La giovinezza e studi hegeliani/La giovinezza/III. Zia Marianna

La giovinezza - III. Zia Marianna

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III

ZIA MARIANNA

Governava la casa zia Marianna. Era ed è rimasta per me anche oggi la zia. Non ne sapevo più avanti. Giovannino ch’era più curioso di me ed aveva una certa malizia, mi narrò più tardi non so che, ma non mi rimase nulla in mente. La mia natura non mi tira a indagare i fatti altrui; e quando sentiva a dire questo o quello, me ne rimaneva appena un ronzio nell’orecchio, e passava subito. Fatto sta ch’io volevo un bene a questa zia poco meno che a mamma, e tenevo a mostrarglielo. Per via studiavo sempre il passo per starle accanto, e mi attaccavo alla sua gonnella. Giovannino, per non parere da meno, la teneva dall’altro Iato, ed ella rideva e ci accarezzava, e poi a tavola raccontava tutto con una specie di caricatura che faceva ridere lo zio; perché ella parlava e gestiva il più bel napoletano. Aveva la pelle bianchissima e rosea; florida era di salute, e di umore allegro. La sera si ritirava in casa sua, poco lontano nella stessa strada. Verso il tardi andavamo noi e zio a visitarla, e si passava la serata allegramente. La mattina, Rachele, ch’era la serva di casa, andava a svegliarla, e tutte e due andavano in piazza a far la spesa. Ella stava d’ordinario in cucina, una stanza bene arieggiata, e provvedeva a tutto.

Mio zio volle che andass’io a svegliarlo, la mattina alle sei e mezzo; e quest’ora mi si era ficcata nel cerebro, e, come se avessi l’orologio nell’orecchio, mi gettavo giù di letto, e correvo allo zio e dicevo: — Zio, sono le sei e mezzo — . Svegliatosi, stendeva un po’ le membra, ma poi tornava tutto rannicchiato sotto a quel dolce tepore; ed io, fatte le mie cose in cucina, tornavo [p. 12 modifica]e facevo la seconda chiamata: — Zio, sono le sei e mezzo — ; e lui si levava senz’altro. Quando sentivo il campanello, correvo, ch’era la zia, e le baciavo la mano. Veniva appresso a lei la serva, china gli omeri sotto la spesa. Non si mangiava male, perché c’era sempre qualche pensionista. Erano cibi sani e casarecci, che a me piacevano più che le vivande delicate. Ma ciò che non potevo patire era quel piccolo pezzo di pane assegnatomi, e dovevo fare la faccia dura per avere un rinforzo.

Un giorno stavo collocato vicino al padre di un pensionista, un bravo vecchio, tagliato così alla grossa, che ci vedeva poco. Io aveva finito il mio pane, e piano piano mi tirai il suo, e lo divisi con Giovannino, ch’era quasi sempre, l’istigatore. Il vecchio, quando gli bisognò, non trovò più il suo pane, e andava cercando a tentoni. Io m’ero rimpiccinito, e avrei voluto sparire dal mondo. Zia Marianna se ne accorse, e diede un’altra fetta di pane al vecchio, e diede a me un’occhiata obliqua, che mi parve una spada. La sera ci fu gran chiasso; la mi fece una lavata di capo. Come ragazzi viziati, ci raccogliemmo nell’ultima stanza indispettiti, e cominciammo a mormorare contro la zia, che era un’avara, e ci faceva desiderare anche un po’ di pane. E d’uno in altro proposito, Giovannino fece questa bella trovata. — Domani, — disse, — si fa il pane nuovo, che fetta e fetta! Andiamo e prendiamoci addirittura una panella, e sfamiamoci, e diamo una lezione alla zia — . Vollero assolutamente che fossi io a fare questo bel tratto. Io non voleva; ma pur ci andai.

Il giorno appresso nelle ore vespertine tutto dormiva, zio si soleva mettere nella grande stanza della scuola sopra una seggiola, con un fazzoletto che gli copriva la faccia. Nella stanza appresso stava un maestro di disegno, certo Ippolito Certain, che a quell’ora stava disteso sul letto sonnacchiando. Zia Marianna era a sua casa; ma nell’avanti-cucina come un Argo, stava Rachele così tra veglia e sonno, sulle tavole del letto acquattata. Appunto in quella camera stava il pane nuovo in una cesta che penzolava a una fune presso il balcone. Giunse l’ora. Io ero pallido come un ladro; mi batteva il cuore. Mi levai le scarpe e zitto zitto aprii l’uscio della stanza, dove stava lo [p. 13 modifica]zio. Ma quel maledetto uscio sonò un poco, e zio disse: — Chi è? — . Fatto ardito dalla paura, inventai una bugiella, e infilai l’altro uscio piano piano che non si sentiva un et. Il maestro, uso a pazienza, sentito o no, mi fece andar via, e non fiatò. Quando mi vidi nella stanza da letto, mi venne un riso sul labbro, e mi fregai le mani e le scarpe mi caddero a terra, e fecero uno strepito, che mi cacciò il riso nella strozza. Eccomi in cucina, e li mi fermai in punta di piedi, orecchiando, e mi feci un segno di croce, come per implorare l’assistenza di Dio. Mi affaccio nell’ultima stanza, e quelle panelle fumigavano ancora, e me ne veniva l’odore alle narici. Stesi la mano, e la ritirai subito pensando a Rachele che mi potesse vedere. E mi volsi verso l’alcova, e vidi che stava tutta accoccolata, dormendo forte. Mi venne un’idea, di vedere com’era fatta la donna, ma la cacciai subito, e mi feci un gran segno di croce, come per scongiurare il demonio. Poi, camminando in punta [di piedi], pallido, sconvolto, stesi la mano alla cesta, ma la mano mi tremava e non voleva prendere la panella. Stavo sempre sotto agli occhi di Rachele, e la paura di Rachele mi fece sollecito, e afferrai la panella, e me la misi in seno, e corsi difilato rifacendo la via, e mi sentiva fischiare nell’orecchio: — Al ladro, al ladro! — . Giunsi in mezzo ai compagni così brutto che pensarono non fossi riuscito; quand’io mi cacciai di sotto la panella. Saltarono, gridarono, batterono le mani, mi applaudirono, e in quel fragore io mi ripigliai e mi mangiai la mia parte.

Venne il di’ appresso, e Rachele non trovò la panella, corse da zia Marianna. La zia fece la faccia seria, e disse: — Ciccillo mi dira la verità — . E mi chiamò che mi tremavano le gambe, e mi pose gli occhi negli occhi, e disse: — Ciccillo, chi ha rubato la panella? — Io scoppiai in pianto.

In quel tempo ero spesso malato; fin d’allora ero stitico, il mio male era sempre nel ventre. Medico di casa era un certo Domenico Albanesi, che mi curava col metodo allora in fiore: purganti, salassi, clisteri, vomitivi e digiuni. Un salasso mi rimase aperto parecchi mesi, e ne ho ancora oggi la cicatrice. Per un anno non bevvi più caffè, perché ci sentivo dentro un odore [p. 14 modifica]d’ipecacuana. Talora, vista inutile l’azione delle purghe, ricorrevano al sale inglese, a costo di vedermi scoppiare. Di sotto a quella cura uscivo magro, e fragile e sottile come una canna, e parevo Nicola Valletta mezzo vivo e mezzo morto.