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56 la giovinezza

parola me lo tenevano legato. In certi momenti che avevo nel core qualche puntura, mi sentivo alleggerire sfogandomi con lui. Presto divenne il mio amico intimo e confidente. Gli volevo leggere la mia tragedia; ma non osai, sapendo in quanto dispregio avesse poeti, frati e Santi. Era in lui più virilità che tenerezza; io capivo istintivamente che non potea piacergli quel lirismo sentimentale di sant’Alessio. — Non so che gusto ci è a leggere questi frati Guido e frati Cavalca — , mi disse una volta. La differenza di opinioni e di caratteri generava calde discussioni che stringevano ancora più la nostra amicizia.

Intanto Giacomo Leopardi era giunto tra noi. Avevo una notizia confusa delle sue opere. Anche di Antonio Ranieri non sapevo quasi altro che il nome. Il Marchese citava spesso con lodi l’abate Greco, autore di una grammatica, il marchese di Montrone, il Gargallo, il padre Cesari, il Costa e sopra tutti essi Pietro Giordani. Tra’ nostri citava pure il Baldacchini, il Dalbono, il Ranieri, l’Imbriani. Di tutti questi non avevo io altra conoscenza se non quella che mi veniva dal Marchese. Una sera egli ci annunziò una visita di Giacomo Leopardi; lodò brevemente la sua lingua e i suoi versi. Quando venne il di, grande era l’aspettazione. Il Marchese faceva la correzione di un brano di Cornelio Nipote da noi volgarizzato; ma s’era distratti, si guardava all’uscio. Ecco entrare il conte Giacomo Leopardi. Tutti ci levammo in piè, mentre il Marchese gli andava incontro. Il Conte ci ringraziò, ci pregò a voler continuare i nostri studi. Tutti gli occhi erano sopra di lui. Quel colosso della nostra immaginazione ci sembrò, a primo sguardo, una meschinità. Non solo pareva un uomo come gli altri, ma al disotto degli altri. In quella faccia emaciata e senza espressione tutta la vita s’era concentrata nella dolcezza del suo sorriso. Uno degli Anziani prese a leggere un suo lavoro. Il Marchese interrogò parecchi, e ciascuno diceva la sua. Poi si volse improvviso a me: — E voi cosa ne dite, De Sanctis? — C’era un modo convenzionale in questi giudizi. Si esaminava prima il concetto e l’orditura, quasi lo scheletro del lavoro; poi vi si aggiungeva la carne e il sangue, cioè a dire lo stile e la lingua.