La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/XI. Solo
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XI
SOLO
Stavo così isolato in mezzo alla famiglia, con l’animo altrove. La mia vita era giorno per giorno, senza disegno, senza avvenire e senza studi. Dell’insegnare m’ero annoiato; pur facevo puntualmente il mio dovere, ma come si fa un mestiere. Le famiglie, vedendo continuare la malattia dello zio, e non confidando in un giovinetto che aveva egli stesso bisogno di scuola, menavano via i loro figli. Si fiutava poco lontana una catastrofe. Le difficoltà della vita inasprivano i caratteri. Io era come un uccello che ha messe le prime piume, e sta per prendere il volo. Quella casa dove mi sentivo poco amato, mi pareva una prigione. Quando mi vedea in istrada, mi si schiariva la faccia, mi sentivo il respiro più libero. Traevo profitto da ogni ritaglio di tempo, per fare le mie lezioni private, e ne avevo già parecchie. Il Marchese, che mi aveva in grande stima, soleva affidare a me l'incarico di apparecchiare alle sue lezioni i giovani più scarsi nell’italiano e nel latino. Cosi mi trovai maestro del Fernandez e di un tal C...
Costui era un furfante, che mi promise di pagare alla fine dell’anno, e dopo di avermi ben bene sfruttato, a me che gli ricordavo la promessa, rispose con una lettera villana, conchiudendo col minacciare. Rimasi attonito, come innanzi a cosa incredibile, e mostravo la lettera a tutti, e la collera mi schizzava dagli occhi, e tutti dicevano, stringendosi nelle spalle: — Cosa volete? gli è un camorrista — . Era la prima volta che questa brutta parola mi giunse all’orecchio. L’indifferenza di tutti mi recò non meno stupore che l’audacia di quello. «Gli uni degni dell’altro», pensai. Per me, l’avrei preso per la gola. Non mi pareva possibile il trionfo della forza brutale sulla giustizia. Un di scendevo per la via di San Sebastiano, ed ecco che mi viene di faccia quel tale, e io lo investo con parole pronte e focose. Colui, colto così all’improvviso, e forse colto dalla vigliaccheria propria dell’uomo insolente, si turbò, balbettò qualche parola, e tirò diritto. Quello per me fu uno sfogo, mi sentii più leggiero.
In quell’anno non potevo andare dal Marchese così di frequente, come per lo passato. Non mancavo alle mie lezioni la sera; ci andavo regolarmente tutti i giovedì e le domeniche e lavoravo sempre con lui alla grammatica. Allora il Marchese si faceva assistere da Gabriele Capuano, uno degli Eletti, giovane di famiglia patrizia, di una educazione squisita, e bravo amico, al quale mi affezionai molto. Aveva quel certo sorrise di distinzione che esprime un’incosciente superiorità; ma vi univa un così buon garbo, ch’io mi sentivo soggiogato, e pendevo dalle sue labbra. Andavo spesso e volentieri con lui; mi menò in sua casa, e presi a far lezioni di latino a suo fratello Ciccillo. Mi davano i soliti trenta carlini. Quest’amicizia mi fece molto bene in quello stato solitario dell’anima. Chiuso per natura, con lui mi si scioglieva lo scilinguagnolo, mi veniva la chiacchiera. Pure, quel suo contegno più cortese che affettuoso mi rendeva timido; non c’era abbandono.
In queste lezioni private avevo più piacere che in quelle date in classe a casa mia. Il mio naturale affettuoso era più appagato in conferenze, nelle quali il linguaggio di maestro era mescolato con l’accento d’amico. Ma uno dei miei più vivi piaceri era il fare grandi passeggiate da solo a solo, cosa tanto più cara, quanto più rara. D’ordinario andavo per Capodimonte e talora mi facevo una camminata a piedi fino a Portici o alla punta di Posilipo o su al Vomero. Camminavo frettoloso, a testa bassa, abbandonato alla immaginazione, e facevo la faccia brutta quando qualcuno mi si avvicinava. Andavo occhieggiando qua e là, ma con lo sguardo distratto, senza scopo: ero tutto dentro di me. Talora qualcuno piú ostinato mi si attaccava a panni, e voleva per forza entrare in conversazione. Io non era buono a parlare di altro che di studi, e mi ci riscaldavo e gridavo forte e gestivo ancora più, a gran sorpresa e noia del malcapitato, che andava via pensando: costui è troppo grand’uomo per me. I discorsi di moda e di avventure galanti, i sozzi parlare mi seccavano: giungevano appena al mio orecchio. Anche quel parlar dei fatti altrui, quel contare le scempiaggini o le monellerie di questo e di quello mi trovava distratto.
I momenti più deliziosi li passavo nella scuola del Marchese. Pochi andavano via; c’erano sempre nuovi venuti; la discussione de’ lavori mi allettava; la lettura era sempre di cose nuove; più che una scuola, pareva quello un trattenimento letterario; era una varietà, quasi uno svago nella monotonia della mia vita. Il Marchese s’era un po’ infastidito de’ novizii, e si volgeva più volentieri agli Eletti e agli Anziani; la moltitudine ci stava come gli spettatori nella platea. Cominciavano i trecentisti a esser messi in disparte; si venne al Quattrocento e al Cinquecento e anche un po’ al Seicento. Quelle letture fatte alla buona, accompagnate dai gesti e dalle esclamazioni del Marchese, facevano in me una impressione incancellabile. Non avevo letto ancora nulla del Poliziano; una sera furono lette alcune delle sue ottave con ammirazione di tutti; il Marchese non potea stare fermo e dava di gran pugni sul tavolo; anche oggi mi sta nell’orecchio quella musica che ci rapiva tutti, maestro e discepoli. Il Boccaccio e Dante e il Petrarca erano «serbati per le frutta», come diceva il Marchese, e voleva dire che s’avevano a leggere in ultimo. Ma l’ordine era rotto; gli Anziani avevano preso la mano. Si lesse una predica del Segneri sul giudizio finale; una descrizione della chiocciola di Daniello Bartoli, per il quale sentiva il Marchese un entusiasmo che non giungeva a comunicare: c’era qui il riflesso e l’eco di Pietro Giordani, gran trombettiere a quel tempo del Bartoli. Insieme con questi seicentisti si leggeva la novella del Gerbino o la descrizione della peste o la Griselda del Boccaccio, e le «Chiare, fresche e dolci acque» e le «tre sorelle» sugli occhi di Laura, e il celebre «Levommi il mio pensiero», e parecchi altri sonetti del Petrarca, e i primi canti di Dante, e del Purgatorio e del Paradiso certi luoghi piccanti, come il Sordello e la collera di san Pietro. Queste cose che avevo lette da solo, tra molta gente e tra cosí vive impressioni acquistavano un nuovo sapore.
Non perciò i trecentisti erano dimenticati. Il Marchese, che lavorava a una grammatica, attendeva pure alla pubblicazione di alcuni testi di lingua più a lui cari, come i Fatti di Enea, i Fioretti di San Francesco, le Vite dei Santi Padri. Questi studi di lingua s’erano già divulgati nelle scuole, e si sentiva il bisogno di grammatica e di libri di lettura pei giovanetti. Il Marchese, intorniato dai giovani, attendeva a questo con gran fervore, tormentando dizionari e grammatiche. Voleva lasciare di sé un’orma durevole pei suoi cari studi; vagheggiava soprattutto una stampa del «soavissimo» Domenico Cavalca, ch’egli per semplicità e affetto metteva innanzi a tutti i suoi contemporanei. Una sera, non so come, gli tornò in mente quel frate suo favorito, e volle, come nei primi tempi, si leggessero alcune sue Vite. Fu data lettura di alcuni capitoli del sant’Antonio abate, e delle vite di sant’Eugenia e di santo Abraam romito. Se i Trecentisti fanno «spensare», come diceva Alfieri, certo è che la loro lettura svegliava gli spiriti più sonnolenti e vi suscitava immagini, colori, affetti. Nessun libro moderno trovava tanto la via del mio cuore, nessuno aveva quella sincerità e caldezza di sentimento, accompagnata con l’unzione e l’ingenuità del credente. La mia schiettezza quasi ancora fanciullesca, la mia perfetta buona fede, la mia facilità all’entusiasmo mi rendevano atto a cogliere le più delicate gradazioni di quei sentimenti. Mi ricordo anche oggi il tumulto che suscitò nel mio animo la lettura della vita di sant’Alessio; anche oggi mi tocca il core il grido della madre: «Fatemi loco, ch’io vegga quello che ha succhiato le mammelle mie»; e mi sdegno con lei contro i servi che «gli davano le guanciate». Questi modi di dire non li ho dimenticati più; ma mi è uscito di memoria tutto quel frasario convenzionale, che piaceva alla scuola, e che fu raccolto con tanta pena nei miei quaderni. Quel sant’Alessio non mi lasciò piú, mi correva appresso dove ch’io fossi. Una sera mi sentivo cosí tristo, che non volli uscire di casa insieme coi miei cugini, che passavano la serata presso zia Marianna. E sempre quel sant’Alessio mi stava innanzi, e pensai di scrivere una tragedia sopra questo argomento. La Merope del Maffei, il Saul dell’Alfieri, l'Aristodemo del Monti erano letture fresche, celate al Marchese; e feci la tela, e notai i personaggi, e caldo caldo, scrissi in poche ore il primo atto. Ci sentivo un gusto che mi alleggeriva l’umore; quegli endecasillabi mi venivano facilissimi sotto la penna. Parecchi giorni non pensai, non sentii che di Alessio: secondo il mio costume nessun’altra cosa mi voleva entrare in capo. Cosi in men che due settimane, quasi di un sol fiato, arrivai alla fine. Non mancavano le tirate e le descrizioni; pur qualche cosa era 11 che mi veniva dal cuore.
Avevo stretto amicizia con Enrico Amante, che abitava in un piccolo quartierino a Porta Medina, insieme con suo fratello Alberico. Egli era studente di legge, aveva fatto buoni studi di diritto romano, conosceva assai bene il latino e scriveva l’italiano latinamente. Il suo autore era Giambattista Vico; gli aveva fatto molta impressione quell’opuscolo dell’antica sapienza italica. Vedeva l’Italia in Roma; sembrava un antico romano italianizzato. Parlava come scriveva, alla maniera di Tacito, breve e reciso; era ingenuo e sincero nei suoi sentimenti. Ammirava tutto ciò che è grande e forte; sognava il risorgimento della gente latina, libertà, gloria, grandezza, giustizia. Odiava plebe e preti; c’era in lui anima fiera di patrizio. Lo studio dell’antichità aveva lasciato orme profonde in quello spirito giovanile; quei sentimenti non gli venivano da un’ammirarazione classica o rettorica, ma erano connaturati con lui, fatti sua carne e suo sangue. Non mi ricordo come ci vedemmo e conoscemmo; fatto è che nacque tra noi quella rara comunione di anime, che non si rompe se non per morte. A me parevano molto esagerate le sue opinioni; ma quella sua bontà e sincerità mi vinceva e in quelle sue stesse esagerazioni trovavo una grandezza morale e una caldezza di patriottismo, che mi destavano ammirazione. Andavo spesso in casa sua, e mi ci sentivo più tranquillo, più disposto al lavoro; gli parlavo de’ miei studi, del marchese Puoti. Egli aveva poca inclinazione alle cose letterarie; quella lingua ferrea di Vico gli piaceva più che tutti i lisci e gli ornamenti; non capiva a che fosse buona la poesia. Pure, la mia cultura letteraria, la mia varia erudizione, la sincerità delle mie opinioni e de’ miei sentimenti, la vivacità dell’ingegno e della parola me lo tenevano legato. In certi momenti che avevo nel core qualche puntura, mi sentivo alleggerire sfogandomi con lui. Presto divenne il mio amico intimo e confidente. Gli volevo leggere la mia tragedia; ma non osai, sapendo in quanto dispregio avesse poeti, frati e Santi. Era in lui più virilità che tenerezza; io capivo istintivamente che non potea piacergli quel lirismo sentimentale di sant’Alessio. — Non so che gusto ci è a leggere questi frati Guido e frati Cavalca — , mi disse una volta. La differenza di opinioni e di caratteri generava calde discussioni che stringevano ancora più la nostra amicizia.
Intanto Giacomo Leopardi era giunto tra noi. Avevo una notizia confusa delle sue opere. Anche di Antonio Ranieri non sapevo quasi altro che il nome. Il Marchese citava spesso con lodi l’abate Greco, autore di una grammatica, il marchese di Montrone, il Gargallo, il padre Cesari, il Costa e sopra tutti essi Pietro Giordani. Tra’ nostri citava pure il Baldacchini, il Dalbono, il Ranieri, l’Imbriani. Di tutti questi non avevo io altra conoscenza se non quella che mi veniva dal Marchese. Una sera egli ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi; lodò brevemente la sua lingua e i suoi versi. Quando venne il di, grande era l’aspettazione. Il Marchese faceva la correzione di un brano di Cornelio Nipote da noi volgarizzato; ma s’era distratti, si guardava all’uscio. Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il Marchese gli andava incontro. Il Conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli Anziani prese a leggere un suo lavoro. Il Marchese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improvviso a me: — E voi cosa ne dite, De Sanctis? — C’era un modo convenzionale in questi giudizi. Si esaminava prima il concetto e l’orditura, quasi lo scheletro del lavoro; poi vi si aggiungeva la carne e il sangue, cioè a dire lo stile e la lingua. Quest’ordine m’era fitto in mente, e mi dava il filo; era per me quello ch’è la rima al poeta. L’esercizio del parlare in pubblico avea corretto parecchi difetti della mia pronunzia, e soprattutto quella fretta precipitosa, che mi faceva mangiare le sillabe, ballare le parole in bocca e balbutire. Parlavo adagio, spiccato, e parlando pensavo, tenendo ben saldo il filo del discorso, e scegliendo quei modi di dire che mi parevano non i più acconci, ma i più eleganti. Parlai una buona mezz’ora, e il Conte mi udiva attentamente, a gran soddisfazione del Marchese, che mi voleva bene. Notai, tra parecchi errori di lingua, un onde con l’infinito. Il Marchese faceva si col capo. Quando ebbi finito, il Conte mi volle a sé vicino, e si rallegrò meco, e disse ch’io aveva molta disposizione alla critica. Notò che nel parlare e nello scrivere si vuol porre mente più alla proprietà de’ vocaboli che all’eleganza: una osservazione acuta, che più tardi mi venne alla memoria. Disse pure che quell’onda coll’infinito non gli pareva un peccato mortale, a gran maraviglia o scandalo di tutti noi. Il Marchese era affermativo, imperatorio, non pativa contraddizioni. Se alcuno di noi giovani si fosse arrischiato a dir cosa simile, sarebbe andato in tempesta; ma il Conte parlava così dolce e modesto, ch’egli non disse verbo. — Nelle cose della lingua, — disse, — si vuole andare molto a rilento — , e citava in prova Il Torto e il Diritto del padre Bartoli. — Dire con certezza che di questa o quella parola o costrutto non è alcuno esempio negli scrittori, gli è cosa poco facile — . Il Marchese, che, quando voleva, sapeva essere gentiluomo, usò ogni maniera di cortesia e di ossequio al Leopardi, che parve contento quando andò via. La compagnia dei giovani fa sempre bene agli spiriti solitari. Parecchi cercarono di rivederlo presso Antonio Ranieri, nome venerato e caro; ma la mia natura casalinga e solitaria mi teneva lontano da ogni conoscenza, e non vidi più quell’uomo che avea lasciato un così profondo solco nell’anima mia.
Conobbi in quel torno un tale Ambrogio C., che si spacciava parente del marchese Puoti. Mi faceva cortesie e lodi, e io, facile all’abbandono, gli dicevo tutti i fatti miei, come si fa a vecchio amico: una facilità di cui mi sono pentito spesso. Mi fece visita, e gli mostrai una montagna di manoscritti miei. C’erano lì dentro compendi di libri filosofici e legali, e trattateli scolastici, e quaderni di frasi e di sentenze e di pensieri e di proverbi, e i miei scritti giovanili, lettere, novelle, racconti, descrizioni, ritratti, fino la mia tragedia di sant’Alessio. Rimase stupito di quella ricchezza e di tanto lavoro; e mi chiese a imprestito tutta quella roba per potervi studiare a suo agio. Non seppi dir di no. Colui studiò, studiò e studia ancora, perché quei manoscritti non sono tornati più, e di lui non ho avuto più notizia. Così rimasi solo per davvero. Quei manoscritti erano stati i miei compagni nelle ore malinconiche. In casa non mi ci potea più vedere, e già col pensiero dimoravo in compagnia del mio caro Enrico.