e della primavera sua e della terra, sulla tavola del poeta. Per questo dono esulta davvero, e si spiega il mistero della giovinezza che mai non muore, l’anima di lui; e se le viole sentono invece il bisogno d’una vita breve e alla notte si chiudono come palpebre appassite dall’amore, la mattina seguente vengono rinnovate da altre e altre ancora. Adesso è marzo; i bambini amano alzarsi presto come il loro grande amico, il sole, e la loro prima fatica è cogliere i fiori. Anche le frèsie sbucano fra le cento piccole spade dei loro cespugli: rivali delle viole, ne vincono l’odore pudico e il colore del crepuscolo col profumo quasi artificiale e l’avorio brillante dei loro calici. Di frèsie è adesso invasa la casa del poeta, e la loro vita tenace rinnova quella dei fiori invernali; ma sulla tavola, di notte, quando aprile ha cacciato via gli ultimi turbini passionali di marzo, e già l’usignuolo incrina il silenzio grave del pino davanti alla finestra, solo una rosa si specchia sul piano lucente. Rosa di aprile, pallida, senza profumo, che è nata stanca dalla sua precocità ed ha voglia di sfogliarsi subito; eppure, solo perchè è rosa, spande intorno a sè un alone di cose fantastiche. E non aspetta l’oscurità, la solitudine: per lei il giorno è finito col tramonto e tutte le ore son buone per morire. Così, quando solleva gli occhi dal libro, il poeta vede che la rosa se n’è andata: i pètali ancora freschi giacciono sulla tavola, simili a pezzetti di una