La cieca di Sorrento/Parte sesta/III

III. La stanza di Albina

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III.


la stanza di albina.


Dal momento che la macchia paterna veniva in Gaetano così generosamente cancellata dallo stesso marchese Rionero, una mirabil trasformazione erasi operata nel carattere del giovin calabrese. Tenendo per opera della Provvidenza il riscatto che di lui faceasi dall’ignominia di un nome esecrato, egli era addivenuto profondamente religioso e, se per lo addietro l’umanità gl’ispirava disprezzo, oggi la virtù sublime di Rionero il riattaccava di affetti al genere umano. Rionero gli stendea la mano e fuori il traeva da un baratro d’infamia e di avvilimento, il nobilitava agli stessi occhi suoi, gli dava un esempio vivente di quell’altezza, cui può giungere l’anima [p. 116 modifica]umana allorchè è veramente ispirata dall’Eterna Parola.

Rionero non solamente dimenticava il delitto di Nunzio Pisani, imperciocchè la giustizia divina e umana fu soddisfatta in quel momento che la testa dell’assassino cadde dal patibolo, ma, con islancio di eroica generosità, cancellava al fgliuol di Pisani l’onta della nascita, gli ridonava la sua stima e si tenea soddisfatto di un matrimonio che avrebbe dovuto cagionargli ripugnanza ed orrore.

Gaetano giurò nel suo cuore di consacrar la propria vita, qualunque sarebbe stato il suo avvenire, a meritar sempre più la stima del marchese Rionero; oggi vi era un essere, al quale Gaetano potea dire senz’arrossare: io sono Gaetano Pisani che si è rigenerato in Oliviero Blackman; oggi una famiglia il circondava, un padre, una sposa adorata, amici sinceri, domestici affezionati; oggi egli credeva a qualche cosa, cui prima non avea creduto, alla virtù; insomma, egli aveva a compiere sulla terra la nobile e bella missione del cristiano, l’amore e la carità.

Alla mezzanotte del 29 giugno, Gaetano Pisani era per toccar l’apice della felicità: mezz’ora dopo egli era caduto ne’ più profondi abissi della disgrazia.

All’alba del giugno, Gaetano Pisani non vedeva altro porto di salute che la tomba, alla quale si abbandonava: poco più tardi, la felicità il ribalzava sorridente e fiducioso alla cima delle umane contentezze. [p. 117 modifica]

Miseri e ciechi figli della creta, esseri debolissimi, noi dovremmo dalle nostre imperfettissime lingue cancellar la parola sempre, stolta ironia che serve a far sempre risaltare la nostra ignoranza e dappocagine. Il minuto secondo che succede al presente ci è ascoso in tenebre densissime, contro le quali si frange tutta l’umana superbia; eppur noi fabbrichiamo sull’avvenire come su una salda rupe! Se una disgrazia ci sorprende, ci crediamo per sempre infelici; se un prospero avvenimento ci allieta, ci crediamo felici per sempre; l’immaginazione, questo simulacro che genera milioni di simulacri, l’immaginazione, quest’essere che non esiste, questa larva del passato, questa illusione del futuro, l’immaginazione è tutta la nostra esistenza, tutta la nostra miseria, tutta la nostra felicità.

Il primo dovere che Gaetano s’impose fu quello di ridonar la salute a Beatrice.

Rimessa dal suo lungo deliquio, la giovinetta era rimasta in tale spaventevole prostrazione di forze che le toccava e sconvolgea leggiermente la ragione... Ella era in quello stato in cui si trova un convalescente dopo un anno di malattia; le orecchie le zufolavano; avea frequenti vertigini che le annebbiavano la vista per modo ch’ella credea talvolta ridivenir cieca, siccome in fatti credè essere addivenuta pochi momenti dappoi che si fu rimessa dal suo deliquio.

Beatrice non potè alzarsi dal letto, anche perchè la febbre l’avea colta.

Quattro esseri amati e amantissimi la [p. 118 modifica]circondavan sempre, il padre, tesoro inesauribile di tenerezza, Carolina, personificazione dell’amicizia più pura e dilicata, Geltrude, il tipo della più calda e rispettosa devozione, Gaetano, l’uomo cui ella avea consacrato ormai la vita sua e che in iscambio avea posta a piedi di lei la sua mente e il suo cuore.

E questi quattro esseri non si rimaneano, neppure per un momento, schivi di cure attorno alla cara fanciulla.

Gaetano, in tutto il rimanente della giornata del 30 giugno dispose che d’ora in ora si fosse fatto bere all’inferma una pozione semplice e atta ad allontanar dolcemente la febbre.

Il giorno appresso Beatrice aveva i polsi più tranquilli e rimessi, il capo non più le doleva per estrema fiacchezza, ma la fanciulla era men sorridente del giorno innanzi, meno disposta a conversare, meno espansiva.

Il Marchese aveva evitato con somma cura di richiamare alla memoria di lei qualunque circostanza che potesse farle ricordare della scena accaduta nella stanza nuziale. Con arte grandissima l’amorevol genitore era giunto a persuaderla che, non sì tosto entrata nella camera nuziale, dopo la sacra cerimonia, ella fosse stata sorpresa da un deliquio, durante il quale aveva avuto il sogno da lei narrato, sogno di fantasia febbricitante.

Il conte Franconi, Carolina e Geltrude si adoperarono a distrarre la giovinetta da quella specie di abbattimento in cui sembrava caduta, ma ella corrispondendo con amorevolezza alle [p. 119 modifica]cure del padre e degli amici, lasciava nonpertanto travedere in fondo della sua anima una malinconia che si sforzava di nascondere.

Non isfuggì a Gaetano lo stato dell’anima di Beatrice, e lo attribuì alla prostrazione nervosa in cui l’avea lasciata la febbre. Per rimuovere questa tristezza, Gaetano volle che la giovinetta si fosse levata di letto e per riacquistar quella forza del corpo che infonde forza allo spirito, e per trovar salutari diversioni.

Nel seguente mattino adunque Beatrice si alzò... Parea si fosse levata da una lunga malattia; avea le guance smorte e assottigliate, pesanti le palpebre, inappetenza perfetta, debolezza estrema tanto che a mala pena, sorretta dalle braccia di Carolina e del padre potè condursi nel salone.

Beatrice si coricò più che si sedè sovra un divano... In tutto il corso del giorno non prese altro cibo che una tazza di brodo nonostante che molte istanze le venissero fatte perchè si fosse nutricata di sostanze più valide e capaci di rimetterle vigoria.

Il giorno appresso, la giovinetta si sentì meglio e sedè al desinare della famiglia cui prese una parte discreta. La perfetta guarigione di lei sembrava imminente.

La stanza nuziale intanto si rimanea vuota dei suoi ospiti e il talamo deserto degli sposi. Molti giorni scorsero di poi che Beatrice si era pressocchè ristabilita, e Gaetano non disse motto su i suoi dritti di sposo. Anche quando la scienza non vi avesse trovato ostacoli (che un [p. 120 modifica]cangiamento nello stato di Beatrice avrebbe potuto esserle funesto), Gaetano avrebbe sempre aspettato un cenno del Marchese, per correre a quella felicità, alla quale più non ardiva sperare.

Era nel secondo piano del casino destinato per lo più alla duchessa di F... zia del Marchese, una stanza che era sempre chiusa. Nissuno poteva in essa penetrare tranne il Marchese, che ne conservava egli solo la chiave. Questa istanza era esclusivamente consacrata ad Albina di Saintanges, vale a dire che racchiudeva tutto quello che era stato di uso della donna infelice: eranvi oggetti che erano stati a lei cari e che il Marchese aveva conservati intatti; eranvi i mobili da lei prediletti e di suo uso quotidiano; eranvi le vesti e gli abiti di lei, non meno che quei piccoli arnesi per lavori donneschi, cui la madre di Beatrice si dava nelle sue ore di solitudine; eranvi i libri che ella solea legger di preferenza.

Ogni giorno il Marchese visitava questa stanza chiudendosi entro a chiave; pochi minuti ei vi restava. Era per tutti un mistero l’impiego che il Marchese facea di questi momenti; il dolore veste negli uomini fogge così diverse! Forse il Marchese piacevasi a pregare in quella stanza per l’anima della sventurata consorte; forse al pianto delle remmiscenze egli si abbandonava; certo è intanto che Rionero non ne usciva che tranquillo e sereno; il suo cuore sembrava più soddisfatto.

Parecchie volte Beatrice, durante la sua [p. 121 modifica]cecità, era stata menata in quella stanza da suo padre: pel consueto il Marchese sceglieva i giorni più memorabili e cari per ricordanze come il dì natalizio di Albina, il giorno delle loro nozze, gli anniversarii della nascita di Beatrice... li Marchese recitava allora in quella stanza, unitamente a sua figlia, le preghiere per l’estinta moglie e madre... Era un gran giorno di giubilo per la cieca quella in cui le veniva concesso di visitare la stanza della madre, tristo piacere che il padre le facea raramente gustare, imperciocchè troppo scuotea la sensibilità della fanciulla, la quale si abbandonava in quegl’istanti a tutta la tenerezza che le ispiravano le rimembranze della cara genitrice.

Volgeva appunto l’anniversario del giorno natalizio di Albina, il 12 luglio.

Beatrice avea questa volta aspettato con impazienza il ritorno di questa giornata, che per la prima volta il cielo le concedeva di visitar la stanza della madre, nel pieno godimento della vista. Benchè Rionero non avesse voluto permetterle in sulle prime di audarne a ritrovare le materne memorie; a cagione dello stato di eccitabilità nervosa in cui si trovava la figliuola non ancora del tutto ristabilita dalla sua ultima malattia, non seppe resistere alle costei preghiere caldissime. Beatrice gli disse che ella aveva tanto affrettato co’ sospiri il ritorno del 12 luglio, gli disse che ella ne sarebbe cascata inferma se le si fosse vietato di starsene soletta per qualche ora in quella camera, che il Marchese dovè contentarla, non lasciando di [p. 122 modifica]raccomandarle di trattenersi colà il più poco possibile.

Il Marchese Rionero non avea detto nulla a Gaetano dell’esistenza di questa camera, perocchè sarebbe stato un dilacerar l’anima di questo giovine, ricordandogli la vittima del padre; nè tampoco gli avea ciò rivelato prima che in lui discoperto avesse il figliuolo di Nunzio, dapoicchè non credè necessario porlo a parte dei segreti del suo cuore. Tanto meno il Marchese avea fatto confidenza di questo segreto al conte Franconi e a sua figlia; egli era in qualche modo geloso de’ propri affetti e la memoria della moglie avea per lui qualche cosa di così sacro ch’ei temeva di profanarla al contatto degli altri uomini. Non dissimuliamo che il marchese Rionero, educato alla francese, avea contratto i pregiudizi di questa nazione, e tra gli altri sommamente paventava di essere appuntato di qualche cosa che a’ costumi ed agli usi della buona società non convenisse. La buona società ha imposto regole severe anche all’espansione della tenerezza e del dolore; bisogna piangere in regola, ridere senza urtare i nervi dilicati degli astanti. Appo cotesta buona società l’amor coniugale debb’essere compassato, leggiero, disinvolto; le grandi passioni non si ammettono che nel teatro o ne’ romanzi, e un uomo che dopo vent’anni, rimpiange ancora l’estinta consorte e ne serba le viventi ricordanze, è messo all’indice degli uomini ridicoli!

Ben faceva adunque il marchese Rionero serbando nel più gran segreto le care consuetudini [p. 123 modifica]di affetti ond’egli alleviava ogni giorno il cordoglio, che ogni giorno sentiva intensissimo per la perdita di una sposa adorata.

Rionero e sua figlia si accomiatarono per poco da’ loro ospiti, come se si fossero recati al passeggio ma invece salirono sull’alto appartamento, e trassero difilati alla stanza di Albina.

Quella camera era guarnita come se fosse stata abitata dalla donna, alla quale ne appartenevano i mobili. Tutte le suppellettili erano leggiadramente ordinate con quel gusto e con quella simmetria che soleva colei porre in tutto ciò che le perteneva o facea di sua mano. Entrando in quella stanza, Beatrice mise un grido di sorpresa e due lagrime le vennero giù dalle gote. Ella aveva veduto sospeso ad una parete il quadro rappresentante la Vergine Madre, di Raffaello, quadro che stava appunto nella camera nuziale di Albina, nel casino a Portici. A quella Vergin Madre ogni giorno Albina facea volger gli occhi e le preci della bambina Beatrice, allorchè questa si alzava di letto.

Anche questa volta il Marchese e sua figlia pregarono la requie eterna all’anima della cara donna. Poscia, il padre, per compiacere al desiderio della figliuola, si a allontanò rimanendola sola in quel tempio di strazianti memorie.

Beatrice toccò e baciò, come solea fare, ogni oggetto; si sedè sul verde seggiolone, nel quale ordinariamente solea la madre quando si abbandonava alla lettura; aprì la libreria, esaminò uno per uno tutti i volumi che vi eran rinchiusi, e molti eranvene nelle cui pagine un [p. 124 modifica]pezzettino di carta segnava i passi più notevoli e che più avevano eccitata l’ammirazione della leggitrice. Erano massime sapienti pensieri di elevata morale, passi atti a consolare i più grandi dolori, e le sventure più affligenti. Albina conosceva gl’idiomi inglese, francese e italiano; epperò i suoi libri erano di autori che scrissero in queste tre lingue.

Ci piace riportare alcuni de’ più considerabili brani segnati dalla madre di Beatrice, e che questa leggeva con avidità indicibile.

In un autore inglese era notato;

«Benedette quelle mani che preparano un piacere ad un bambino!

Molti penosi momenti della nostra vita ci avremmo risparmiati se ci fossimo astenuti dal giudicare e dal condannare.

Sia ringraziato Dio pe’ buoni libri! Essi sono le voci de’ distanti e de’ morti, e ci fanno ereditare la vita intellettuale de’ secoli passati. Essi compartiscono a tutti quelli che sanno usarli la compagnia e il conversare de’ migliori esseri della specie umana.»

In uno scrittore francese era segnato:

«Noi siamo infelici e divisi perchè ci siamo allontanati dal Vangelo.

Il ricco ha le sue ore di miseria, di amarezze e di angosce, le sue ore ardenti di lagrime e di disperazione.

Nella famiglia tutto è calma e quiete; il cuore, riscaldato dalle umane lotte e dalle passioni disastrose, vi si ritempera, come nella sera il fiore ricurvo si rialza sotto la freschezza che cade dai grandi alberi. [p. 125 modifica]

La famiglia ecco la felicità, la consolazione di tutti; tanto egli è vero che la divina Provvidenza riserba godimenti a tutti gli uomini indistintamente al ricco non meno che al povero.

La mancanza di Religione è la nostra più grande piaga sociale.

Noi preghiamo l’Essere Supremo, dappoichè ciò consola e fa sperare. Il Cristiano dopo di essersi inginocchiato, si rialza più sicuro e più forte, e pronto alla lotta degli eterni nemici dell’uomo».

In altro volume il pezzetto di carta indicava i seguenti brani:

«L’uomo non è che una ruina vivente.

Ammiriamo Dio sempre e dappertutto; serviamolo, amando gli uomini».

E da ultimo si leggevano notate queste parole nelle quali riverberava l’anima di colei che le avea marcate:

«Felice colui che ha ancora la madre sua! Imperocchè una madre è l’eterna amicizia l’eterna abnegazione, l’amor puro che non conosce il disinganno.

Voi, padri, voi che avete lavorato pe’ vostri figliuoli, voi che avete sofferto per essi, voi che avete dato loro la vostra parte di felicità, che avete prese le spine e avete lasciato loro fiori, siate benedetti, buoni padri, siate benedetti!»1

Beatrice avrebbe voluto leggere tutti i volumi, ma il tempo scorrea e il padre aveale [p. 126 modifica]raccomandato di non trattenersi molto a lungo in quella camera: la giovinetta temeva di abusare della compiacenza di lui, temeva che questi non le avrebbe più permesso di starsene quivi; si affrettò quindi di andare esaminando gli altri oggetti ed arnesi della stanza.

È superfluo il dire che la fanciulla non lasciava inosservate le più insignificanti minutezze; tutto ella toglievasi in mano e considerava con attenzione grandissima.

Aprì il cassettone ov’eran conservate le vesti della madre; tutte le spiegava e baciava, versandovi sopra un fiume di lagrime. Beatrice ritrovò benanche le sue proprie vesticine, le sue camiciuole, le sue masserizie e i trastulli da bimba.

Eran momenti di lacerante tenerezza per quella fanciulla; ella ritrovava l’aurora della sua vita, l’affetto di una madre tenerissima; io ogni oggetto ella scorgeva una cura, un pensiero di caldissimo amore un provvedimento una saggezza esemplare.

Lo scrigno, dal quale Nunzio Pisani rubò il cassettino di gioie, era tra le suppellettili. Beatrice ne avea ricevuta la chiave dal padre; si affrettò di visitare quest’ultimo testimonio del martirio della diletta madre.

Questo mobile era diviso in varii scompartimenti; molti cassettini vi si conteneano che si aprivano per lo scatto di diverse molle; le gioie gli ornamenti ed altri oggetti di lusso appartenuti alla Marchesa erano ivi conservati. Beatrice gli andava rovistando l’uno dopo l’altro, [p. 127 modifica]cacciava le mani ne’ più reconditi nascondigli di quel mobile, e nuovi oggetti colpivano la sua vista. Nel frugare nel fondo di uno de’ cassettini, le dita della fanciulla premettero un picciolissimo bottoncino, una botoletta si aprì, ed un oggetto saltò agli occhi di lei.

Era un piccol ritratto in miniatura.

Beatrice mise un grido di sorpresa, prese in mano il ritratto e si pose a guardarlo... I suoi occhi scintillavano di maraviglia e di piacere, il suo volto si soffuse di rossore.

In questo un leggier picchio alla porta fu udito. Beatrice per un movimento involontario nascose nel seno il ritrattino, e andò a schiuder l’uscio.

Era il marchese Rionero che veniva dolcemente a rimproverarla di essersi trattenuta in quella stanza più di tre ore.



Note

  1. Questi brani sono tolti da opere e da giornali inglesi a francesi.