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lettera strappata; ed egli ne prova melanconia, come appunto dopo che si è strappata una lettera e, con essa, qualche cosa si è distrutto in noi.
Adesso però le rose non mancano più nel giardino, e prendono forza e colore, finchè all’aprirsi glorioso di maggio diventano davvero regine: regine e cortigiane, fiammanti, violente e dominatrici. Ecco la rosa rossa scura, vellutata e odorosa, preferita dal poeta: per lei si cambia il vaso, che è un lungo stelo d’onice, non più nido, ma colonna bifora dal cui vano penetrano i canti della bella stagione.
Durano le rose fino al pieno giugno; fino al mattino in cui la bimba coglie i papaveri selvatici, il cui rosso sbocciato spontaneo dalla terra le sembra misterioso come la goccia di sangue che la puntura di una spina ha fatto sgorgare dal suo dito. Le finestre sono aperte giorno e notte; nelle sere lunari ghirlande di melodie, che vengono da luoghi lontani, accompagnano il dondolarsi dei festoni della vite nel giardino. I papaveri ardono sulla tavola e la rischiarano come lampadine giapponesi: al loro acre odore si sposa quello dei gigli e dell’agrifoglio, e la notte è imbevuta di mille profumi.
Ma con l’empito di vita della natura cresce la tristezza del poeta: egli si sente oppresso da tanta opulenza come da una veste di broccato: gli sembra di essere vecchio, e rimpiange le