La crisi dell'infanzia e la delinquenza dei minorenni/I delitti contro l'infanzia
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | La delinquenza dei minorenni | Il dissolvimento della famiglia | ► |
I delitti contro l'infanzia
Uno studio psicologico interessante sarebbe il ricercare perchè l’attenzione del gran pubblico non segua, come dovrebbe, certi problemi sociali gravissimi che pur sono discussi, con ampiezza e con passione degne di maggior successo, da un piccolo nucleo di competenti.
Se il Ministero aumenta di mezzo centesimo il prezzo delle sigarette, il piccolo provvedimento fiscale è oggetto di lunghi commenti nella stampa: se il Ministero presenta un progetto per la ricerca della paternità, i giornali tacciono e l’atmosfera di silenzio non è turbata che dal sorriso ironico di qualche scettico.
Vi è, in questa indifferenza, un po’ di egoismo e di cinismo maschile, v’è la furba tattica di voler fingere d’ignorare problemi che turbano la coscienza e vi è anche la previsione, resa legittima da una lunga esperienza, che tali progetti son destinati a non diventar mai leggi, e vengono proposti unicamente per addormentare i pochi spiriti inquieti che ostinatamente li chiedono.
Pure, se noi fossimo logici — e la logica è la lealtà del pensiero — noi dovremmo ribellarci contro le strane disposizioni dei nostri Codici, le quali mentre s’informano tutte al principio di responsabilità, violano questo principio quando si tratta del fatto fondamentale della vita umana, la nascita di un figlio.
Il padre e la madre sono per legge irresponsabili di aver messo al mondo un bambino: essi hanno diritto di respingere da sè la loro creatura come cosa spregevole fin dal primo giorno della sua esistenza. Gli articoli 376 e 189 del Codice Civile autorizzano questa eccezione di irresponsabilità, ne fanno anzi una regola assoluta per la maggior libertà degli uomini e per la maggiore tranquillità delle famiglie.
Noi non siamo così semplicisti o così ingenui da credere che basterebbe un progetto sulla ricerca della paternità, per correggere questa illogicità e questa ingiustizia della legislazione: — troppo è grave ed arduo il problema per illudersi di risolverlo con un tratto di penna: — noi abbiamo voluto soltanto constatare che la legge consacra il principio che l’atto di dare la vita a una creatura umana è il solo che non importi la responsabilità di chi lo compie, perchè in questo principio noi ravvisiamo il primo delitto che la società commette contro l’infanzia.
È un delitto inconscio e fatale, cui forse nessuna volontà di individui e nessuna sapienza di Governi saprà mai porre totale rimedio, ma è un delitto dal quale troppi altri dipendono perchè non ne debba essere ricordata l’importanza e la gravità.
Come provvede lo Stato a quelle migliaia di illegittimi e di esposti che ogni anno entran nel mondo col marchio indelebile d’una inferiorità sociale?
Ognuno sa quanta incertezza e quanto disordine regnino in questo ramo dell’assistenza pubblica, che deve regolare la condizione di oltre 130 mila fanciulli, e che costa 14 milioni all’anno.
L’on. Giolitti, nella tornata del 4 maggio 1907 aveva presentato al Senato un disegno di legge sull’ « Assistenza agli esposti ed all’infanzia abbandonata », nel quale disegno erano molte e ottime riforme, ed era soprattutto la novità di un primo tentativo di quella organica legislazione in favore del fanciullo, che in altri Stati è già un fatto compiuto. Sono passati quasi quattro anni, e la Camera dei deputati non ha ancora avuto tempo di tradurre quel progetto in legge. Prova codesta che l’indifferenza già constatata nel pubblico riguardo a certi problemi, è diffusa anche nel Parlamento.
Sarebbe tuttavia ingiusto il non riconoscere che di fronte all’apatia di molti e all’inerzia dei legislatori, sta vigile ed alacre l’energia di alcuni. Oggi, nelle classi colte, è vivissima, per una maggiore coscienza dei proprii doveri sociali, la preoccupazione di riparare ai danni e ai pericoli dell’infanzia materialmente e moralmente abbandonata: oggi si sente e si comprende che la beneficenza deve dirigersi, non già come una volta verso i vecchi e gli ammalati, verso i detriti fatali e inguaribili della società, ma verso la gioventù trascurata e indifesa, perchè essa non formi l’esercito della corruzione e della delinquenza future: oggi insomma si riconosce che la società, la quale ha legislativamente commesso quel primo delitto verso l’infanzia, togliendo al fanciullo ogni diritto nel giorno stesso della sua nascita, deve fare ammenda della sua colpa, e almeno privatamente, con istituzioni di assistenza e di beneficenza, deve proteggere i piccoli paria della vita.
Noi non abbiamo ancora osato modificare le leggi, ma noi siamo sulla via di modificarle, perchè ne confessiamo implicitamente l’ingiustizia e facciamo di tutto per ripararla. Questo atto di contrizione della parte migliore dell’opinione pubblica ha infatti esercitato una così forte pressione sul Governo, che questo — come è noto — ha nominato una Commissione per studiare tutti i lati del vasto problema dell’infanzia abbandonata e traviata (che il progetto Giolitti contemplava soltanto in parte); e noi siamo in grado di assicurare che da questa Commissione uscirà fra non molto una proposta organica di provvedimenti legislativi che porterà il nome di Codice dell’infanzia.
In attesa di questo Codice, non sarà inutile fermar l’attenzione su altri delitti che si commettono contro l’infanzia (e non solo contro l’infanzia illegittima) un po’ per colpa della legge, molto — e mi duole il dirlo — per colpa della magistratura.
L’art. 233 Codice Civile, autorizza il Tribunale a togliere o restringere la patria potestà, quando il genitore ne abusi, violandone o trascurandone i doveri. Ebbene: sapete voi quante volte all’anno sia applicato in media questo articolo? Trentotto volte. Ed io mi permetto di credere che questa cifra sia troppo misera in un paese di 34 milioni di abitanti, dove i genitori «che abusano della patria potestà, violandone e trascurandone i doveri», sono certamente e pur troppo assai più.
Non è un delitto contro l’infanzia il lasciare i figli in balìa di genitori indegni, che li sfruttano o li corrompono? Non dovrebbero i magistrati applicare quell’articolo in ben altra e meno irrisoria misura, se fossero veramente pensosi di togliere i fanciulli da ambienti che li depravano?
Ma vi è di più e di peggio. La privazione della patria potestà, in seguito a condanna penale, è obbligatoria solo nel caso di condanna all’ergastolo. Per condanne minori, la legge lascia al criterio dei magistrati la facoltà di infliggere questa privazione; e i magistrati, per indolenza, o per dimenticanza, la infliggono assai di rado. Su 2000 condannati (in media all’anno) a più di 5 anni di reclusione, la patria potestà non fu tolta che a 43. Tatti gli altri genitori-delinquenti conservarono interi ed intatti i loro diritti sui loro figli. Con quale influenza sull’educazione di questi disgraziati si può facilmente immaginare! Se poi vogliamo discendere a specificare la qualità dei reati, che determinarono la condanna dei genitori, lo scandalo si fa ancora più grave.
Su 1800 condannati (in media all’anno) per reati contro il buon Costume e l’ordine delle famiglie, solo a 16 fu tolta la patria potestà. Ora, non è chi non veda come sia semplicemente enorme che 16 genitori soltanto, su 1800 condannati, siano stati colpiti da questa privazione, quando si rifletta che l’indole dei reati contro il buon costume e l’ordine della famiglia, è tale da dimostrare a priori e in via assoluta l’incapacità e l’indegnità ad esercitare i diritti della patria potestà.
Un’ultima considerazione: nell’anno 1900 i genitori condannati «per abuso di mezzi di correzione e maltrattamenti», furono 609, e le privazioni della patria potestà, in seguito a condanne per questo reato, non furono che 8. Noi ci asteniamo da qualunque commento, perchè non sappiamo frenare la meraviglia e lo sdegno.
E osserviamo soltanto che, mentre la magistratura pare consideri questi reati famigliari di così lieve importanza, da non avere quasi alcuna influenza sull’esercizio della patria potestà, il numero dei reati stessi aumenta, con un crescendo spaventoso. Le condanne per maltrattamenti, che erano 272 nel 1891, sono a poco a poco salite (e salite sempre regolarmente d’anno in anno, il che dimostra che il fenomeno doloroso non è purtroppo un’accidentalità, ma una regola dell’epoca nostra) fino alla cifra di 609 nel 1900: vale a dire, che in dieci anni sono più che raddoppiate.
La conclusione, che sgorga da queste constatazioni di fatto, è molto semplice: non c’è, in chi dovrebbe averla, la preoccupazione costante di proteggere il fanciullo dai delitti che si commettono contro di lui, di toglierlo da ambienti famigliari, ove non può che degenerare: i magistrati cioè non approfittano della facoltà che dà loro la legge.
A questa fiacchezza deplorevole della magistratura può essere posto rimedio, stabilendo per legge (come vuole in alcuni casi il progetto Giolitti) la decadenza della patria potestà, anzichè lasciare la facoltà di pronunciare questa decadenza all’arbitrio del giudice. E noi facciamo voti che tale riforma sia approvata dalla Camera.
Ma in quell’indolenza della magistratura noi vediamo qualche cosa di più che non un errore facilmente riparabile da una tassativa disposizione di legge, — noi vediamo il sintomo di uno stato d’animo, che nessun Codice saprà o potrà modificare.
I magistrati, che oggi sono restii a togliete la patria potestà a genitori indegni, o dimenticano il diritto che loro concede la legge, saranno domani inerti od incerti nel prendere i provvedimenti necessarii per sostituire alla patria potestà decaduta una tutela efficace. Perché, il male non è tanto nelle leggi, quanto e sopra tutto nei costumi. Il male è nel nostro indifferentismo, che trascura coi fatti quel problema, che vogliamo risolvere a parole. Si chiedono leggi nuove, ed è giusto che si chiedano; ma sarebbe più giusto e più facile che si eseguissero le leggi esistenti.
Solo quando la magistratura mostrasse di volerle eseguire, noi potremmo sperare che fabbricandone di nuove e migliori, queste porterebbero veramente un vantaggio sociale, e non resterebbero, come le attuali, un’affermazione platonica, che noi siamo incapaci di tradurre nei fatti.