La cieca di Sorrento/Parte terza/II
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II.
beatrice
Erano le 7 del mattino d’una domenica di settembre 1844. In un viale di acacie, posto nel mezzo di graziosa villa di un casino di Sorrento, passeggiava a lenti passi una giovinetta: mentre sovra un poggio di marmo era seduta una donna di matura età occupata a leggere.
Questo casino è situato a manca in sul cominciar della strada Isabella: una villetta all’inglese gli giace al fianco sinistro, interrotta a quando a quando a quando da pampini e da rigogliosi oliveti; ha un cancello a fronte di strada, ed una gradinata di marmo, che da’ due piani del casino svolgesi e mette piede tra i fiori e le piante aromatiche. Sulla terrazza di questo edificio vedesi un’elegantissimo e bizzarro chiosco all’ottomana, d’onde l’occhio si stende su tutta la vaga città degli aranci. Sull’alto del cancello leggesi in lettere di ottone villa rionero.
La giovinetta, che passeggiava lentissimamente, soffermandosi a brevi intervalli, secondo che la lettura che quella donna facea eccitava la sua attenzione, era Beatrice, la figliuola del marchese Rionero, la quale, pel tenero attaccamento che a tutti gli abitanti di quel paese aveva ispirato, addimandata veniva la bella cieca di Sorrento. Aveva i capelli arricciati con cappi di nastro dello stesso color della veste, la quale era di mussolino di gentile e vago disegno. Una bavera benanche di mussolino, ricamata ed orlata tutta di merletto, covrivale le spalle eleganti e ben formate.
Il volto di Beatrice, pel consueto pallido, era in quel momento ravvivato di gentil colore dalla balsamica aria mattutina, pregna dei dolci effluvi degli agrumi sorrentini e delle tante esalazioni che tramandavano le vaghe aiuole di fiori disseminate nella villetta. A veder quella fanciulla soffermarsi e ritornare indietro allorchè trovavasi alla fine del viale, ed andar di tempo in tempo accarezzando colla mano i diversi fiori che più pe’ loro colori brillavano, avresti giurato che ella godea pienamente la luce degli occhi.
La donna che in sul poggio stava seduta avea nome Geltrude.
Sul volto de’ ciechi è sparsa ordinariamente quella tristezza ingenerata dall’isolamento in cui li mette la funesta condizione della loro esistenza. Privi del contatto giornaliero dei loro simili, eglino sono costretti a ripiegarsi continuamente sovra sè medesimi; laonde ogni espansione di anima è morta in loro.
Nonpertanto Beatrice aveva un’amica che ella amava, e che toglievala dalla malinconica concentrazione in cui vivea. Il marchese Rionero era troppo avveduto e filosofo per non pensare che la disgraziata figliuola avea bisogno di una compagna; ma questa non doveva esser nè una donna prezzolata, poichè siffatte donne di rado si affezionano alla gente che li nutrica, nè tampoco una donna di uguale condizione di lei, imperocchè i ciechi, in parità di sorte, guardan sempre con invidia i chiaroveggenti, e però difficil cosa si è che a lor si attacchino per amicizia o per amore. Ma era probabile che ad un essere posto nella casa in umile ma non dispregevole condizione Beatrice sarebbesi ravvicinata.
E così, per buona ventura, avvenne. Non sì tosto, per la prima volta, la figlia di Rionero ebbe udita la voce di Geltrude, la estimò di un cuore generoso, eccellente e devoto, e prese a ben volerla tanto che ella medesima ne gioiva e meno trista erane addivenuta. Sembrava a Beatrice che, siccome a lei mancava un senso, anche in quella donna fosse difetto di un senso, il senso dei ricchi, e pero la disparità scomparsa era tra loro. Beatrice suppliva a Geltrude in quello che le mancava d’agiatezza, e costei suppliva a lei nel senso della vista.
E Geltrude era nata di onesti genitori ed appartenenti al colto ceto medio; sicchè non in qualità di cameriera avea stanza in casa Rionero, ma sibbene qual familiare era tenuta e riguardata; aveala in istima il Marchese, e moltissimo amore addosso le avea posto la fanciulla, perciocchè le intere giornate con lei sola rimanea, quando mancavale la momentanea compagnia del tenerissimo padre. Dobbiam dir veramente che Geltrude meritavasi quella estimazione e quell’amore, che ad una naturale bontà di cuore congiungea non comune istruzione e intelligenza. Bravi tanta dolcezza e tanta bontà nelle cure che ella prestava alla sventurata cieca, che questa vicino a lei sentiva men trista la solitudine della cecità. Il libro, in sulla cui lettura era tutta intesa Geltrude e che tanto chiamar parea l’attenzione di Beatrice, era il famoso romanzo del Manzoni I promessi sposi. Quella storia così semplice e cara, quelle angosce di due vergini anime che si amano, ed a cui la prepotenza e la malvagità fanno aspra guerra, commoveano oltremodo il cuor della fanciulla, sì che Geltrude avendolo cominciato a leggere la sera precedente, fu desta a prima ora del mattino per ripigliarne il filo interrotto.
Geltrude uvea dato cominciamento al settimo capitolo, quello principia con queste parole:
«Il padre Cristoforo arrivava nell’attitudine d’un buon capitano che, perduta senza sua colpa una battaglia importante, afflitto ma non iscorato, sopra pensiero ma non istordito, a corsa e non in fuga, si porta ove il bisogno lo chiede, a premunire i luoghi minacciati, a rassettare le truppe, a dar nuovi ordini.
La pace sia con voi, diss’egli in entrando. Non vi è nulla, da sperare dall’uomo: tanto più bisogna confidare in Dio..»
La voce del Marchese interruppe Geltrude, e la chiamò... Era l’ora di preparar la colezione.
Interrotta così nella sua lettura, Geltrude pose il lacciuoletto di seta in mezzo alle pagine del Manzoni, al punto in cui avea rifinito di leggere, rimase il libro sul poggiuolo, e andossene in sull’appartamento a preparare la colezione.
Beatrice restò sola nella villetta — Ella s’incamminò verso la Flora — Chiamava ella in tal guisa un piccol recinto circondato da un boschetto di aloe, in mezzo al quale sorgea, tra gentile aiuola di fiori, bella, statua di marmo rappresentante una Flora farnesiana — La cieca aveva imparato a conoscere, dallo stelo o dalla forma de’ petali, ciascun fiore, e spesso dal semplice olezzo. In bella disposizione erano ordinati que’ fiori, imperocchè vedevi il campestre fioralisso di azzurro sbiadato, al quale facea corona il candido tuberoso, il cui soavissimo odore è capace di per sè solo di profumare un’aiuola; vedevi levarsi altiero e ricco di petali il purpureo amaranto, quasi pennacchio di cavaliere, e più lungi, l’anemone col suo disco celeste che si agita al più insensibil soffio dell’aura, anche quando immobili stannosi gli altri fiori; eravi l’angelica rapita in estasi misteriosa, i cui verdastri ombrellini covrono la pudica violetta mammola, che, a metà nascosta, vien tradita dalla deliziosa fragranza che spande; e finalmente sul suo stelo peloso e ricurvo il trifoglio spiegava le sue sanguinose foglioline; ed al suo fianco spaventata tremar parea la pallidissima giunchiglia.
Sotto i piedi della Flora scorrea gentil rivoletto, coverto interamente dalle larghe foglie di pianta acquatica; e Beatrice rimaneasi talvolta lunghissime ore a udire il monotono gemere di quel filo d’acqua, che rassembrava al sommesso pianto di un’amante tradita. È indicibile quanta varietà di sentimenti trovano i ciechi ne’ suoni, e massime nella umana voce, dalla quale giudicano della bellezza corporale di un individuo, almeno secondo le rispettive idee che hannosi formate della bellezza in generale.
Dal mormorio di quel ruscelletto Beatrice formavasi un concetto delle naturali bellezze, e trovava un accordo tra la sua anima e quelle voci malinconiche.
Il marchese Rionero abbracciò sua figlia, la baciò in fronte.
— Buon giorno, Beatrice; come stanno i tuoi fiori?
— Il lor profumo è più che mai delizioso questa mane.
— Questa mattina avremo visite, figlia mia; avremo gente a pranzo con noi.
— E chi mai?
— Il tuo fidanzato Amedeo col suo amico Lionelli, e il conte Franconi, il quale mi ha promesso di presentarmi il famoso medico Inglese Oliviero Blackman, arrivato da pochi giorni in Napoli.
— Altro medico! A che prò, padre mio? Sono ormai 17 anni che sono cieca, e t’illude ancora la speranza che io possa guarire? D’altra parte, io sono felice, padre mio, vicina a te, a Geltrude, in mezzo ai miei fiori; sono rassegnata al voler di Dio, e l’universo che mi sono creato nella mia fantasia non può essere men bello di quel che è in realtà... Se desidero la luce, egli è soltanto per rimirare il tuo volto... Oh, ma che dico! io lo so, il tuo volto, no, non m’inganno, io ti veggo nel mio pensiero... Come sono belli i tuoi occhi! con che amore si fissano su me!... Eppure, se io ti vedessi un solo istante...: non avrei niente altro desiderare... morrei più contenta!
Gli occhi del padre erano velati di lagrime.
— Figlia, benedetta figlia mia, il volere di Dio sia fatto innanzi tutto. S’ei vuole che tu sii per sempre priva di rimirar l’universo, curvar ci è forza il capo ai suoi imprescrutabili decreti, ma chiamami anche troppo corrivo alle illusioni, spenta non è nel mio cuore la speranza che un giorno tu debba riacquistare la luce degli occhi... Oh! come il resto della mia vita volenteroso darei, se pure un attimo io ricontemplar potessi le tue pupille! Lo sguardo dei tuoi occhi mi è rimasto scolpito nel cuore e nella mente; io lo ritrovo accanto alla rimembranza della sventurata tua genitrice. La notte tremenda del 23 gennaio, che per te dura tuttavia, e che ancor ti circonda con le sue sanguinose tenebre, dovrà diradarsi. Iddio non può permettere che quella esecrabil notte pesi eternamente sulle tue pupille.
Beatrice levò la fronte al cielo, congiunse le mani, e sclamò con accento commosso:
— E mia madre!... Chi ne desterà il sonno di morte? Oh, padre mio, se voi la vedeste come la veggo io nel raccoglimento della mia anima!... In quella notte io riposava accanto alla madre mia!... Quella notte per me non è finita... E quando a Dio piacerà di chiamarmi a lui, io mi sarò destata dal mio sonno, ecco tutto!.. Il giorno della mia morte sarà per me come il domani del 23 gennaio 1827... Rivedrò mia madre!!
— Taci, figlia mia, taci, oh! non dire di coteste frasi che mi squarciano il cuore... Abbi fiducia in Dio. Hai tu inteso a parlare di Oliviero Blackman?
— Sì, talvolta si è parlato di costui nelle nostre conversazioni; dicesi godere d’una fama grandissima.
— Basti il dire che come prima si è saputo a Napoli essere giunto questo insigne professore, l’albergo delle Crocelle, dove ora egli si trova, è ingombro di carrozze da mane a sera; le più illustri famiglie se ne contendono una visita. Si citano prodigi da costui fatti, massimamente per le infermità degli occhi.
Beatrice abbasso il capo, dandogli una leggiera ondulazione quasi che avesse detto al padre: Illusioni! Vane speranze!.. Il Marchese osservò quel movimento, ma finse di non averlo compreso, e continuò:
— Ti dirò in confidenza, figliuola mia, che ho ritardato il tuo matrimonio a bella posta. Il conte Franconi mi avea scritto da Londra sulla straordinaria abilità di questo Oliviero Blackman; mi aveva detto che questi aveva oprato portenti su i ciechi. Puoi immaginarti quante premure feci al Conte, affinchè avesse indotto il Blackman a farsi una passeggiata in Italia; ed un bel mattino, mi ebbi la consolazione di leggere in una lettera del Conte, che il medico erasi finalmente deciso a passare in Napoli la stagione autunnale, e che forse avrebbero fatto insieme il viaggio. E col fatto, pochi dì or sono, giunsero, ed io concertai col mio amico di qui menarlo un bel dì, sotto pretesto di fargli fare una scappatella in campagna... Ed ieri appunto mi scrisse che questa mattina sarebbero venuti... Ma bada, figlia mia, che ho avuto cura d’invitare anche il tuo Amedeo... Il fidanzato mitiga l’asprezza del medico, il quale, a quanto dice il Conte, è un vero selvaggio isolano.
Beatrice sorrise, e il suo volto si soffuse di rossore.
Dobbiamo dire che il cuore di Beatrice, semplice, puro ed innocente, altro amore non sentiva che pel padre. Un giorno questi le avea detto che un giovine erasi preso d’amore per lei; che richiesta avea la sua mano, e che essendo nobile, ricco e dabbene, l’avrebbe fatta felice... E Beatrice, che facea sua in ogni cosa la volontà di suo padre, non si oppose al divisato matrimonio. Nella sua infantile innocenza ella non vedea nel nodo coniugale che un dovere impostole dalla religione, e nel marito un fratello, un compagno, un amico. Parecchie volte Amedeo rivolto le avea il discorso allorchè soli trovavansi; ed ella nelle parole del suo amante altro non iscorgea che generoso e nobil sentire, accoppiato ad una eleganza estrema di modi e di linguaggio. A sentirlo parlare di arti, di letteratura, di cavalleresche discipline, l’animo della giovinetta era rapito, ma il suo cuore rimaneasi freddo; imperocchè vi era nell’accento di lui qualche cosa ch’ella non sapea spiegarsi, ma che pur le metteva una certa paura come di lontano disastro. E siffatto misterioso sentimento gittava su gli slanci del vergine suo cuore una mano repressiva e agghiacciata, ond’ella, amata e non amante di Amedeo, rassegnata impertanto mostravasi a subire le leggi maritali; al che persuadeva la benanche un pensiero di gratitudine verso un nomo che, giovine, ricco, di bel volto ed ingegno, e che pretender poteva ad un brillante maritaggio, avea scelta per sua sposa una povera cieca.
Ma era poi vero l’amor di Amedeo?