La fine di un Regno/Parte I/Capitolo I
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CAPITOLO I
Con decreto del 26 luglio 1849, Ferdinando II aveva ripristinato il ministero di Sicilia a Napoli, e con un altro del 27 settembre, dello stesso anno, ripristinò la luogotenenza. Questo decreto, riconfermando l’obbligo per la Sicilia di contribuire nella proporzione del quarto alle spese generali del Regno, cioè della Casa Reale, degli affari esteri, della guerra e marina, sanzionava una specie di autonomia per gli affari civili, ecclesiastici e di pubblica sicurezza, i quali vennero affidati al luogotenente, e ad un Consiglio di quattro direttori. Autonomia più di nome che di sostanza, perchè, circa gli affari i quali richiedevano l’approvazione sovrana, ed erano quasi tutti, il luogotenente doveva riferire, col parere del suo Consiglio, al ministro di Sicilia in Napoli, cui toccava il diritto e l’obbligo di esaminarli e farne relazione alla presidenza dei ministri e al Re.
Con simile ordinamento non era umano, tenuto conto delle facili suscettibilità dell’indole meridionale e dei precedenti dell’ultimo mezzo secolo, che fra il luogotenente e il ministro di Sicilia a Napoli non sorgessero gelosie e attriti. Filangieri, prevedendo queste difficoltà, rifiutò in sulle prime l’ardua missione, e in data degli 8 ottobre 1849, scriveva al Re: " L’unica mia ambizione, il solo mio desiderio, il più ardente dei miei voti, essendo quello di meritare la Sua sovrana approvazione, io La scongiuro, per quanto ha di più caro al mondo, di restituirmi al mio impiego militare, ove spenderò tutto me stesso per contentare di nuovo V. M., com’ebbi la bella sorte di farlo altra volta. Giammai ho esercitato funzioni civili, e giunto come io sono al verno dell’età mia, un tardo noviziato potrebbe forse non tornare utile quanto durevole alla M. V. „.1 Ma il Re, il quale aveva fatto annunziare ai Siciliani che avrebbe loro dato per vicerè l’erede della Corona, giovinetto a dodici anni, e poi non mantenne la promessa, scelse il principe di Satriano, reputandolo l’uomo più adatto a governare la Sicilia, da lui riconquistata alla Monarchia. E questi illudendosi che, nell’interesse della dinastia, il Re gli avrebbe lasciate le mani libere, non solo rispetto all’ordinario governo locale, ma rispetto a quelle riforme amministrative ed economiche, delle quali aveva riconosciuta l’urgenza, durante la lunga campagna, accettò il bastone luogotenenziale e si mise all’opera.
Il principe di Satriano era stato accolto dalle popolazioni dell’Isola, ma soprattutto dalle classi benestanti, come il restauratore dell’ordine sociale, profondamente turbato durante il governo della rivoluzione. Nei sedici mesi di quel governo la pubblica sicurezza fu un mito; la vecchia polizia venne distrutta, ma la nuova non si creò; si cambiarono sette ministri di polizia; nelle Camere si udirono frequenti proteste per la scarsa sicurezza nelle campagne e nelle città, per le prepotenze delle squadre e delle compagnie d’arme, come per l’impotenza della guardia nazionale: impotenza superata solo dall’arroganza. Crebbero i reati, e il principio di autorità ne fu tutto sconvolto. Si aggiunga la legislazione nuova, prima del Comitato generale, largo di leggi organiche, frutto d’ingenuità dottrinali, e poi del Parlamento, stretto dalle necessità della guerra e dal bisogno di trovar denaro. Sbolliti i primi ardori, i nobili e gli ecclesiastici cominciarono a temere per i loro privilegi; si videro minacciati negli averi, offesi nelle credenze religiose, ed esposti a violenze rivoluzionarie e reazionarie. Quei vincoli di gerarchia sociale, fortissimi nell’Isola per tradizione di secoli, si andavano via ’via rallentando. Il prestito forzoso, la tassa sulle rendite del clero, l’incameramento dei tesori delle chiese e dei beni dei gesuiti e dei liguorini, non potevano trovar sinceri ammiratori nella nobiltà e nel clero; e quando la fortuna delle armi, e le mutate condizioni d’Italia e di Europa non favorirono più la causa della Sicilia, i nobili, il clero e i benestanti più grossi si persuasero, via via, che solo la restaurazione borbonica poteva reintegrare nelle plebi cittadine e campagnole l’ordine e la tranquillità. Appena Catania fu occupata dalle truppe regie, la guardia nazionale e il Senato di Palermo, persuasi essere inutile ogni altro conato di resistenza, fecero partire per Caltanisetta una deputazione, formata da nobili e funzionari, per presentare le chiavi della città al generale Filangieri, implorando la clemenza di lui e dichiarando che Palermo si sottometteva all’autorità del Re. Pareva che fossero tornati i giorni del 1814.
La rivoluzione si era compiuta in nome dell’indipendenza e della libertà. Per sottrarsi ai Borboni, i quali avevano mancata fede all’Isola, che loro aveva date infinite prove di fedeltà negli anni burrascosi, dal 1799 al 1815, e per rompere ogni vincolo di dipendenza con Napoli, la Sicilia diè nel 1848 un esempio di virtù politica, che da principio s’impose al mondo. Insorse unanime, a giorno fisso, e conquistò l’indipendenza; creò un governo di uomini virtuosi e una diplomazia, la quale non si perdè d’animo nei momenti di maggiore sconforto. Il Parlamento non proclamò la repubblica; ma, volendo conciliare repubblicani e monarchici, modificò stranamente, dopo una discussione di tre mesi, la Costituzione del 1812, e creò un Re da parata, con una Camera di Pari, elettivi e temporanei! Dichiarò decaduto, non il solo Ferdinando II, ma la dinastia sua, rendendo inconciliabile il dissidio coi Borboni; non ottenne che il duca di Genova accettasse la corona, e si ebbe una repubblica effettiva, benché Ruggiero Settimo fosse presidente del Regno di Sicilia. Nel Parlamento avevano maggior seguito i più audaci e i maggiori idealisti: uomini coraggiosi e virtuosi di certo, ma ai quali mancava quasi completamente il senso della realtà.2 Non seppero ordinare un esercito di resistenza, nè pensarono nemmeno a decretare la leva, invisa alle popolazioni dell’Isola. Misero insieme un esercito più turbolento che valoroso, e del quale erano parte essenziale le compagnie d’arme e le squadre. Negli ultimi tempi la rivoluzione degenerò in turbolenta anarchia, soprattutto nelle provincie, dove non erano più autorità, che si facessero obbedire, nè esattori i quali riuscissero a riscuotere le imposte. Se quel periodo non ebbe consistenza politica, fu moralmente glorioso, e Ruggiero Settimo, Mariano Stabile, Vincenzo Fardella di Torrearsa, Pietro Lanza di Butera, Giuseppe La Farina, Michele ed Emerico Amari, Casimiro Pisani, Filippo Cordova, Vincenzo Errante, Francesco Ferrara, Matteo Raeli e Pasquale Calvi — volendo ricordare solo quelli che furono in prima linea — rivelarono un complesso d’intelligenze, di audacie e di alte idealità, ma soprattutto d’idealità. Questi uomini, i quali governarono la rivoluzione, stettero sulla breccia sino a ohe ebbero l’ultima speranza di una resistenza. Ministri o diplomatici, rinunziarono ad ogni assegno; e da esuli, tennero alto il decor loro e la buona fama della Sicilia. La decadenza dei Borboni fu decretata a unanimità, fra le acclamazioni, dalle due Camere; e in quella dei Pari sedevano i rappresentanti della più antica e doviziosa nobiltà, e della gerarchia ecclesiastica più alta.
Occorreva molto tatto, e il principe di Satriano l’aveva mostrato da comandante la spedizione. Bisognava rassicurare gli animi innanzi tutto, e senza sentimentalismi, come senza eccessi, rimettere l’ordine, mostrandosi inesorabile verso tutti quelli che minacciassero di turbarlo, anzi senza pietà addirittura. La celebre ordinanza, che decretava la pena di morte ai detentori di armi, fu rimproverata al Filangieri perchè crudele, ma egli riuscì ad ottenere con essa un concludente disarmo, dopo un’amnistia, che comprendeva anche i reati comuni. Facendo escludere dall’amnistia soli quarantatre fra i principali compromessi, e dando a questi l’agio di abbandonare l’Isola, prima che l’esercito regio entrasse in Palermo, anzi lasciando liberamente fuggire tutti quelli che temevano dalla restaurazione, Filangieri aveva evitato il grave errore dei clamorosi processi politici e degli imprigionamenti in massa, come a Napoli. Il suo doveva essere invece un governo tutto militare, inteso a garentire in modo assoluto l’ordine e la giustizia, e del quale doveva essere maggior puntello la polizia. Durante la lunga dimora in Messina, fino alla ripresa delle ostilità, egli si era circondato di personaggi messinesi, e questi volle nel governo dell’Isola. Ricordo Giovanni Cassisi, consultore di Stato, che gli si mostrava deferentissimo; Michele Celesti, Giuseppe Castrone e Salvatore Maniscalco, giovane capitano di gendarmeria, il quale, nato a bordo di un bastimento in rotta fra Palermo e Messina, era considerato messinese anche lui, benchè di famiglia palermitana. Cassisi, il quale sembrava uomo superiore per prudenza e acutezza di mente, fu dal Filangieri proposto al Re, prima come commissario civile, e poi come ministro di Sicilia a Napoli; Celesti fu intendente di Messina, e il capitano Maniscalco, che seguiva il corpo di spedizione col titolo di gran prevosto, fu direttore di polizia, ma conservando il grado militare. Capitano di gendarmeria il 24 novembre 1848, nel 1860 era maggiore dei carabinieri. Figurava sul ruolo militare, ma per memoria, come si diceva allora.
Scelta felice quella del Maniscalco, infelicissima la scelta del Cassisi, che fu davvero la maggiore spina del luogotenente, e l’obbligò a dimettersi. Filangieri non previde che un siciliano, ministro di Sicilia a Napoli presso il Re, e uomo di legge e però formalista, non poteva non riuscire un bastone fra le ruote per il luogo tenente, napoletano e soldato. Si aggiunga un’assoluta diversità d’indole tra i due: risoluto il Filangieri a superare ogni difficoltà militarmente, a tagliare, non a sciogliere i nodi; curiale il Cassisi, che si perdeva nelle minuzie, e con sicula abilità, benissimo simulando e dissimulando, alimentava nell’animo sospettoso del Re le prevenzioni contro il Filangieri. Il primo Consiglio di governo fu formato dal barone Ferdinando Malvica, e poi da Pietro Scrofani per l’interno; Giuseppe Buongiardino per le finanze, Gioacchino La Lumia per la giustizia e affari ecclesiastici, e Salvatore Maniscalco per la polizia. Filangieri scelse per suo segretario particolare un giovane alunno di magistratura, vivacissimo d’indole e d’ingegno, Carlo Ferri, che morì a Napoli nel 1883, dopo avere avuto un momento di celebrità, presedendo, nel 1879, la Corte d’Assise che condannò il Passanante. Prese come suo aiutante il maggiore di artiglieria Francesco Antonelli, ch’egli conosceva sin da quando era ispettore generale d’artiglieria e genio, e conobbe meglio durante la campagna di Sicilia, avendolo avuto nel suo stato maggiore, come capitano. L’Antonelli nel 1855 fu promosso tenente colonnello; nel 1860 divenne brigadiere; e capo dello stato maggiore a Gaeta, ne firmò la capitolazione. Aveva egli un raro dono naturale, quello di saper fischiare in maniera così perfetta che, non vedendolo, pareva di sentire un flauto, e fischiando, accompagnato dal pianoforte, riscuoteva l’ammirazione di quanti lo udivano. Riordinando più tardi la redazione del Giornale Ufficiale di Sicilia, Filangieri ne nominò direttore un valoroso giornalista messinese, Domenico Ventimiglia, il quale era stato nel 1848 redattore dell’Arlecchino a Napoli, e poi aveva scritto nel Tempo del D’Agiout, e pubblicate cose letterarie e archeologiche. Il Ventimiglia, spirito scettico in politica, ebbe una vita giornalistica avventurosa, e morì a Roma, nel 1881, direttore dell’Economista d’Italia. Io gli fui amico, e posso attestare che tanto lui, quanto il Ferri, che conobbi parimente, serbarono un così sincero senso di devozione alla memoria del principe di Satriano, che quasi ne parlavano con le lagrime agli occhi.
Ristabilito via via l’ordine pubblico con le note ordinanze di maggio e di giugno, e tolta ogni voglia di nuove agitazioni politiche, Filangieri non permise in quell’anno la tradizionale festa di Santa Rosalia, che cade il 15 luglio. Il Giornale di Sicilia ne dava l’annunzio con queste curiose parole: "La plebe, per cui tal classica festa è un elemento di gioia, attende il venturo 15 luglio 1850 per esilararsi senza usura di sfoggi„. Non meno comico era stato, due mesi prima, il modo, col quale lo stesso giornale aveva annunziata la grazia fatta a Giuseppe Pria, a Francesco Giacolone e a Francesco Davi, i quali, condannati a morte come detentori d’armi, furono condotti fuori porta San Giorgio per essere fucilati; ma nel momento, in cui la fucilazione doveva eseguirsi, giunse la grazia. Quel foglio aveva, con impeto lirico, concluso l’annunzio così: " Ma sappia il mondo, che dove la morte si cangia in vita; dove alla tristezza succede l’esultanza; dove al disordine succede la calma, è Ferdinando II che regna, è Carlo Filangieri che lo rappresenta„.
Un’altra ordinanza proibì il Biribisso, giuoco popolare di azzardo, che allora si faceva in due modi: o con una specie di trottolina in un piattello con numeri, e vincitore era il numero sul quale cadeva la trottolina; o con una tavoletta con 36 figure, aventi il numero corrispondente in 36 pallottole chiuse in una borsa. Ed uno tenendo il banco, gli altri scommettendo, vince quella figura, che porta il numero estratto da chi tiene il giuoco. Nell’uno e nell’altro modo, era un giuoco di azzardo, e bene fece il luogotenente a proibirlo.
Per l’ordinamento della polizia, Filangieri lasciò le mani libere al Maniscalco, nel quale aveva una fiducia illimitata; e Maniscalco si diè a crearne una, che fosse conoscitrice profonda delle più intime magagne dei bassi fondi sociali: polizia non politica soltanto, come si disse, ma politica, secondo le occasioni, e in queste non sempre pari a sè stessa. Riorganizzò i militi a cavallo, o compagnie d’arme, contro la volontà del Cassisi; li chiamò responsabili degli abigeati, frequentissimi nelle deserte campagne della Sicilia centrale, e vi pose a capo alcuni che avevano servito la rivoluzione, ma abilissimi, e che erano tornati a servire, con lo stesso ardore, il vecchio regime che risorgeva. Questi militi, pur non essendo tutti cime di galantuomini, resero servigi eccezionali; e, a giudizio di amici e di nemici, giammai la Sicilia ebbe tanta sicurezza, come in quel periodo.
Maniscalco rivelò un’abilità di prim’ordine. Statura media, occhi azzurri, corte basette, piccoli baffi biondi e capelli accuratamente ravviati, egli vestiva in borghese con semplicità e correttezza militare, ma, nelle grandi occasioni, indossava la sua divisa di capitano. Giovane a 35 anni, discorreva il meno che potesse, preferendo ascoltare. Aveva penetrazione rapidissima e sapeva nascondere ogni sentimento d’ira o di compiacenza sotto un fine sorriso d’incredulità e di ironia. Padrone di sè, sapendo comprimere ogni sua passione, e frenando gli scatti di un’indole calda e vivace, egli non perde veramente la calma, che una sola volta, come si dirà appresso. La leggenda sul suo nome cominciò negli ultimi tempi, quando, ripresa la cospirazione, i cospiratori si convinsero che ogni loro conato si sarebbe infranto contro l’opera del Maniscalco. Egli esercitò per undici anni il suo ufficio, senza interruzione alcuna. Mutarono due Re e tre luogotenenti; mutarono tre ministri di Sicilia a Napoli, e parecchi direttori, ma Maniscalco rimase al suo posto. Fu l’unico funzionario che fece il suo dovere sino all’ultimo, chiudendosi in palazzo Reale col generale Lanza, all’ingresso di Garibaldi, e solo uscendone dopo la capitolazione. Si disse che gli eccessi di lui facessero ai Borboni più male di Garibaldi. Io credo che sarebbe più giusto affermare che, senza Maniscalco, i Borboni avrebbero perduta la Sicilia, appena dopo la morte di Ferdinando II. Quel dominio si reggeva per la forza delle armi e della polizia, non altrimenti di come si reggeva nel Lombardo— Veneto il dominio austriaco; e il nome di napoletano era aborrito in tutta l’Isola, quanto a Milano il nome di croato. Se Maniscalco non fosse stato siciliano, e polizia tutta siciliana la sua, gli strumenti per mandarlo a gambe in aria non sarebbero mancati.
Gli odii più violenti si vennero via via accumulando sul suo capo, ma egli non era uomo da aver paura, o da mostrarsene consapevole. Zelante, ma non plebeo, come Peccheneda; non visionario, come Mazza; non ignorante, come Aiossa, nello zelo del Maniscalco c’era qualche cosa, per cui egli, distinguendo e salvando le forme, colpiva l’immaginazione e lasciava il segno. La polizia la faceva lui, nè vi era grosso comune dell’Isola, dove egli non avesse qualcuno, il quale, come amico ad amico, lo informasse direttamente di quanto avveniva. Amava rendersi conto delle cose direttamente, forse perchè non aveva fiducia in nessuno dei suoi agenti, tranne che nel suo segretario Favaloro, che chiamava per celia Fava d’oro.
L’intimità fra il luogotenente e Maniscalco divenne sempre maggiore. Filangieri aveva trovato il suo uomo. Prima di prender moglie. Maniscalco ebbe relazione amorosa, si disse, con una signora, che si affermava sua parente, e corse voce che questa servisse da intermediaria per spillar favori. A tagliar corto su queste dicerie, Filangieri lo consigliò di prender moglie; e Maniscalco sposò nel 1854 una figliuola del procuratore generale Nicastro, e del primo figliuolo, nato l’anno appresso, fu padrino il principe di Satriano, non più luogotenente. Viveva con semplicità, ed erano abitudini quasi austere le sue. Abitava un quartiere in via Abela, sulla cantonata dell’attuale via Mariano Stabile, e ancora quella piccola strada è chiamata dal popolo strada del direttore. Buon marito e buon padre, egli ebbe sei figliuoli, dei quali gli ultimi due nati nell’esilio. Mori nel maggio del 1864 a Marsiglia, non rivedendo più quella Sicilia, di cui per undici anni era stato il personaggio più temuto e odiato. Oggi si comincia ad essere giusti con lui, distinguendo l’uomo dal funzionario, e riconoscendo nel funzionario quello che avea di buono, e quello che aveva di eccessivo, benché agli eccessi fosse stato trascinato dagli avvenimenti, che incalzavano senza tregua. Assolutista rigoroso; devoto sinceramente ai Borboni; convinto che ogni tentativo rivoluzionario doveva essere represso senza misericordia; e convinto ancora che, meno pochi turbolenti, come diceva lui, le popolazioni della Sicilia non desideravano veramente che sicurezza pubblica, imposte minime, feste religiose e vita a buon mercato, egli compi il suo dovere senza venirvi mai meno. Il problema politico non lo vedeva.
Lo vedeva invece il luogotenente, cui non bastava ristabilir l’ordine, riorganizzare la polizia e tutte le amministrazioni pubbliche, rifare il Decurionato di Palermo, nominandone pretore il vecchio duca Della Verdura; dar nuovi capi alle provincie e alla magistratura, le guardie urbane ai comuni, e confermar sopraintendente agli istituti di beneficenza il vecchio duca di Terranova, benché avesse nella camera dei Pari votata e firmata la decadenza, e ne’ rispettivi loro uffici tanti altri, che avevano pur servita la rivoluzione.
Per rendere durevole il dominio dei Borboni nell’Isola, occorreva venir riconciliando al Re e alla dinastia tutta quella parte della società siciliana, che se n’era alienata per i fatti del 1848, ed occorreva farlo con garbo e senza ombra di violenza. Il ministro Giustino Fortunato aveva ideata a Napoli la famosa petizione al Re per l’abolizione dello Statuto, ma al Filangieri non bastò che il Senato di Palermo prima, e poi tutti i municipii dell’Isola votassero al Sovrano indirizzi di fedeltà e di ringraziamento, per la ottenuta ripristinazione dell’ordine, né che il Senato di Palermo votasse a lui la cittadinanza e una spada di onore, e quattro statue agli ultimi Re Borboni: egli si adoperò perchè ottantuno ex Pari sopra 160, e centotre ex deputati sopra 202, quasi tutti quelli che non erano fuggiti, sottoscrivessero, senz’aver l’aria di esservi costretti, umili suppliche al Re, dichiarando "di paventare il severo giudicio della storia, l’esecrazione della posterità, e di sentire il bisogno di dover svelare che sottoscrissero l’illegale atto per violenza„.
L’illegale atto era la decadenza dei Borboni dal trono della Sicilia. Se quelle firme non furono tutte ottenute spontaneamente, come il Filangieri affermò nel suo libro,3 — miniera di documenti interessanti — non si potrebbe affermare che vi fossero costretti con la violenza, perchè veramente non risulta da nessun documento, che qualcuno fra coloro, ex Pari o ex deputato, che si rifiutò di firmare, fosse punito o perseguitato. Gli esuli siciliani, a Parigi, a Londra e a Torino, protestarono contro le ritrattazioni; ma giustizia vuole si dica, che esse non furono tutte imposte dalla paura, ma solo, e per tutti, dal desiderio di quieto vivere. Ricorderò fra quelli che non firmarono, il barone Casimiro Pisani, il quale non subì molestie. Si narra che il principe di Palagonia, il quale era stato Pari, invitato a sottoscrivere, rispondesse: "Questi sono atti politici e collettivi; le dichiarazioni singole nulla aggiungono e nulla tolgono„; e firmò. Egli era andato a Caltanisetta a portare le chiavi della città di Palermo al Filangieri, col marchese Di Rudinì, monsignor Ciluffo, giudice della Monarchia, il conte Lucchesi Palli e l’avvocato Giuseppe Napolitani. Ma le contradizioni furono tante in quel periodo, che non è maraviglia se il Palagonia così operasse. Quella petizioni degli ex Pari e degli ex deputati non sono certo un documento di umana sincerità e di umano coraggio, anche perchè alcuni, complessivamente, altri singolarmente, accompagnarono la ritrattazione con pretesti non degni del loro grado. I più dicevano di esservi stati costretti dalla forza, altri dall’ignoranza; e il principe di Giardinelli, Gaetano Starrabba, dichiarava di aver sottoscritto l’esecrando decreto per le minaccie di fatto, a cui non poteva opporsi, però trascurò la firma qual procuratore del principe Alcontres di Messina; mentre l’ex deputato Ditiglia, barone di Graniano, dichiarava che firmò l’atto di decadenza per semplice errore d’intelletto, e mai per prevaricazione d’animo. E Lionardo Vigo Fuccio, che fu deputato allora e tornò ad esserlo dopo il 1860, e per varie legislature, aggiungeva: "Fui sempre avverso all’illegale e nefando atto del 13 aprile 1848, pur lo firmai, perchè inevitabile in quel tempo ed in quel giorno„.
Più schietta fu la petizione dei Napoletani, immaginata e scritta dal Fortunato e di cui pubblico qui il testo, come ho detto. Nessuno, di quanti hanno scritto delle cose del 1848, l’ha avuta veramente sott’occhio. Il testo originale, con le tante migliaia di firme autografe, fu distrutto, mi si assicura, nel 1860, perchè davvero questa dimostrazione plebiscitaria, consigliata dalla paura, sarebbe stata poco conciliabile col plebiscito nazionale di undici anni dopo. Eccola:
- "Sacra Real Maestà,
" La città di .... in provincia di ... . per proprio convincimento è persuasa ed ha riconosciuto dalla esperienza dei tempi trascorsi, che il regime costituzionale non conduce in questo Regno al pubblico bene ed al vero ed onesto progresso sociale, ai vantaggi del commercio e dell’agricoltura, ad altro non avendo servito se non che ad eccitare le più abiette passioni, ed a garantire le mire anarchiche di uno sfrenato ed immorale partito distruttore di ogni pubblico bene e prosperità, nemico della religione e del trono e di ogni civil reggimento; partito che si avvale di tale regime, solo per avanzarsi a minare tutto l’edificio sociale di ogni virtù, manomettendo ogni diritto ed ogni ragione. L’esperienza di sì tristi frutti finora raccolti e la preveggenza delle future inevitabili sventure, che può arrecar a questo Regno, ha resa questa forma di governo antipatica e pesante alla sua maggioranza dei buoni e fedeli sudditi della M. V. Essi vogliono vivere sotto le paterne sante leggi della M. V., Augusto discendente di quella magnanima stirpe di Re, che ha tolto queste contrade alla condizione di provincie soggette a lontano dominio, che le ha ripristinate alla dignità di Regno indipendente, che a questo immenso dono ne ha aggiunti tanti e tanti colle sapienti leggi, di cui ha dotata la Monarchia.
"Queste leggi, o Signore, bastano alla felicità ed al beneficio dei vostri popoli. Essi con tutta l'anima, colle forze della loro coscienza, solennemente respingono la straniera rivoluzione, importazione di un regime non fatto per loro!
" Piaccia alla M. V. riprendere la concessione strappata dalla violenza e dalla perfidia colla violazione dei più sacri doveri, e preparata colle più sacrileghe ed inique mire settarie. Ritorni noi popoli sotto l'unico potere del paterno Suo Scettro, e noi ed i nostri figli benediremo, colla restaurata potente forza della Monarchia assoluta, il nome sagro del nostro magnanimo buon Re Ferdinando II „.
La petizione aveva forma ufficiale, e però era difficile sottrarsi a firmarla, potendo il rifiuto aver quasi l’aria di una provocazione. La procedura era questa. Un agente di polizia la presentava al sindaco, che la sottoscriveva e faceva sottoscrivere dai Decurioni, dai proprietari ed altri cittadini. Le firme erano autenticate dai pubblici notari. I sindaci, che si rifiutarono di firmare, veramente ben pochi, furono via via destituiti, dichiarati attendibili e tenuti d’occhio dalla polizia, come avvenne a Giuseppe Beltrani, sindaco di Trani, al quale la petizione fu presentata dal commissario di polizia, don Tommaso Lopez. Il mio amico Giovanni Beltrani, nipote dell’animoso sindaco, e felice raccoglitore di documenti storici caratteristici, trovò copia del documento fra le carte dello zio.
Carlo Filangieri conservò i vecchi privilegi dell’Isola: il porto franco a Messina, l’esclusione dalla leva e dalla gabella del sale e la libera coltivazione del tabacco. Furono assoluti i Comuni dai debiti contratti durante la rivoluzione; reintegrati la Chiesa, lo Stato e i pubblici stabilimenti nei beni alienati, e restituiti quelli confiscati ai gesuiti e ai liguorini. Ripristinò la Consulta, istituita nel 1824; e trovando in pessime condizioni l’erario, o non credendo opportuno nei primi tempi accrescere le tasse, istituì un debito pubblico per la Sicilia, che in poco tempo salì alla pari, e poi la superò.
Il principe di Satriano era vissuto nella sua gioventù tra i maggiori splendori, benché egli fosse personalmente semplice, non senza qualche tendenza all’austerità. Luogotenente del Re in Sicilia, intendeva la necessità di circondare il suo potere di prestigio, un po’ napoleonico, ma di sicuro affetto sulle popolazioni immaginose dell’Isola. Abitò in Palazzo Reale ed ebbe una Corte. La Reggia Normanna, dov’è raccolta tanta dovizia di arte e di storia, si riaprì ai balli, ai conviti e ai grandi ricevimenti. Gli onori erano fatti dalle bellissime figliuole del luogotenente, ma soprattutto dalla duchessa Teresa Ravaschieri, nel fiore della bellezza e della gioventù, e vi andava talvolta da Napoli o da Parigi il figliuolo Gaetano, bel giovane, à bonne fortune. Il principe riceveva con magnificenza regale. Usciva ordinariamente in grande uniforme, facendo circondare la carrozza da un drappello di dragoni, e qualche volta distribuendo carinelli (moneta d’argento di 42 centesimi) alla poveraglia, che si affollava al suo passaggio. Ristabilì tutto il cerimoniale della Corte di Spagna col relativo baciamano, e nel giorno della festa del Re si vedevano andare in giro i caratteristici carrozzoni con le sfarzose livree. A capo delle milizie prendeva parte alle processioni celebri di Palermo, in mezzo al suo stato maggiore. In ufficio indossava la divisa, anzi ordinò che tutti gli impiegati regi dovessero portar l’uniforme. Mi si narra che don Antonino Scibona, a cui voleva gran bene, disapprovasse tale ordine, osservando non esser giusto obbligare gl’impiegati, quasi tutti povera gente, a questa spesa. Il principe, trovando giusta l’osservazione, non revocò l’ordine, ma dispose che le uniformi fossero messe a carico dell’erario e venissero indossate nelle occasioni ufficiali.
Molto era il suo prestigio. Figlio di Gaetano Filangieri; soldato di Napoleone; uccisore in duello del generale Franceschi, perchè sparlava dei napoletani; crivellato di ferite al ponte San Giorgio nella disgraziata campagna di Murat contro gli austriaci; imparentato con quanto di più alto contava la nobiltà dell’Isola, poichè la principessa di Satriano nasceva Moncada di Paternò; dotato di una inflessibile energia, di cui aveva dato prova durante la campagna: tutto concorreva ad aumentare questo prestigio. Egli seguiva fedelmente la massima napoleonica: messo a governare un paese ribelle, doveva innanzi tutto farsi temere; possibilmente, farsi amare; doveva togliere via via con la forza e col tatto, le cause, le occasioni e perfino i pretesti di ogni tentativo di rivolta. E vi riuscì. Quasi tutto il patriziato fu riconquistato alla causa dei Borboni. Le feste alla Reggia ricordarono quelle di altri tempi, e fece venire da Parigi un cuoco, certo Charles, che ebbe celebrità e fu invidiato dai maggiori signori di Palermo.
Il Giornale di Sicilia continuò per lungo tempo a pubblicare indirizzi di fedeltà al Re e di riconoscenza al luogotenente, da parte dei municipii, in uno stile ch’è quanto si può immaginare di più caratteristico. In breve, l’antico regime fu restaurato in tutta l’Isola. Il Crispi, testimone non sospetto, dovè confessare, molti anni dopo, in un suo discorso, che la restaurazione dei Borboni fu rapida e parve un mistero.
Rimesso l’ordine, rinacque, un po’ per volta, la vita sociale coi suoi spettacoli e passatempi, profani e sacri. Si riaprì il teatro di Santa Cecilia con gli Esposti del maestro Ricci; una signora di Parigi, Eloisa Déhue, fondò un buon istituto di educazione per le signorine dell’aristocrazia e borghesia ricca; Gambina Fici, specialista di ritratti al dagherrotipo, ne fece una esposizione, che richiamò tutta la città, prima all’albergo di Sicilia, al Pizzuto, e poi nella tabaccheria del Castiglia, in via Toledo; e il duca di Caccamo, suscitando le critiche di tutta la nobiltà, faceva noto che affittava il suo casino di Mostazzola, sul quale il Meli aveva scritto questi dolcissimi versi, tant’anni prima:
Alla calma, alla pace, alla quiete |
Bisognava compiere l’opera e indurre il Re a visitare la Sicilia. Impresa non facile, dopo quanto era avvenuto, ma Filangieri conosceva i Siciliani, ed era sicuro della sua polizia. Far venire il Re in Sicilia, farvelo rimanere qualche tempo tra Palermo, Messina e Catania, era suggellare la pace tra l’Isola e la dinastia. Meno che odiare i Borboni, i Siciliani odiavano i Napoletani, non rassegnandosi alla perduta indipendenza. Certo, non era cosa agevole persuadere Ferdinando II a compiere quel viaggio, poiché nell’animo di lui eran rimasti vivi tutt’i ricordi del 1848; e coi ricordi, i rancori; e coi rancori, forse le paure. La Sicilia era stata riconquistata con le armi, dopo avere eletto un altro Re, figlio dell’odiato Carlo Alberto. Ferdinando II non possedeva la virtù di obliare o celare i proprii rancori. Il luogotenente tornò ad insistere, sapendo che il Re aveva risoluto, nell’ottobre del 1852, di far eseguire esercitazioni militari nelle Calabrie, ma le insistenze sue riuscirono solo in parte, perchè il Re si lasciò indurre a visitare fugacemente Messina e Catania, non Palermo. Egli intendeva dare una lezione ai palermitani, e fu errore politico, perchè Palermo, che gli avrebbe fatte clamorose accoglienze, risenti il dispetto dell’esclusione. Sarà bene ricordare quel viaggio, l’ultimo che fece Ferdinando II in Calabria e in Sicilia, e ricordarlo nei suoi particolari più caratteristici.
Note
- ↑ Archivio Filangieri.
- ↑ Avevo scritto queste pagine, quando mi pervenne da Palermo un libro di piccola mole, ma denso di pensiero e di acume critico, dal titolo: Il marchese di Torrearsa e la Rivoluzione siciliana del 1848. (Palermo, 1899). Ne è autore il signor Giovanni Siciliano, che rileva tutti gli errori e le contradizioni del governo della rivoluzione in Sicilia, dimostrando come il solo uomo, che rivelasse criterio politico, fosse il marchese di Torrearsa, di cui esamina l’interessante libro: Ricordi sulla rivoluzione siciliana degli anni 1848 e 1849, pubblicato a Palermo nel 1887.
- ↑ Memorie istoriche per servire alla storia della rivoluzione siciliana del 1848-1849. (Italia, 1853). — È curioso che, mentre questo volume di circa 900 pagine, in grande edizione di lusso, fu pubblicato in Palermo dal nota editore Lao, il nome del Lao e il luogo di stampa non vi figurano.