La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/I. Mia nonna

La giovinezza - I. Mia nonna

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La giovinezza e studi hegeliani La giovinezza - II. Zio Carlo

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I

MIA NONNA

Ho sessantaquattro anni, e mi ricordo mia nonna come morta pur ieri. Me la ricordo in cucina, vicino al foco, con le mani stese a scaldarsi, accostando un po’ lo scanno, sul quale era seduta. Spesso pregava e diceva il rosario. Aveva quattro figli, due preti e due casati. Uno era in Napoli, teneva scuola di lettere e si chiamava Carlo; gli altri due stavano a Roma esiliati per le faccende del ’21, ed erano zio Peppe e zio Pietro; il quarto era papá, che stava a casa e si chiamava Alessandro. Mia nonna era il capo della casa, e teneva la bilancia uguale tra le due famiglie e si faceva ubbidire.

I primogeniti erano Giovannino e Ciccillo, ch’ero io. Si stava allegri, e si faceva il chiasso, correndo per l’orto, e l’inverno riempiendo di allegria i sottani di casa. Molti fanciulli si univano a noi, e si faceva un gran vociare, sotto la guida di Costantino nostro cugino giá grandicello e malizioso, che ogni giorno inventava qualche nuovo trastullo. Si giocava alle bocce, alla lotta, alla corsa, al salto sulla schiena, a nascondersi, a gatta cieca. Io nella lotta usava una cotal malizia, che faceva tutto lo sforzo da un lato e chiamava lá tutta l’attenzione dell’avversario, e poi d’improvviso urtava dal lato opposto e lo gittava giù. Mi facevano gli occhioni, e non capivano perché cosí mingherlino dovessi vincere. E Costantino, quando si vedeva per terra, si levava tutto rosso e mi dava di gran pugni. Alla corsa poi andavo cosí in furia che non mi giungeva nessuno. Parecchie ore si passavano a scuola, e Pietro Donato che era il maestro e c’insegnava declinare e coniugare, ci dava le spalmate, e ci prendeva per [p. 4 modifica]il collo, quando si voleva scappare. Non c’era di che non si facesse qualche rottura, e la nonna a correrci dietro, e ci strillava e ci tirava le orecchie. A me voleva un gran bene, perché diceva ch’io non rompevo mai niente e mi stavo quieto: e in verità innanzi a lei faceva il santo, e naturalmente era tranquillo, e non mi movevo se non mosso dagli altri. — Vedete Ciccillo se rompe mai niente! — diceva stizzita la nonna a Giovannino; e la madre di Giovannino rispondeva: — Gli è che Ciccillo non fa mai niente, e Giovannino fa tanti servizii di casa, Giovannino di qua, Giovannino di lá —. Ed era la veritá: quando Giovannino metteva la tavola, e rompeva piatti e bottiglie, io me ne stavo in un cantuccio a leggere: facevamo Marta e Maddalena. Nonna e mamma mi volevano bene; ma i compagni che mi vedevano cosí restio, mi chiamavano uno stupido, e Costantino diceva: — Non sa neppure il pane che si mangia —. Mi piaceva più fare il tric trac o la dama con zio Francesco che correre e vociare con Costantino. Parlavo poco, avevo la faccia malinconica. — Sempre con questo libro in mano! — gridava papá, che era uomo allegro e turbolente e spesso si mescolava coi fanciulli a fare il chiasso.

Tra i miei piccoli amici v’era Michele Lombardi, a cui volevo un gran bene, ed era un nostro vicino figlio d’un contadino. Andavo spesso a visitarlo, e sua mamma Rachele mi faceva trovare la migliazza, e quei cibi grossolani e quelle maniere alla buona mi piacevano assai, e stavo più volentieri e mi sentiva piú io in mezzo a quella gente tutta alla naturale, che in mezzo ai galantuomini, coi quali dovevo studiare i modi e le parole per non parere un male educato.

A nove anni passò questa vita allegra. La nonna ci condusse a Napoli, me e Giovannino, e ci consegnò a zio Carlo. Lo zio aveva per lei venerazione grande, e la tenne seco due mesi. Nei dí festivi ella ci menava a chiesa, e ci faceva fare le orazioni e sentire la messa. Noi stavamo ginocchioni, con le mani giunte e la testa bassa, pregando accanto a lei. Un dí volsi un po’ la mia testolina e vidi vicino a me un lazzarone, che stava tutto disteso per terra e diceva Avemarie. Non so come mi venne in capo di fare lo stesso, parendomi che quello [p. 5 modifica]star così disteso fosse segno di maggiore umiltà al cospetto di Dio. E mi posi lungo lungo per terra, con le mani in croce. E mia nonna mi guardò e disse: — Che fai? — Fo come quello, — dissi io, indicando il lazzarone. — Ma tu devi pregare Iddio da galantuomo e non da lazzarone, — disse ella ridendo. E io mi feci tutto rosso, e mi rimisi inginocchio, e non dimenticai più quel riso soave. Fu l’ultima impressione che mi lasciò mia nonna. Non ricordo altro. Ed ora che mi sta innanzi con quella sua faccia rimpiccinita, rugosa e tranquilla, la vedo che mi ride con quel riso soave. Prima di andar via, nonna volle chiedere grazia al Re pei due suoi figli esuli, e zio la fece accompagnare da un avvocato suo amico, certo Raffaele Boscero di Flumeri. Nonna ci fece la lezione, indicando quello che avevamo a fare e a dire, e ci menò seco. Entrammo in una sala lunga dov’era una lunghissima fila di gente, e in mezzo a quelli prendemmo posto. Il Re stava dall’un capo, e andava di gruppo in gruppo, pigliando le suppliche e facendo si col capo, come volesse dire: «Sta bene; basta». Io aveva una gran voglia di vedere come era fatta la faccia del Re; e quando giunse a noi, mi posi ritto, come un soldato che faccia il presentatarme e guardavo di lato. Don Raffaele che teneva in mano la supplica, era bassotto, e il Re alto e panciuto dovette chinar molto la faccia per prendergli la supplica, e io non vidi niente. Il Re lasciò Don Raffaele con la bocca già aperta all’arringa, e si calò un po’ verso la nonna, e ci passò davanti. Noi dimenticammo la lezione della nonna, e accompagnammo il Re con un «oh, oh» piangoloso, e questa fu la nostra orazione, e io mi sfiatava a dire che non avea. vista la faccia del Re.