La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/II. Zio Carlo

La giovinezza - II. Zio Carlo

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II

ZIO CARLO

Nostro zio abitava in via Formale, n. 24, terzo piano. Era una bella casa a due ingressi. A sinistra entravano gli scolari [p. 6 modifica]per un corridoio, che metteva in tre grandi stanze, l’ultima grandissima, con finestra e balcone, dove insegnava lo zio in persona. Nelle altre due stanze insegnavano due maestri aiutanti l’aritmetica, la storia sacra, il disegno. Il corso durava cinque anni, come oggi è nei nostri ginnasii, e comprendeva grammatica, rettorica, poetica, storia, cronologia, mitologia, antichità greche e romane. Mica male, come vedete. Molte cose s’imparavano in certi suoi manoscritti, come le antichità, la cronologia, il Portoreale. Aveva certi metodi suoi mnemonici, che allora mi parevano una meraviglia, e oggi mi paiono troppo meccanici. Le cinque classi stavano disposte tutte nella stessa stanza, le prime due più numerose nel mezzo, e le altre tre ai lati, e zio insegnava a tutte, l’una dopo l’altra. S’incominciava con la correzione degli scritti; poi c’era la costruzione e la spiegazione dei testi latini; in ultimo il recitare a memoria grammatiche, storie e poesie. Si spiegavano brani assai lunghi di scrittori latini e greci con un certo ordine che da Cornelio Nipote e da Fedro menava sino a Tucidide e a Tacito. Zio teneva molto a quest’ordine. Un giorno vidi molti libri in un cassone. — E che libri son questi? — dissi. — Sono la Storia Romana di Rollin e di Crévier, — disse lui, — ma non la puoi leggere se non quando sarai giunto alla terza classe. — Io stetti zitto; ma avevo una matta voglia di leggere; e in segreto mi divorai in pochi mesi tutti quei volumi. Me ne stavo chiuso nella mia cameretta da letto, che avevo comune con Giovannino, e leggevo leggevo. Una volta mi capitò il Telemaco, e mi c’ingolfai tanto che dimenticai il mangiare, e fu un gran ridere in casa. Leggevo tutto ciò che mi veniva nelle mani, soprattutto tragedie, commedie e romanzi.

Si meravigliavano della mia memoria, perché letto appena o udito un discorso anche lungo, ripeteva tutto per filo e per segno, e spesso parola a parola. Un grande esercizio di memoria era in quella scuola, dovendo ficcarsi in mente i versetti del Portoreale, la grammatica di Soave, la rettorica di Falconieri, le storie di Goldsmith, la Gerusalemme del Tasso, le ariette del Metastasio; tutti i sabati si recitavano centinaia di versi latini a memoria. In queste gare vincevo sempre io; pure questa facilità [p. 7 modifica] di memoria mi teneva stretto alle parole e mi toglieva l’impressione delle cose. Spesso Giovannino intendeva meglio di me e sentiva più finamente.

In quella prima febbre di lettura ci capitarono i romanzi di Walter Scott. Leggevamo in segreto come fosse un delitto. Giovannino ci lesse il Leicester, a me e ad alcuni compagni e a qualche pensionista che dimorava con noi, come Carlo Bosco, Amaduri. A noi pareva la rivelazione di un mondo nuovo. Come ho pianto per quel povero Tressilian! e ne movevo rimprovero alla bella Anny, che preferiva a quell’uomo dotto e buono il galante Leicester. Ma Giovannino diceva che aveva buon gusto, e rimaneva io solo del mio avviso. Ero frenetico contro Vamey, il traditore e l’uomo falso, caratteri i quali fin d’allora mi furono antipatici. Giovannino leggendo ci spiegava tutto e ci notava le bellezze. Io era come una corda che suonava al tocco delle dita; ma il maestro di musica era Giovannino. Nel mio cervello entravano troppo più cose che non potessi digerire.

Ciò che mi colpiva in queste letture e restava più impresso nella facile memoria, era la parte fantastica e sentimentale. Le sventure m’impressionavano grandemente, e innanzi al mio cuore avevano ragione i vinti, quelli appunto a cui la storia dava torto. Sentiva molta tenerezza per Pompeo, la quale si convertiva in altrettanto odio contro Cesare. Chi avesse di loro ragione, e quali cause rappresentassero, e cos’era l’aristocrazia e la democrazia, il senato e la plebe, non c’entrava nel mio cervello. Ciò che c’entrava e mi commoveva molto era il dramma in se stesso, la parte poetica, soprattutto le descrizioni delle battaglie e le catastrofi finali, e mi piaceva molto il Goldsmith, ch’era eccellente in queste rappresentazioni. Giunsi con le mie letture sino alla formazione dell’Impero d’occidente e d’oriente. Come andavo più in là, trovavo un laberinto, e me ne spaventavo. Poi la rappresentazione diveniva sempre più arida e scolorita, e non ci pigliava parte il cuore e me ne veniva noia. I miei favoriti erano Epaminonda e Anni baie. Pigliavo tanto interesse per questi fatti e persone storiche, che battagliavo in favore o contro con una passione, con una concitazione di voce, come se di là pendesse la mia vita o la mia morte. [p. 8 modifica]

Qualche sera zio era solito di condurci in un caffè nella strada Maddaloni. Si faceva una piccola conversazione. C’era un tal don Pietro Nicodemo, uomo erudito e sollazzevole, e don Nicola del Buono, un dotto sacerdote, che insegnava lettere latine e mi veniva zio dal lato materno. Aveva voce di uomo ricco, e stava solo e zio mi diceva: — Perché non cerchi di affezionarti don Nicola? Egli ti è zio, e potrebbe chiamarti a sé e mantenerti lui — . Una sera dunque andammo a quel caffè. E venne il discorso sulla storia romana. Zio aveva fatto molte lodi del mio sapere, e don Nicola per provarmi mi domandò così all’improvviso quale fosse miglior capitano, o Cesare o Annibale. E io risposi subito: — Annibale, — con l’aria sicura di chi non ammette il dubbio. Ed egli raggrinzò il naso grosso e lungo, e disse: — No, Cesare, — con l’aria d’un pedagogo che sta per tirarti le orecchie.— Che Cesare! — diss’io incapricciato, e non sentivo lo zio che mi toccava i piedi e mi dava le occhiate. Tirato dalla foga, andavo innanzi con voce concitata e con gesti vivaci, come cavallo che ha perso il freno. — Che Cesare! — dicevo io. — Cesare vinse i Galli che erano barbari e ignoranti della guerra, e poi con le sue legioni agguerrite gli fu facile vincere i soldati effemminati di Pompeo. Ma Annibale batté i Romani, ch’erano i primi soldati del mondo, con un esercito raccogliticcio, che condusse attraverso i Pirenei e le Alpi con una marcia che Cesare non avrebbe osato pur di concepire. — Don Nicola s’era fatta la faccia tutta fuoco, ili naso pareva un peperone ardente, schizzavano gli occhi, mi par di vederlo, e batteva i pugni sul tavolo, e gridava più di me, perché non voleva parere innanzi a don Pietro che un fanciullo gli prendesse la mano. Don Pietro infine si pose in mezzo con qualche barzelletta, e poi ci recitò un sonetto sopra Cesare, credo io, che terminava con questo verso:

Ecco in un pugno il vincitor del mondo.

Ecco in un pugno il vincitor del mondo. Questo sonetto ci parve stupendo, secondo il gusto di quel tempo, che ci tirava al maraviglioso e al grandioso. Quando ci levammo, zio disse a don Nicola: — Che ti pare di Ciccillo? Come conosce bene la storia!— . E don Nicola rispose: — Si, ma [p. 9 modifica]è una testa dura, — e disse questo con una freddezza, che pareva significare: mai più ci rivedremo. E quando fummo per via soli, zio mi diede un forte pizzicotto al braccio, e mi fece gridare: -Ah! — . Poi disse: — Eh! testa dura, scrivi questo nei giorni nefasti, perché oggi tu hai perduto una bella fortuna — . Io aprii gli occhi, e non ne capii nulla, e andavo avanti tronfio con la testa alta, e parlavamo con Giovannino ancora di Cesare e di Annibale.

Non è possibile poi che io dica quale effetto avesse su me la parte fantastica della storia. Avevo una inclinazione naturale al rêve. Stavo spesso a testa china e taciturno, e zia Marianna ch’era come la governante di casa, talora mi dava un gran grido nell’orecchio, strillando: — Ciccillo! — . Io mi riscuoteva in soprassalto come da un sonno, e zio diceva: — Lascialo stare, quello pensa — . Io mi facevo rosso, perché al dir che io pensavo mi pareva una bugia. Io stavo così concentrato sotto il peso delle mie letture, che mi riempivano il cervello di fantasmi, e non mi lasciavano quieto. Nel mio cervello si formava come un mondo luminoso, nel quale vedevo quei fantasmi come persone vive, e sentivo le loro parole distintamente. E dimorando tutto dentro, non sentivo e non vedevo niente intorno a me. Quei fantasmi generavano altri fantasmi, ed io mi facevo il protagonista della storia, ed era sempre re, imperatore o generale, e davo di gran battaglie, con sapienza di apparecchi e di movimenti, e spesso questi sogni ad occhi aperti duravano più giorni.

Un giorno ch’era l’Ascensione, e l’uso era di mangiare i maccheroni con il latte, mi levai di tavola subito e assai prima degli altri, come soleva fare, perché divorava, non mangiava, e non sapeva cosa mi metteva in bocca. E andai difilato nell’ultima stanza con la testa piena. C’era nella testa la battaglia fra Tancredi e Argante, e Tancredi ero io, e presa in mano una squadra da compasso, assaliva vigorosamente Argante, e lo gittavo rovescio per terra, e mi pareva di montare sulle mura di Gerusalemme, e mi trovai sul davanzale della finestra col braccio teso in fuori agitando la squadra. Sul balcone dirimpetto stava [p. 10 modifica]una signorina che al vedermi così levò un gran grido, ed io come risvegliato scesi. A quel grido corsero mio cugino e la zia e mi videro scendere, e riferirono tutto allo zio, il quale comandò fossi condotto innanzi a lui. Ma non ci fu verso. Io per vergogna m’ero chiuso nel licet, e non volevo uscire. Allora venne lo zio dentro, e mi tirò per il braccio, e disse afferrandomi per l’orecchio: — Ciccillo, oggi tu sei rinato; ricordati questo giorno— . E in verità, questo giorno dell’Ascensione non mi è uscito più di mente. Un’altra volta innanzi a un uditorio scolastico rappresentammo una così detta tragedia, che non era altro se non scene staccate del Tasso da noi impasticciate e declamate, e l’autore di questo bel pasticcio ero io, e molti erano i complimenti e le strette di mano, e io mi pigliavo tutto con l’aria di chi crede di meritare ancora di più.

A farla breve, in quei cinque anni di corso sapevo a mente una gran parte di Virgilio, di Livio, di Orazio, della Gerusalemme liberata e dei drammi di Metastasio, oltre un’infinità di frasi e di pezzi staccati dai molti libri che si erano studiati. Dalle letture particolari mi veniva un’enorme quantità di notizie, di aneddoti, di sentenze, tutto rimescolato cosí a casaccio nel mio cervello. Non c’era ancora un giusto criterio per distinguere l’utile, il bello, il vero, l’importante. In quella farraggine entravano con pari dritto anche le cose più goffe e più volgari. Le Notti di Young, le tragedie di Voltaire, la Sofonisba del Trissino mi parevano cose grandi. Soprattutto ero molto innamorato delle Notti di Young, e recitavo con grande enfasi i pezzi più romorosi. Avevo in capo un materiale enorme indigesto, che mi faceva l’effetto d’una grande ricchezza, e mi credevo da senno il più dotto uomo d’Italia, e avevo appena quindici anni. Certo, nessuno dei miei compagni aveva letto tanti libri, sapeva tante cose. C’era di che averne il capogiro. Parlavo con gli occhi che mi scintillavano, con gesti pronti e risoluti, e mi perdonavano tutto, mi accarezzavano il mento, come a un caro fanciullo viziato. Ma, a trarre il sugo, di greco sapevo poco, il latino non mi entrava se non dopo laboriosa costruzione, e non ero in grado di leggerlo e tanto meno di scriverlo; scrivevo l’italiano [p. 11 modifica]in uno stile pomposo e rettorico, un italiano corrente, mezzo francese, a modo del Beccaria e del Cesarotti, ch’erano i miei favoriti. Cosi con molta presunzione, con grossa e confusa suppellettile, ma con giudizio poco, usciva da quei cinque anni di studio.