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sono i narcisi, nelle aiuole riparate, provvisti di lunghe gambe per danzare col vento. Quando la mano del poeta li stronca (non senza un certo scrupolo di delitto), piangono dalla ferita dello stelo lunghe e dense lagrime verdi: come vittime e prigionieri si lasciano portare dentro la casa, e l’aria chiusa della stanza fa impallidire l’oro della loro coppa alata. Ma, giunta la notte, si rinfrancano: come i bambini accanto ai genitori sentono il calore del poeta, di nuovo piegato sulle sue pagine che non finiscono mai: si rinfrancano, si specchiano sull’acqua nera della tavola lucente, e forse hanno pietà dei compagni rimasti fuori sotto il flagello stridulo della tramontana.

Ma una sera, sul finire del mese, quando l’aria s’è calmata e la luna nuova si dondola sul pino davanti alla finestra, il poeta, stordito anche lui da qualche cosa che già da tanti anni conosce, eppure sempre gli pare inesplicabile, il rinnovarsi eterno del tempo, entra nello studio e vede rinnovato anche il mito di Narciso: le corolle dei fiori si sono staccate dal loro stelo, intatte, e giacciono sulla tavola, la cui acqua nera le riflette nitide come dipinte.

Il mattino dopo, prima che egli scenda in giardino, un mazzo nuovo è nel vaso di cristallo: mazzo, odore, colore, tutto è nuovo: e nuovo è anche lo spirito gentile della bambina che ha colto le viole e le ha deposte, omaggio del suo amore