La fine di un Regno/Parte I/Capitolo XXI
Questo testo è completo. |
◄ | Parte I - Capitolo XX | Parte I - Indice | ► |
CAPITOLO XXI
Sin dal giorno che il Re tornò a Caserta, erano venuti a visitarlo, come ho detto, il Rosati, primo medico di camera e i chirurgi De Renzis e Trinchera, e si tenne da essi il primo consulto. De Renzis e Trinchera confermarono la diagnosi, riconoscendo trattarsi di una raccolta di pus nella regione iliaca destra, per effetto della coxalgia. Convennero tutti nella necessità di operare senza indugio, per ottenere l’uscita della materia ed arrestare l’assorbimento. E allora chiamarono il Capone, e a lui, che era il più giovane, commisero di eseguire l’operazione nella regione posteriore della coscia, sul punto indicato dal Trinchera, il quale sperava di determinare così una più facile corrente di pus. Ma, eseguita l’incisione, non si trovò materia, e soffrendo l’infermo atroci dolori, si dovette sospendere, medicare la ferita e non fare altro per qualche giorno. Trinchera s’era sbagliato sul punto del taglio. E aumentando le sofferenze, e non potendo il Re più tollerarle, decisero un secondo taglio, che il Capone esegui felicemente, aprendo il femore. L’esito ne fu maraviglioso, perchè uscirono parecchie libbre di marcia. L’operazione confermava la diagnosi, ma troppo tardi.
L’uscita del pus recò qualche sollievo all’infermo e confortò le speranze della Regina in una lontana guarigione. Ma il miglioramento non durò a lungo, e dopo cinque giorni dal secondo taglio, si manifestarono i primi segni, i più caratteristici, dell’infezione purulenta in tutto l’organismo. Il morbo invadeva organi esterni ed interni; congestioni polmonari ed ascessi sotto l’ascella destra e in altre parti del corpo si succedevano, senza che gli umani rimedii avessero efficacia alcuna. Correttivi e ricostituenti non servivano a nulla, e i medici, sconfortati e disperanti, dichiararono alla Regina e al principe ereditario la impossibilità, a cui si vedevano ridotti, e consigliarono di chiamare altri a consulto. Proposero i medici Lanza e Prudente e il chirurgo Palasciano. Di certo, chiamando anche questi, non vi era grande capacità medica e chirurgica messa da parte. Il Lanza era tornato, tre anni prima, dall’esilio. Non si sarebbe voluto lui, noto per le sue idee liberali, ma la gravità del caso s’imponeva e fu deciso chiamarlo. Volle però la Regina che nessuno dei tre dovesse vedere l’infermo: avrebbero manifestato il proprio parere su relazione del Ramaglia. Il Lanza mal patì il divieto di vedere il Re e, vivace e franco com’era, non celò il suo malcontento, soggiungendo che veramente non era il caso di farlo andare a Caserta, perchè anche a Napoli avrebbe potuto leggere una relazione e dare il suo parere. Udita la relazione, borbottò ironicamente: “Il Re starà bene, fatelo nutrire di latte di donna„. Rosati non potè tenersi dal ridere, e il Lanza, a lui rivolto, disse: “Innanzi a Vincenzio Lanza (cosi egli diceva, e hon Vincenzo) non si ride. Ferdinando II morirà dopo aver contemplato il suo cadavere; non c’è più rimedio; la fitiriasi si svilupperà subito, in seguito alla piemia„. Tornato a Napoli, raccontò ai più intimi questi incidenti, e alludendo alla grazia ottenuta dal Re di tornare in patria, aggiunse sorridendo: “Io ebbi da lui un passaporto e son ritornato, ma con quello rilasciatogli non vi è speranza di ritorno„. Con Lanza si trovarono d’accordo Prudente e Palasciano, anzi tutti quanti. Oramai la scienza aveva detta l’ultima parola e decretata la condanna di Ferdinando II: la materia, raccolta nella regione ileo-femorale destra, era via via irreparabilmente assorbita dall’organismo e formava depositi purulenti nei polmoni, negl’intestini, nelle glandule sottoascellari principalmente, donde poi la consunzione, la quale nelle ultime settimane assunse forme rapide e spaventose.
Le immagini dei Santi e delle Madonne, i crocifissi e le reliquie miracolose, le lampade accese innanzi alle immagini sacre, e quanto di religiosa superstizione era nel Regno, dove la superstizione imperava largamente, tutto si vedeva radunato nella camera da letto del Re. Ogni giorno arrivavano nuove acque, nuove tuniche, scapolari e immagini sacre, ed egli tutto vedeva, toccava e baciava con una fede che stupiva, la fede che sarebbe guarito, mercè l’opera della divinità. Tornò il padre Ludovico, ma più frequente e gradito ospite era il buon cardinale Cosenza, arcivescovo di Capua, il quale recava all’infermo grande conforto con le sue parole. Non furono trascurati i segretisti. Va ricordato quel celebre Manigrasso, notissimo nel quartiere dei Vergini, il cui metodo curativo consisteva nel dipingere l’infermo con sostanze vegetali, ma neppure il Manigrasso potè nulla coi suoi segreti e le sue erbe. Il genere del male rendeva faticosa l’assistenza all’infermo. Due marinai della lancia di Criscuolo, Tommaso Craus e Francesco Morvillo, uomini vigorosi e devoti, erano particolarmente destinati a sollevare, sopra un lenzuolo, l’emaciato corpo del Sovrano, per mutargli la biancheria grondante pus e sangue guasto. Ogni movimento procurava al Re dolori atroci, tra i quali rompeva in grida ed in strazianti invocazioni alla Madonna ed ai suoi santi protettori. Non v’era biancheria che bastasse. Ed il disgraziato soffriva anche moralmente, per il genere del suo male. Egli, che aveva sempre avuto un pauroso orrore per i morbi infettivi e particolarmente per la tisi, si vedeva condannato a morire di un morbo, che a lui stesso faceva ribrezzo.
Il male procedeva inesorabile, e le sofferenze dell’infermo divenivano sempre più strazianti. Fino al 12 aprile, i medici non credettero necessario pubblicare alcun bollettino, e più che i medici, non lo ritenne opportuno la Regina, per non allarmare il pubblico. Ma in Napoli tutti conoscevano la gravità del caso e se ne parlava liberamente, non prestandosi fede alle pietose attenuazioni ufficiose. Il primo Bullettino della salute di S. M. il Re N. S. apparve nel Giornale Ufficiale il 12 aprile, quando la gravità non si potè più nascondere, perchè il Re in quella mattina volle ricevere il viatico. Questo gli fu portato alle otto da monsignor Gallo in gran pompa, presente tutta la famiglia, tranne i figliuoli piccini. Uscì la processione dalla grande cappella, seguita dai dignitari di Corte, dai ministri e direttori. Il Re si levò con grande stento a sedere sul letto; e quanti lo videro, rimasero esterrefatti, perchè era l’ombra di Ferdinando II che loro si offerse dinanzi. La cerimonia fu spettacolosa e commovente. Erano presenti anche i fratelli del Re. L’infermo li fece avvicinare al letto, ed a ciascuno rivolse speciali preghiere. Raccomandò al conte d’Aquila di curare l’armata, e al conte di Trapani rivolse le stesse raccomandazioni per l’esercito. Solo al conte di Siracusa non disse nulla, ma lo tenne qualche minuto stretto al petto e lo baciò più volte, piangendo. Dal principe di Satriano e dal generale Ischitella, tutti e due presenti, volle la promessa che avrebbero assistito e consigliata negli affari il nuovo Re. Era chiaro che non si facesse più illusioni, preparandosi alla morte con rassegnata dignità.
Il primo bollettino, dunque, redatto alle nove e mezzo di quel giorno, diceva così: “La recrudescenza della malattia, annunziata ieri, si è molto aumentata nel corso sì del giorno come della notte, sino ad esservi stato bisogno questa mattina di prescrivere la somministrazione del Santissimo Viatico„. Portava le firme di tutti e sei i medici e chirurgi curanti, in questo ordine: Rosati, Ramaglia, Trinchera, De Renzis, Leone, Capone. In segno di lutto, dal 12 aprile rimasero chiusi tutti i teatri. I bollettini continuarono a pubblicarsi, quasi ogni giorno, sino al 27 aprile nella stessa forma nebulosa. Si parlava di miglioramento o aggravamento, di maggiore o minore accentuazione dei consueti fenomeni, ma dell’aggravamento non si conosceva la misura, i lievi miglioramenti si esageravano, e ogni linguaggio scientifico, per dare almeno un’idea precisa di questi fenomeni, era bandito. Cosi voleva la Regina, ed avvenne perciò che intorno a quella malattia si creasse una specie di leggenda. Il 22 aprile, apparve davvero una leggera migliorìa che per altro non assicurò punto i medici. Fra questi, godevano veramente la fiducia del Re, Rosati e Capone, il quale ultimo gli era entrato in grazia fin dal primo momento; ma la maggior confidenza l’infermo l’aveva in don Franco Rosati. Nei suoi momenti di buon umore, lo si era udito ripetere più volte, non esservi in Corte che un solo galantuomo, il Rosati. A Caserta volle che dormisse nella camera accanto alla sua. Del de Renzis soleva dire; “Don Felice ha la mano troppo pesante„; né da lui voleva lasciarsi toccare.
Anche nei giorni di maggiori sofferenze, che furono quelli dal 26 aprile alla morte, con brevi interruzioni, il Re non lasciava di prender conto degli affari dello Stato, ma soprattutto e molto ansiosamente, delle cose della guerra. La conferenza sfumata, il Piemonte si era apertamente messo a capo della rivoluzione italiana per resistere all’Austria; l’imperatore Napoleone faceva partir per l’Italia i tre primi corpi di armata e si disponeva a scendervi lui stesso, per prendere il comando di tutto l’esercito. Ferdinando II aveva fede nelle forze dell’Austria, che credeva sarebbe stata aiutata dalla Russia e dalla Prussia, e confidava ancor più. nell’intangibilità degli Stati della Chiesa. Si cercava di tenergli occulte, o di comunicargli, con arte, le notizie le quali potevano fargli penosa impressione. Questo incarico era affidato alla Regina che, veramente, durante tutta la malattia, non poteva dar prova di maggiore abnegazione e di maggior affetto verso il marito. Molte notti le vegliava accanto al letto di lui, dormicchiando sopra una poltrona, o buttata sopra un canapè, o pregando con lui, in ginocchio, né egli voleva che si allontanasse, chiaramente mostrando di avere soltanto in lei una fiducia senza limite.
Le notizie politiche più gravi venivano quindi comunicate prima alla Regina. Nella notte dal 27 al 28 aprile, giunse il dispaccio, che annunciava la partenza da Firenze del granduca e della sua famiglia, in seguito a un tentativo di sedizione da parte delle truppe. Incredibile lo sgomento che la notizia produsse in Corte. La famiglia reale di Napoli era molto affezionata alla Corte di Toscana, per vincoli stretti di parentela; e il granduca Leopoldo II, come ho già detto, veniva chiamato dai suoi nipoti, napolitanamente, Zì Popò di Firenze, per distinguerlo da Zì Popò di Napoli, ch’era il conte di Siracusa. La mattina del 28 aprile, il principe ereditario entra nella camera del padre e, tutto spaventato, gli dice: “Papà, hanno cacciato zi Popò.„ “Quale zi Popò?„ domanda il Re stranamente sorpreso. “Zì Popò di Toscana„ risponde il principe. Il Re gli chiede altre notizie che Francesco non sa dare; le chiede alla Regina che cerca nasconderle, e s’imbarazza. “Chiamatemi Carafa„, grida allora, raccogliendo tutte le sue forze e dando un’ultima prova della sua energia. Carafa, quasi balbettando, lo informa di quanto era avvenuto, mostrandogli il dispaccio del ministro di Napoli a Firenze. Si narra che leggendo come il granduca avesse lasciato Firenze, solo per la paura di un pronunciamento, egli esclamasse: “C. . . ., è andato, e non è degno di ritornarvi„.
Quegli ultimi giorni di aprile, sino alla morte, furono il suo calvario. Progrediva il male e le notizie della guerra non erano quali egli le desiderava. Fu invaso da un senso di paura, che manifestava senza mistero. Si faceva venire in camera il principe ereditario, gl’indicava i veri e i falsi amici della dinastia e lo ammoniva a non transigere con la rivoluzione e a non prender partito con l’Austria, aspettando gli avvenimenti con tranquillità, perchè aveva il Papa per antemurale. Lo ammoniva su varie cose, ma principalmente di non risparmiare il suo zelo per la religione degli avi, e lo raccomandava particolarmente al cardinal Cosenza ne’ frequenti colloquii che avea con quel prelato.
Nei primi giorni di maggio, i medici notarono un nuovo peggioramento. Corrompendosi il sangue, si alteravano tutte le funzioni, si perturbava il sistema nervoso e la persona incadaveriva a vista d’occhio, rivelando tutti i fenomeni della rapida corruzione purulenta e della prossima fine. Un giorno, al chirurgo Capone, particolarmente destinato alle medicazioni, il Re rivolse una domanda caratteristica. Essendogli sempre rimasto il dubbio, che la punta della baionetta di Agesilao Milano fosse avvelenata, teneva costantemente sulla cicatrice una piccola pietra, che gli avevano fatto credere avesse la virtù, di un antidoto. Chiese al Capone che gli dicesse se anche quella cicatrice era venuta a suppurazione. Dopo averla osservata, Capone rispose che era intatta, e nel dargli questa risposta, ricordò coll’appellativo di infame il regicida. Il Re lo riprese: “Non si deve dir male del prossimo; io ti ho chiamato per osservare la ferita e non per giudicare il misfatto; Iddio lo ha giudicato, io l’ho perdonato, e basta così„. Il peggioramento si accentuò dal 10 al 18 maggio. Il bollettino del 13 fu di nuovo allarmante. La mattina del 16, i medici e i chirurgi, a scanso di ogni loro responsabilità, consegnarono al principe ereditario una relazione in iscritto della malattia, con tutti i particolari, che io ho narrati.
Fu pure in quei giorni che il Re volle disporre, per testamento, delle sue sostanze private. Fino allora, per quanto giudicasse non lontana la sua fine, non aveva disposto nulla circa il suo patrimonio. Vi si decise a insistenza della Regina, e per le esortazioni di monsignor Gallo. Chiamò quindi a sé il principe ereditario, e alla presenza della Regina, di monsignor Gallo, dei conti di Trani e di Caserta, gli tenne un altro discorso sulle cose del Regno. Lo consigliò a cambiar ministero, ma non l’indirizzo di governo nelle sue linee generali, gl’impose di non allearsi con l’Austria, ne col Piemonte, e a non farsi prender la mano dalla rivoluzione; gli parlò di Filangieri, come della persona sul cui ingegno e coraggio poteva far securo assegnamento, ma solo nei momenti perduti, quando ogni altra risorsa venisse a mancare; e conchiuse col dettargli con molta chiarezza mentale questo testamento:
“Raccomando a Dio l’anima mia, e chiedo perdono ai miei sudditi, per qualunque mia mancanza verso di loro, e come sovrano e come uomo.
“Voglio che, eccetto le spettanze matrimoniali alla Regina, e gli oggetti preziosi con diamanti al mio primogenito, si facciano della mia eredità dodici uguali porzioni: vadano una alla Regina, e dieci ai miei dieci cari figli. La dodicesima, a disposizione del primogenito, stabilisca messe per l’anima mia, suffragi ai poveri, e restauri e costruzioni di chiese nei paesetti, che ne mancassero, sul continente e in Sicilia.
“I secondogeniti entreranno in possesso, compiuti gli anni trentuno; sino al qual tempo, ancorché fossero coniugati, staranno a spese della Real Casa. Ciascuna quota di secondogenito sarà a vincolo di maggiorato; e ove s’estingua, torni a Casa Reale.
“Delle quattro porzioni delle femmine voglio da ciascuna si tolga il terzo, il resto sia loro proprietà extradotale, con vincolo d’inalienabilità; e se, maritate, finissero senza figli, ritornino a Casa Reale.
“Da tai prelevati quattro terzi, dono ducati ventimila a ciascuno dei miei quattro fratelli, Carlo, Leopoldo, Luigi e Francesco; ducati quindicimila al principe di Bisignano, e ducati cinquemila alla gente del mio servizio.
“Del rimanente si cresca la porzione dei maschi secondogeniti, ma disugualmente, distribuiti in ragion diretta degli anni d’età di ciascuno: affinchè i minori d’età abbiano, col moltiplicamento di più anni, raggiunta la porzione pari a quella dei maggiori fratelli.
“La villa Caposele a Mola, come bene libero, lascio al mio primogenito, al mio caro Lasa.
“E voglio questa mia disposizione abbia forza di legge di famiglia, non soggetta a giudizio di magistrato; ma giudice unica ed arbitro ne sia il mio successore, o chi lo seguirà „.
Fattoselo rileggere, sottoscrisse il testamento con mano tremante. In quegli ultimi giorni anche la sua scrittura, così chiara e nitida, aveva subita alterazione. Il patrimonio privato, del quale il Re disponeva, si componeva di rendite napoletane, siciliane ed estere, di oggetti preziosi, valutati circa 60 000 ducati, e di più che 40 000 ducati in doppie d’oro: in tutto superava i sei milioni e mezzo di ducati. La parte del duca di Calabria ascese a 666 256 ducati, e uguale fu quella della Regina; al conte di Trani toccarono 766 621 ducati, e poco meno agli altri fratelli, in proporzione dell’età. Le principesse ebbero ciascuna 377 604 ducati. Nella fortuna privata, di cui Ferdinando II dispose con questo testamento, non entrava il borderò di undici milioni di ducati, che egli aveva donato al duca di Calabria quando usci di minor età. Questi undici milioni rappresentavano i risparmi, le economie, le doti delle principesse, nonché la fortuna ereditaria della defunta Maria Cristina di Savoia, perchè Ferdinando II, dopo la morte di lei, non volle possedere più nulla in Piemonte e alienò pure il palazzo Salviati, che la Regina possedeva in Roma. Il prezioso borderò era intestato a don Gaetano Rispoli, primo uffiziale controllore a Casa Reale e custodito da don Giovanni Rossi, uffiziale di ripartimento nella stessa Casa Reale. Il Rossi, nell’ottobre del 1860, lo consegnò al governo della Dittatura che lo confiscò, destinandolo ai danneggiati politici.
Il 20 maggio, la gravità del male crebbe tanto, che i medici ritennero imminente la catastrofe. Erano sopravvenuti acuti dolori al polmone sinistro e l’espettorazione veniva mancando. Alla Regina, al principe ereditario, a monsignor Gallo e al presidente del Consiglio dei ministri, i medici manifestarono che il triste momento si appressava. Nella Reggia non fu più un mistero che il Re era moribondo. Erano tutti costernati; il duca di Calabria, i principi e le principesse più grandi piangevano, ed era muta dal dolore Maria Sofia, sinceramente affezionata al suocero. Per mezzo del nunzio e del ministro di Napoli a Roma, fu chiesta per telegrafo la benedizione papale, che giunse poche ore dopo, con affettuose parole di Pio IX. Monsignor Gallo ebbe l’incarico di preparare il Re a ricevere l’estrema unzione e la benedizione del Papa. Ferdinando II non si mostrò sorpreso dell’annunzio, anzi volle ordinar egli stesso il necessario per la cerimonia religiosa. Disse che, oltre al cero rituale, se ne accendessero altri tre: uno della Candelora, uno del Supremo e uno della Santa Casa di Loreto, e ordinò che si portassero in camera due immagini, l’una rappresentante Gesù, che cade sotto la croce e l’altra, l’Addolorata. Quest’ultima fu tolta dalla stanza, dove gli era morto un figliuoletto, in ricordo del quale Ferdinando II aveva fatto voto di morire, con gli occhi rivolti a quell’immagine. I due quadri vennero collocati sopra due sedie, dirimpetto al letto. Durante la messa, che fece celebrare nella sua camera, il meno commosso dei presenti apparve lui, che stringeva in mano una effigie della Immacolata, impressa su drappo di seta.
Ricevuto l’olio santo, volle vedere tutti di sua famiglia anche i piccini e con le lagrime agli occhi li abbracciò e baciò tutti, li benedisse e loro raccomandò di amare la madre, di essere buoni, religiosi e devoti della Madonna. Abbracciò, baciò e benedisse Maria Sofia. Faceva grandi sforzi per apparire sereno e rassegnato. Raccogliendo la sua voce, già divenuta fioca, disse: “Lascio questa bella, cara ed amata famiglia; il Signore in questo momento mi dà la grazia di essere tranquillo e di non soffrire alcun dispiacere, di distaccarmi dalle persone e dalle cose le più amate; lascio il Regno, le grandezze, onori, ricchezze, e non risento dispiacere alcuno. Ho cercato di compiere, per quanto ho potuto, i doveri di cristiano e di Sovrano. Mi è stata offerta la corona d’Italia, ma non ho voluto accettarla; se io l’avessi accettata, ora soffrirei il rimorso di avere leso i diritti dei Sovrani, e specialmente poi i diritti del Sommo Pontefice. Signore, vi ringrazio di avermi illuminato .... Lascio il Regno ed il trono come l’ho ereditato dai miei antenati . . . .„ Il Re avrebbe continuato nel suo esaltamento, ma i medici, temendo che la fatica del discorrere potesse accelerarne la fine, insistettero perchè tacesse e pregarono i principi a uscire dalla camera. Intorno al letto del malato rimasero i medici, i Criscuolo, i marinai e Galizia. La Regina non aveva requie; andava e veniva, come fuori di sè, e il principe ereditario, che non si mosse, singhiozzava in un angolo.
Nella sera dal 21 al 22, il Re ebbe qualche ora di calma, ma, dopo la mezzanotte, peggiorò.
L’abbattimento e la prostrazione delle forze crescevano; i polsi erano debolissimi, intermittenti e quasi evanescenti, e la respirazione affannosa. All’alba, la circolazione periferica venne a mancare; cominciarono a raffreddarsi le estremità; si manifestò un sudore freddo al volto, e la deglutizione divenne difficile. Però le facoltà intellettuali ed i sensi erano tuttora integri. Udiva persino le parole de’ vicini e il suono dell’orologio. Verso le dieci, voltosi al chirurgo Capone, che stava al capezzale,, gli disse: “Per questa sera ti tolgo l’incomodo di assistermi. Ti ringrazio delle affettuose cure prodigatemi: tu me le hai fatte non perchè sono Sovrano, ma per opera di carità, ed il Signore ti renda la carità„. E visto che Capone piangeva, soggiunse: “Non piangere, prega per me, ed io pregherò per te nell’altra vita„. Verso mezzodì, accennò a voler dormire, ma, dopo trenta minuti, parve che entrasse in agonia. Monsignor Gallo recitava le preci, mentre tutti, inginocchiati intorno al letto, piangevano a singhiozzi. L’infermo si riebbe ad un tratto, riaprì gli occhi e balbettò: “Perchè piangete? . . . Io non vi dimenticherò„; e alla Regina: “Pregherò per te, pei figli, pel paese, pel Papa, pei sudditi amici e nemici e pei peccatori„. Poi perdè la parola, stese una mano sul crocifisso del confessore, l’altra alla Regina in segno d’addio, reclinò il capo sul lato destro e spirò. L’orologio segnava l’una e mezza dopo il mezzogiorno. Era domenica.
La famiglia reale si ritirò nei suoi appartamenti. Il cadavere fu lasciato nel letto, sotto la guardia dei marinai e di altri familiari e con l’assoluto divieto di farlo toccare da alcuno. Si pensò subito all’imbalsamazione, e verso sera il principe di Bisignano e il Ramaglia ne parlarono alla Regina, la quale sulle prime recisamente si rifiutò; ma insistendo quelli a dichiarar necessaria l’operazione, dovendo il corpo restare esposto più giorni, fu chiamato Capone, il quale, con Ramaglia e Rosati, persuase Maria Teresa che per l’imbalsamazione bastava una piccola incisione alla carotide. La Regina credè alle parole dei medici e consenti, ma da Capone si fece promettere che a nessun patto si sarebbe aperto il cadavere. Così si chiuse la giornata del 22 maggio.
La sera di quel giorno, il Giornale Ufficiale in supplemento straordinario annunziava la morte del Re, facendo precedere l’elogio del Sovrano estinto da questi strani periodi: “La parola in noi sì pronta all’impulso del dovere, or lo seconda a fatica. Mentre le lacrime ci solcano il volto, mentre la funerale caligine di tanta morte si addensa su la Reggia, su la città e sul Reame, noi non potrem dire che del proprio e dell’altrui pianto. La profonda costernazione della Real Famiglia, il nome augusto di Consorte, di Padre, di Fratello ripetuto fra’ singulti intorno alla spoglia mortale del gran Monarca, l’eco dolente che agli amari pianti della R. Corte rende dolentissima la popolazione, sdegnano ogni detto, che di cordoglio non sia. Deh! poichè scriver dobbiamo, la Religione ci regga la penna, un raggio della luce superna ci rischiari la tenebria in cui siam caduti„.
La mattina seguente, Capone andò a Napoli a provvedersi degl’istrumenti necessari per l’imbalsamazione. A Napoli pregò il dottor Davide Panzetta, suo amico e chirurgo di marina anche lui, di volerlo aiutare nella delicata operazione. La mattina del 24, eseguirono l’iniezione alla presenza di Rosati, di Ramaglia e di Leone. L’iniezione per la carotide fu compiuta senza difficoltà, e l’imbalsamazione riusci completamente, tanto che il volto del Re riprese quasi il suo aspetto naturale e la decomposizione si arrestò.
Nello stesso giorno, invitato dal principe don Sebastiano di Spagna, andò a Caserta il pittore Domenico Caldara, per ritrarre le ultime sembianze del Re morto. Fu subito introdotto nella camera, dove trovò due soldati di marina, che custodivano il cadavere e di tanto in tanto lo scoprivano per ripulirne con un piumino, che prima bagnavano in un disinfettante, le piaghette livide e purulente. Il pittore ritrasse a grandezza naturale il volto del Sovrano: volto atteggiato ad una perfetta calma, ma sparuto, rimpicciolito e reso quasi irriconoscibile. Il dipinto fu trovato somigliante e la Regina ne ordinò dodici piccole copie, per distribuirle ai capi della Corte. Il ritratto venne pagato al Caldara duecento piastre, e ciascuna copia, ottanta ducati; ma l’originale e le copie nessuno ha potuto dirmi dove siano andate a finire. Il Caldara mi scrisse che le copie veramente furono tredici, e la tredicesima la possedeva lui. Più tardi, la Regina madre ordinò allo stesso Caldara di ritrarre su tela di quattro palmi per quattro e mezzo, gli ultimi momenti di Ferdinando II, e l’artista eseguì il lavoro, tornando più volte a Caserta e servendosi anche di una fotografia della camera mortuaria, datagli dal principe don Sebastiano. Il Re è dipinto nel suo letto di morte, avendo da un lato monsignor Gallo nell’atto di recitare orazioni, e dall’altro, la Regina in ginocchio con un crocifisso in mano. La Regina e il prelato posarono più volte innanzi all’artista, al quale fu pagato il quadro 2600 ducati. Neppure di questo dipinto si ha memoria. Solo il Caldara ne aveva una fotografia.
L’atto di morte fu rogato a Caserta, alle tre pomeridiane del giorno 23, da Scorza, direttore del ministero degli affari ecclesiastici e incaricato della firma del ministero di grazia e giustizia, e in tale qualità, funzionante da ufficiale di stato civile della Real Casa. Denunziarono la morte del Re il marchese Michele Imperiale e il duca d’Ascoli. Intervennero, come testimoni della denunzia, Ferdinando Troja e il principe di Bisignano. Lo sottoscrissero tutti e cinque, in quest’ordine: Ferdinando Troja, Pietrantonio Sanseverino, Michele Imperiale, Sebastiano Marulli, Francesco Scorza. Appena compiuto, l’atto fu consegnato a don Michele Leonetti, sindaco di Caserta e al cancelliere Cassano, e trascritto negli atti dello stato civile di quel Comune, sopra i due registri, al foglio 71, numero d’ordine 54. Ferdinando II contava, quando mori, 49 anni, quattro mesi e dieci giorni. Com’è noto, nacque a Palermo il 12 gennaio 1810.1
La malattia e la morte di Ferdinando II offrirono largo campo agli scrittori amici della dinastia di magnificare, prima e dopo il 1860, la rassegnazione, che chiamarono addirittura da santo, con la quale il Re passò da questa vita. Il Giornale Ufficiale narrò gli ultimi momenti di lui, nel solito stile stravagante, con l’intento di farlo apparire un santo, desideroso di riunirsi al Signore. Le parole dette alla Regina e gli scrupoli di lui, il quale credeva peccato desiderare la morte, sino a domandarne a monsignor Gallo, che gli rispose col sacro testo: “Cupio dissolvi et esse cura Christo„: furono i due soli particolari sugli ultimi momenti del Re, dati dal Giornale Ufficiale. E nei fogli del tempo non si trova altro, perchè non era permesso dire più di quanto pubblicava il detto giornale. Poco tempo dopo, venne alla luce una vita di Ferdinando II, scritta da Stanislao d’Aloe, che ricordo d’aver letta tanti anni fa: un libro addirittura sparito adesso. Ricordo, che egli faceva morire il Re con invocazioni a Gesù, a Maria, a San Giuseppe; il Re sarebbe spirato coi loro nomi sulla bocca, invocandoli con queste parole: venite, venite; e, vedendoli andare a lui, avrebbe detto, sorridendo: “sì, sì... . vengono, vengono„. Al D’Aloe seguirono il De Sivo e altri. All’inno iperbolico degli scrittori dinastici successe, più tardi, il coro ingeneroso degli scrittori liberali, i quali vollero vedere nella fine di Ferdinando II, a 49 anni, due giorni dopo la vittoria di Montebello, la mano di Dio e lo dissero morto della malattia di Silla e di Filippo II, e mangiato dai vermi, ancora vivo. Qualcuno accreditò la voce assurda dell’avvelenamento di Ariano, e qualche altro affermò che l’origine del triste morbo risalisse alla piccola ferita di Agesilao Milano. Ma, a parte le esagerazioni partigiane, la verità è, che la malattia fu quella che io ho riferita in tutte le sue fasi, e che la rassegnazione del Re, in punto di morte, dopo 114 giorni di un’infermità che faceva ribrezzo, fu esemplare. Io ho raccolto da testimoni inoppugnabili le notizie e le ho scritte imparzialmente.
Note
- ↑ Il testo dell’atto di morte fu pubblicato da Niccola Bernardini nel succitato libro: Ferdinando II a Lecce.