La casa del poeta/La ghirlanda dell'anno
Questo testo è completo. |
◄ | La fortuna |
LA GHIRLANDA DELL’ANNO
Sebbene i fiorai della città non possano vantare lauti guadagni per gli acquisti del poeta, fiori non mancano mai di fargli compagnia, nelle ore liete o tristi della giornata, e specialmente in quelle solitarie (eppure così affollate di chiari personaggi) delle notturne letture. Fiori, figli del suo piccolo giardino, e quindi quasi creature sue. Cominciano le giunchiglie di gennaio, felici, nelle notti gelide e morte, di sentirsi covate dal calore della lampada, nel nido del vasetto di cristallo, illuse, tra le foglie verdi, di trovarsi nel loro cespuglio, al sole.
Hanno il colore della neve, ma col cuore d’oro, e il loro profumo è come quello dell’adolescenza, quando la carne è ancora purissima e tuttavia già pervasa di desiderî: profumo che pare esali anche dalle giunchiglie riflesse dalla tavola come da un’acqua nera lucente.
Simbolo di fanciullezza, non si sfogliano: la loro gioia di vivere è resistente; resistente il loro profumo; e il tempo le può solo piegare sullo stelo. Forse i brevi giorni di gennaio sono per esse come i lustri per noi; e quando i primi narcisi, già dorati dal giovane sole dell’anno nuovo, col lungo stelo di giunco fresco, prendono posto nel vasetto e turbano la loro innocente vecchiaia, tentano un ultimo sforzo per sollevarsi, quasi per piacere ai loro lieti compagni: e invero la loro delicata ma longeva bellezza è come quella della donna che, per il piacere di amare e di essere amata, si conserva leggiadra fino alla morte.
E il poeta, che considera sacri i suoi fiori, poichè con la loro breve esistenza accompagnano la sua breve esistenza a loro prepara degni funerali: vale a dire, porta il vaso in giardino e facendo largo ai giovani narcisi toglie le vecchie giunchiglie morte e le seppellisce accanto ai loro cespugli deserti. Così insegna il giardiniere: poichè il miglior concime per una pianta è la sua stessa produzione già morta: in tal modo il poeta accorda la poesia alla pratica.
Febbraio è venuto, e la terra, come la conchiglia rimasta scoperta dall’onda, apre le sue valve per sentire l’odore dell’aria. Fa ancora freddo: solo il mandorlo imprudente ha aperto sull’inverno i candidi occhi dei suoi fiori: ma già se ne pente, perchè l’onda felina della tramontana, che ha di nuovo ricoperto la terra, come un’ape sterile succhia le sue corolle. Più fortunati sono i narcisi, nelle aiuole riparate, provvisti di lunghe gambe per danzare col vento. Quando la mano del poeta li stronca (non senza un certo scrupolo di delitto), piangono dalla ferita dello stelo lunghe e dense lagrime verdi: come vittime e prigionieri si lasciano portare dentro la casa, e l’aria chiusa della stanza fa impallidire l’oro della loro coppa alata. Ma, giunta la notte, si rinfrancano: come i bambini accanto ai genitori sentono il calore del poeta, di nuovo piegato sulle sue pagine che non finiscono mai: si rinfrancano, si specchiano sull’acqua nera della tavola lucente, e forse hanno pietà dei compagni rimasti fuori sotto il flagello stridulo della tramontana.
Ma una sera, sul finire del mese, quando l’aria s’è calmata e la luna nuova si dondola sul pino davanti alla finestra, il poeta, stordito anche lui da qualche cosa che già da tanti anni conosce, eppure sempre gli pare inesplicabile, il rinnovarsi eterno del tempo, entra nello studio e vede rinnovato anche il mito di Narciso: le corolle dei fiori si sono staccate dal loro stelo, intatte, e giacciono sulla tavola, la cui acqua nera le riflette nitide come dipinte.
Il mattino dopo, prima che egli scenda in giardino, un mazzo nuovo è nel vaso di cristallo: mazzo, odore, colore, tutto è nuovo: e nuovo è anche lo spirito gentile della bambina che ha colto le viole e le ha deposte, omaggio del suo amore e della primavera sua e della terra, sulla tavola del poeta. Per questo dono esulta davvero, e si spiega il mistero della giovinezza che mai non muore, l’anima di lui; e se le viole sentono invece il bisogno d’una vita breve e alla notte si chiudono come palpebre appassite dall’amore, la mattina seguente vengono rinnovate da altre e altre ancora. Adesso è marzo; i bambini amano alzarsi presto come il loro grande amico, il sole, e la loro prima fatica è cogliere i fiori. Anche le frèsie sbucano fra le cento piccole spade dei loro cespugli: rivali delle viole, ne vincono l’odore pudico e il colore del crepuscolo col profumo quasi artificiale e l’avorio brillante dei loro calici. Di frèsie è adesso invasa la casa del poeta, e la loro vita tenace rinnova quella dei fiori invernali; ma sulla tavola, di notte, quando aprile ha cacciato via gli ultimi turbini passionali di marzo, e già l’usignuolo incrina il silenzio grave del pino davanti alla finestra, solo una rosa si specchia sul piano lucente. Rosa di aprile, pallida, senza profumo, che è nata stanca dalla sua precocità ed ha voglia di sfogliarsi subito; eppure, solo perchè è rosa, spande intorno a sè un alone di cose fantastiche. E non aspetta l’oscurità, la solitudine: per lei il giorno è finito col tramonto e tutte le ore son buone per morire. Così, quando solleva gli occhi dal libro, il poeta vede che la rosa se n’è andata: i pètali ancora freschi giacciono sulla tavola, simili a pezzetti di una lettera strappata; ed egli ne prova melanconia, come appunto dopo che si è strappata una lettera e, con essa, qualche cosa si è distrutto in noi.
Adesso però le rose non mancano più nel giardino, e prendono forza e colore, finchè all’aprirsi glorioso di maggio diventano davvero regine: regine e cortigiane, fiammanti, violente e dominatrici. Ecco la rosa rossa scura, vellutata e odorosa, preferita dal poeta: per lei si cambia il vaso, che è un lungo stelo d’onice, non più nido, ma colonna bifora dal cui vano penetrano i canti della bella stagione.
Durano le rose fino al pieno giugno; fino al mattino in cui la bimba coglie i papaveri selvatici, il cui rosso sbocciato spontaneo dalla terra le sembra misterioso come la goccia di sangue che la puntura di una spina ha fatto sgorgare dal suo dito. Le finestre sono aperte giorno e notte; nelle sere lunari ghirlande di melodie, che vengono da luoghi lontani, accompagnano il dondolarsi dei festoni della vite nel giardino. I papaveri ardono sulla tavola e la rischiarano come lampadine giapponesi: al loro acre odore si sposa quello dei gigli e dell’agrifoglio, e la notte è imbevuta di mille profumi.
Ma con l’empito di vita della natura cresce la tristezza del poeta: egli si sente oppresso da tanta opulenza come da una veste di broccato: gli sembra di essere vecchio, e rimpiange le nude notti d’inverno: finchè, coi calori e i turbini polverosi di luglio, pensa di fuggire. Eppure sono ancora belle, queste notti scure, calde e ferme, coi piccoli garofani bianchi che hanno ripreso il posto nel nido di cristallo, e il cui odore pepato aiuta l’illusione di un ambiente tropicale. Il poeta, però, non è più disposto alle finzioni: è stanco, malato; tutto gli dà noia, e negli stessi fiori vede un’escrescenza colorata di inutili cespugli. Bisogna partire.
*
Eppure, che orgia di fiorellini campestri nella casetta sommersa fra l’azzurro del cielo e l’argento verdolino dei grandi prati falciati, che di notte la lepre attraversa come radure di boscaglie alpine! Qui non c’è la tavola, che è rimasta a riflettere solo i fantasmi dei libri; e neppure si conoscono i vasi raffinati della casa di città; ma tutto è buono per raccogliere i fiori, anche i boccali paesani per il vino; e gli occhi dei bambini sono gli specchi migliori per i fiordalisi e le bacche dorate del verbasco. L’estate però è breve come la fiamma che nello stesso tempo brilla e si spegne: e già sul cielo i fiori delle stelle filanti annunziano la sua fine.
Il poeta le guarda dal portico, e sbadiglia, ricordando la tavola nera con la muraglia dei libri che la separa dal resto del mondo. Bisogna ritornare.
L’autunno, si sa, riporta i crisantemi che invano si rivestono dei più impressionanti colori per fingersi camelie, ortensie, peonie e girasoli: l’odore li tradisce, odore di tomba, e il poeta, che adorerà la vita fino all’ultimo suo respiro, non li vuole accanto a sè: meglio un semplice tralcio di edera, o, meglio ancora, un ramicello di vischio; finchè il vento di gennaio confonderà col primo nevischio gli ultimi pètali dei fiori dei morti, e la prima giunchiglia ricomincerà a tessere la nuova ghirlanda dell’anno.