’uso dei buoni scrittori; se non che allargai il numero di questi di là dai confini voluti dalla Crusca. La mia inclinazione mi tirava tra i ribelli a quel tribunale; stavo più volentieri col Torto e diritto del padre Bartoli e con Vincenzo Monti. Vedevo che di tutto quasi c’era esempio, e che la lingua non era un corpo morto che si potesse regolare con gli scrittori, come il latino. Nei casi dubbi davo una grandissima importanza all’uso vivo, e mi erano bene accette anche parole nuove non registrate nel vocabolario, ma sonanti nella bocca del massaio o del gastaldo. Né mi faceva orrore qualche parola o frase uscita dal dialetto; anzi mi pareva che i dialetti italici fossero per l’uomo di gusto fonte viva e fresca di buona lingua, specialmente per ciò che riguarda le frasi e le immagini e le figure. Il mio principio era che potesse entrare nella lingua comune quanto nei dialetti potesse esser capito e avesse una certa conformità di genio e di andamento con quella. La lingua comune era per me come l’aristocrazia, la quale sarebbe un corpo morto, ove non avesse la forza di assimilarsi e assorbire elementi di altre classi. — Quanto ai gallicismi, facciamo pur la guerra, — dicevo, — e purghiamo la lingua da questa infezione straniera, ritirandola verso l’antico; ma se l’uso si ostina a conservarne qualcuno, dobbiamo noi cozzare contro l’uso? — Questo linguaggio, in quell’atmosfera impregnata di purismo, sentiva già di ribelle, ed era riferito come uno scandalo al marchese Puoti. Io me ne difendevo vivamente; ma ero già un ribelle senza saperlo, e mi accusava il rossore del volto. Peggio poi quando venivo all’uso della lingua, e a quello che diceasi elocuzione. Sostenevo che l’importante era meno di scriver puro che di scriver proprio, ed al dogma della purità avevo sostituito il dogma della proprietà e della precisione. Volgendo l’attenzione più al contenuto che alla forma, veniva capovolta la base della grammatica e della lingua, e si riusciva a opinioni assolutamente diverse dalle correnti. Lo spirito, concentrato nella parola o nella frase, si avvezzava a guardare di sotto, a cercare il pensiero, a preferire non la frase più pura, ma la frase più propria e più esatta, che fosse, come dicevo io, lo specchio del pensiero. Perciò non mi piacevano i pleonasmi, i ripieni, le riempiture, le perifrasi, le circonlocuzioni, le parentesi, i lunghi e armoniosi giri del periodo, l’abuso delle congiunzioni e delle inversioni. Tutto questo era roba da esser gittata a mare. Naturalmente la pratica non rispondeva per l’appunto alla teoria. Non era facile svezzarci da molte radicate abitudini, e bruciare oggi gl’idoli adorati ieri. Ne nasceva una disuguaglianza, non so che di grottesco: il vecchio uomo non era ancora cancellato, l’uomo nuovo non era ancora formato, e mal vivevano insieme. Cosi nella scuola i mercoledì erano puristi, e sentivi non di rado, nelle correzioni del Marchese, il «perché», «consiossiaché», «manifesta cosa è»; nelle letture ti venivano all’orecchio molti riboboli e anticaglie, che avevano la loro condanna nella critica e nelle teorie. Il pensiero era libero; la pratica era ancora servile.
Dotato d’una certa misura intellettuale, che non mi consentiva nessuna esagerazione, le mie novità erano in tali termini, che se non appagavano puristi e lassisti, neppure gl’irritavano. Io era un juste milieu. E non pensavo a questi o a quelli, pensavo a dire il vero. La mia mira non era punto a surrogare il Puoti ed a porre innanzi il mio personcino; anzi io avevo sempre il suo nome in bocca, e avevo l’aria di spiegare le sue dottrine, di essere il suo interprete. Però volevo che quelle dottrine fossero purgate da quelle esagerazioni che si attribuivano al Marchese, e, così facendo, credevo difenderlo dai suoi avversarii. Perciò le mie temerità mi erano perdonate volentieri, e io mi applaudivo di aver trovato modo di piacere al vero senza dispiacere a lui. In questo c’era un po’ di malizietta inconscia, ma anche la mia natura lontana dalle piccole passioncelle di pensiero e di linguaggio. Una sera feci una lunga lezione sul modo di arricchir la lingua senza corromperla, dove i puristi pretendevano che la lingua fosse già ricca, anzi troppo ricca, e non si dovesse pensare che a purificarla. Io chiamava costoro falsi puristi, che guastavano la loro causa, e difendeva e glorificava il vero purismo. Cosi più tardi ci furono anche i veri e i falsi liberali. Terminai quella lezione con un panegirico del vero purismo, che non si arresta al Trecento, e non mette le parole in cima al pensiero, e non imita gli arcadi e i retori. Andavo innanzi, tonando contro i calunniatori, che accagionavano i puristi di quello che si potea dire al più degli ultra-puristi o falsi puristi.
Il di appresso fui dal Marchese, com’ero solito, e vi trovai Gatti, Cusani e parecchi altri. La scuola del Marchese non era quasi più altro che una conversazione rumorosa ed allegra, nella quale si ciarlava di tutto, a cominciare dalle novelle del giorno. Il Marchese serbava tutta la sua vivacità sollazzevole; ma nel vedermi fece il muso arcigno. «Tempesta ci cova» pensai io, e salutai. Là ero discepolo tra discepoli, e dei più umili. Il Marchese, nelle sue maggiori collere, non osava mai investirmi e apostrofarmi: il mio contegno taciturno e freddo, la mia aria innocente lo trattenevano. Anche allora sfogò la sua ira per indiretto. Parlò delle monellerie di Pier Angelo Fiorentino e delle velleità di Vaccaro Matonti, «discepoli ingrati come qualche altro», disse, e guardò a me. Io sentii la punta e mi scolorai. E il Gatti mi toccò il gomito ridendo, e disse: — Già, ti è venuto il ticchio di fare il filosofo. — Assai meglio di te, — risposi io, che, non potendomi sfogare col Marchese, me la presi con lui. Ed egli mi venne su col pugno stretto, adirato non delle parole, ma del tono stizzoso. Si pose di mezzo il bravo Cusani con buone parole, e ci rappaciò. Il Gatti stimava sé gran filosofo, e gli sapea male che altri gli volesse fare concorrenza. Cusani dato agli stessi studi aveva maggiore ingegno, ed era mitissima natura d’uomo. Ed ecco venirmi incontro il Marchese e prendermi per mano familiarmente e dirmi: — Sai, mi aveano male informato. Dicono che tu hai fatto le lodi dei puristi — . Io rimasi confuso. Pensavo che qualche cicalone gli aveva dovuto travisare la mia lezione, e qualche benevolo gliel’aveva mostrata da un altro lato. Vedendomi sospeso, disse: — Eh! giovinetto, vuoi forse ch’io ti chieda perdono? — Mi scappò una lacrima e lo guardai commosso. Poi con la mia schiettezza, gli dissi: — Io ho lodato i puristi veri, come voi; ma ho dato addosso agli ultra-puristi, come sono certuni che vi riferiscono male le mie lezioni — . E guardai intorno; ma nessuno mosse collo. Il Marchese si pose tra noi come un generale che si pone al centro del quadrato, e disse: — Figliuoli, il purismo è uno: non c’è vero e falso purismo. Chi fa questo distinguo, non ci crede più — . Poi fece una lezione a braccia. — Non si tratta, — diceva, — di arricchire la lingua; la nostra lingua è copiosissima più che ogni altra di vocaboli e di modi di dire, e si vuole scerre il più bel fiore, e gittar via le scorie e le male erbe — . Su questo tuono disse molte belle cose. La gragnuola veniva tutta addosso a me; ma io stava li ritto e insensibile, come se non mi accorgessi di nulla. Restammo pochini. Il Marchese, che mi vedeva bene e conosceva la mia modestia e la mia sincerità, e come io l’aveva in luogo di padre, disse: — Senti, Francesco, lasciami stare tutte queste teorie che sono cianciafruscole, e batti al sodo: lettura e composizione.
Andai via pensieroso. Lettura e composizione erano il mio cavallo di battaglia. La mia natura mi tirava appunto al concreto; nelle mie analisi, sia che avessi innanzi qualche brano da esaminare, sia che avessi qualche componimento da criticare, sentivo più diletto e più sicurezza che nelle astrazioni, e mi c’immergevo tanto, che talora finivo rauco, stanco, ma non sazio. Dimoravo mal volentieri nell’astratto, e ne scendevo subito, per pigliar fiato e luce. Anche in mezzo alle astrazioni moltiplicavo gli esempli e le applicazioni, copioso d’immagini e di colori, non tanto per naturale inclinazione, quanto per sentimento e dovere di maestro. Io era un maestro nato, e quando vedevo nella faccia dei giovani un’aria impersuasa, girava e girava il pensiero, insino a che non vedeva su’ loro volti quella luce ch’era nel mio intelletto. Dicevo spesso ai giovani, ch’io dovevo scendere fino a loro per poterli innalzare sino a me. «Dunque, lettura e composizione, sissignore»; il Marchese parlava a un convertito. Cosi camminavo e fantasticavo; poi mi veniva un riso, che la gente mi doveva prendere per pazzo, e dicevo tra me e me: «Ma, caro Marchese, come ti viene il grillo di dirmi: Francesco, lasciami stare le teorie? E come si fa a cacciarle via queste teorie? Debbo forse smettere il mio corso sulla lingua? Questo ci vorria; i giovani mi lapiderebbero. Ma se queste teorie mi si sono ficcate nel cervello, debbo io cambiarmi il cervello?». Poi mi saliva la senapa al naso, pensando a quei birboni che volevano mettere zizzania tra me ed il Marchese, e non mi facevo capace come potesse esservi gente di simil conio. Giunsi a casa, e mi gittai per morto sopra un sofà, stanco non del cammino, ma dei pensieri. Venuto più tranquillo, m’intenerii molto, ché mi ricorse alla mente la paterna bontà del Marchese, e mi proposi di star guardingo per non dispiacergli. E per qualche tempo mi chiusi la bocca, lasciando stare scrittori moderni e francesi, e seppellendomi fra i trecentisti. Sospesi anche, sotto questo o quel pretesto, il calunniato mio corso; ma i giovani non potevano star saldi, e facevano atti d’impazienza, e dicevano: — Professore, e il corso? Quando ricominciamo il corso? — C’era pure qualche sentore della scena avvenuta in casa del Marchese. Io feci come il cantante che si fa pregare; parevo spinto da loro, ma ci avevo il mio gran piacere.
Base del mio corso era non la purità, ma la proprietà. Le forme erano per me dei fenomeni, di cui cercavo la spiegazione nel loro significato, ch’io chiamavo il contenuto. Un tal modo di considerare la lingua era tutt’una rivoluzione, di cui io stesso non capivo la portata. A questo modo la lingua, come la grammatica, aveva un metodo nuovo, e conduceva a nuovi risultati. Dal senso proprio passai al traslato, e ridussi tutti i traslati o tropi di cui una lista infinita e arbitraria era nelle rettoriche, in due sole categorie, traslati di estensione e traslati di comprensione. Io mi andava baloccando tra il Cesarotti e il Dumarsais. Avevo un immenso materiale, che andavo volgendo e rivolgendo a mia posta; non ero sistematico, anzi abborrivo dai sistemi: ciascun sistema era per me una esagerazione, e andavo navigando tra loro con la mia bussola, nella quale avevo molta fede, ed era un certo buon senso, una dirittura di giudizio, che mi rendeva sicuro di me. Il mio cervello era una fabbrica di teorie, e mutando il punto di partenza, capovolgevo la base, dilettandomi di foggiar sistemi nuovi a mio comodo. Con giovanile audacia mi ponevo facilmente giudice tra gli autori, menando sferzate di qua e di là. Il mio studio era volto principalmente a ridurre le varie esagerazioni nella giusta misura. Questo si vide soprattutto nelle ultime lezioni, che furono sulla lingua del Trecento. Feci una storia dei migliori trecentisti, accompagnata da giudizi brevi e precisi, e notai i pregi e i difetti di quella lingua, navigando così destramente tra le esagerazioni degli uni e degli altri, che i novatori non ne furono scontenti, e il Marchese mi diede un bravo. Pure io non ci misi malizia; il mio intelletto era fatto così, e pareva arte quello ch’era natura. Mi è saltato innanzi fra i tanti miei scartafacci un sunto di questi discorsi, essendo mio costume di notare per iscritto i concetti più importanti delle mie lezioni. Quel sunto mi è parso magro e plebeo. Ero solito rifrugare quei concetti in me, e lungamente meditarvi sopra, e poi, parlando, mi rivenivano, ma con più luce e più energia. Quel sunto mi è parso il mio cadavere. Chi mi dà l’uomo vivo? Chi mi dà tanta parte di me, consumata in quel tripudio di un cervello esaltato, mosso da una forza allegra? Tutto questo è morto nel mio spirito, e non posso risuscitarlo. E morte sono quelle analisi e quelle critiche, una collaborazione, nella quale giovani e maestro entravano in comunione di spirito, ed in quell’attrito mandavano scintille. A che giovano le memorie? Di noi muore la miglior parte, e non ci è memoria che possa risuscitarla.