La burla retrocessa nel contraccambio/Atto IV
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Atto III | Atto V | ► |
ATTO QUARTO.
SCENA PRIMA.
La stessa camera dove si è fatto il pranzo.
Gottardo e Placida.
Placida. E bene, eccomi qui. Sono in casa. Siete contento?
Gottardo. Se ci siete voi in casa, ci sono anch’io. Manca poco alla sera; ci spoglieremo, e potremo far qualche cosa. Io ho da rivedere alcune partite, ho da rispondere a delle lettere e voi lavorerete, starete con me, mi terrete un poco di compagnia.
Placida. Tutto ciò si poteva far questa sera; e quest’ora di giorno, giacchè io era fuori di casa, non era gran cosa lasciarmela impiegare in una visita di convenienza.
Gottardo. E dove volevate andare?
Placida. Voleva andare dal signor Pandolfo. E qualche giorno ch’io non vedo la signora Costanza, ed ho tante obbligazioni con quella casa, che è giusto che di quando in quando mi lasci almeno vedere.
Gottardo. Bene, vi anderete domani.
Placida. E perchè domani, e non oggi?
Gottardo. Perchè ho piacere che vi andiate piuttosto domani.
Placida. Ecco qui, vuol tutto a suo modo. Ed io domani ho da far piucchè oggi, e non ci anderò.
Gottardo. Eh sì, ci anderete.
Placida. No, non ci anderò.
Gottardo. Per farmi piacere, so che ci anderete.
Placida. Ho d’andarvi per far piacere a voi, e non posso aver io la soddisfazione di farlo quando piacerebbe a me? Questo vuol dire che siete uno spinto di contraddizione.
Gottardo. Ma no, non è vero. Voi prendete sempre le cose a rovescio. Vi dirò la mia ragione. Se andate oggi, voi non troverete a casa il signor Pandolfo, ed a me preme che lo troviate, e domattina lo troverete, e voglio che gli facciate per me un complimento di scusa.
Placida. Quale scusa? Che cosa gli avete fatto per domandargli scusa?
Gottardo. Vi dirò, ma non andate in collera, se è possibile. Questa mattina, dopo che siete partita per andare da vostra madre, è venuto quel drittone di Agapito, e mi ha detto che il signor Pandolfo e la signora Costanza volevano oggi farci l’improvvisata di venire a pranzo da noi. Io gli ho detto che era impegnato a andar a pranzo fuori di casa...
Placida. Ed avete avuto la villania di ricusar l’onore che volevano farci il signor Pandolfo e la signora Costanza?
Gottardo. Ma voi sapete ch’io era impegnato.
Placida. E perchè non avete mandato ad avvertirmi che sarei venuta io?
Gottardo. E volevate riceverli voi senza di me?
Placida. E vi pare una bell’azione verso una persona che ci protegge e ci fa del bene?
Gottardo. E per questo voglio che andiate voi a far le mie scuse.
Placida. E che scusa volete voi che io le porti? Quella di esser andato a pranzo da vostro compare? Se fosse vero che ci foste stato, la scusa sarebbe magra, poichè vi potevate disimpegnar facilmente; ma il punto è, che non siete stato da vostro compare, e ne sono certa.
Gottardo. Come potete voi dire che non sono stato da mio compare?
Placida. Lo dico con fondamento, perchè ho mandato a vedere e non vi ci hanno trovato.
Gottardo. A che ora avete mandato?
Placida. A diciassette ore suonate.
Gottardo. Se aveste mandato a diciotto, mi avrebbero trovato e mi avrebbero veduto a tavola con mio compare.
Placida. Non è vero niente. Ho sempre sospettato che voleste darmi ad intendere una cosa per l’altra, ma ora che sento che avete ricusato di ricevere il signor Pandolfo e la signora Costanza, mi assicuro che non siete stato dal compare, perchè da lui vi sareste sottratto come richiedeva l’obbligo vostro verso il signor Pandolfo, e dico e sostengo che un altro impegno vi avrà strascinato, e che qualche partita di piacere vi avrà fatto commettere la mal’azione.
Gottardo. Io impegnato in partite di piacere?
Placida. Sì, voi. Povero innocentino! che non eravate solito, prima che foste maritato, di frequentare gli amici? E le amiche, e le amiche, e sarà stata una partita d’amiche. Non può essere altrimenti. Ne sono certa.
Gottardo. Ne siete certa?
Placida. Certissima.
Gottardo. Ed io son certo d’un’altra cosa.
Placida. E di che in grazia?
Gottardo. Che voi non sapete quel che vi dite.
Placida. Basta. Non ho ancora in mano quel che mi vuole per assicurarmene. Ma lo saprò, lo saprò senza fallo, e se me n’accorgo, se vi trovo sul fatto, povero voi!
Gottardo. Povero me?
Placida. Sì, povero voi.
Gottardo. In verità, voi mi fate ridere.
Placida. Ridete, che avete buon ridere; ma un giorno forse... (si sente battere alla porta)
Gottardo. Battono. Guardate chi è.
Placida. Riderò anch’io un giorno, ve l’assicuro.
Gottardo. Placida, guardate chi è.
Placida. Son buona buona, ma poi...
Gottardo. Eh finitela una volta. Andate a guardare chi è. (con sdegno)
Placida. Ih! che diavolo d’uomo! (parte per andare ad aprire)
SCENA II.
Gottardo, poi Placida, e l’Oste.
Gottardo. Colle buone non si fa niente. Bisogna alzar la voce per forza.
Oste. Servitor umilissimo, mio padrone.
Gottardo. La riverisco divotamente.
Oste. Scusi, è ella il signor Gottardo?
Gottardo. Per servirla.
Oste. Mi consolo infinitamente d’aver l’onor di conoscerla e di riverirla.
Gottardo. Chi è in grazia vossignoria?
Oste. L’oste della Fortuna per obbedirla.
Placida. (Passeggia ed ascolta.)
Gottardo. E in che cosa vi posso servire?
Oste. Prima di tutto la prego dirmi s’ella è restata di me contenta.
Gottardo. Di che, signore?
Oste. Del pranzo di questa mattina.
Gottardo. Io?
Placida. Come! Siete voi stato all’osteria? (a Gottardo) Il signor Gottardo è venuto alla vostra osteria? (all’Oste)
Oste. Non signora; io parlo del pranzo, che ho avuto l’onore di mandargli a casa questa mattina.
Placida. Un pranzo a casa!
Gottardo. Tacete una volta. Lasciate parlare a me. (a Placida) Signore, io credo che prendiate sbaglio. (all’Oste)
Oste. Scusi; io non isbaglio altrimenti. Io son l’oste della Fortuna; io sono quello che le ha mandato qui in questa casa un desinare per cinque persone, a sei paoli a testa.
Gottardo. A me?
Oste. A lei. Non è ella il signor Gottardo?
Placida. Oh ecco avverato il mio sospetto. Mi ha mandato via di casa, non ha voluto il signor Pandolfo, per dar da mangiare a della canaglia.
Gottardo. Ma voi mi volete far perdere la pazienza. (a Placida) E chi è che vi ha ordinato questo pranzo? Dite, parlate: sono stato io che ve l’ha ordinato? (all’Oste)
Oste. Se ella non me l’ha ordinato, ho servito in questa casa, e me l’hanno comandato a di lei nome.
Gottardo. E chi è che vi ha comandato?
Oste. Il signor suo fratello.
Gottardo. Oh amico, voi sbagliate, o sognate, o siete fuori di cervello. Io non ho fratelli, io non ne so niente, e vi consiglio a lasciarmi stare.
Oste. Signore, la non parli così1, perchè ho il modo di convincerla, e di farmi render ragione.
Placida. Sì, sì, vi farà ragione da se; non dubitate. Dice così, perchè sono qui io, perchè ha soggezione di me. Ha fatto passar qualcheduno per suo fratello, per coprire la bricconata. Sa il cielo, chi è stato a mangiare in casa mia. Ditemi, galantuomo, sapete voi che vi fossero donne?
Oste. Questi non sono i miei affari. So che ho dato un pranzo per cinque persone a sei paoli a testa.
Gottardo. Ma chi erano costoro? Li conoscete?
Oste. Io non so niente. Mi hanno detto i garzoni che vi erano quattro uomini e una donna, e non so altro.
Placida. Una donna! Vi era anche una donna? Ah traditore! ah ingrato! ah perfido! (a Gottardo)
Gottardo. Tacete, Placida, che or ora mi fate fare qualche bestialità. Signor oste, io sono un galantuomo, incapace di far stare nessuno, e vi dico ch’io non ne so niente, e non ne so niente. (scaldandosi)
Oste. Orsù, signore, su quest’articolo parleremo poi; intanto favorisca almeno di darmi la mia biancheria, i miei piatti, e le mie posate d’argento.
Gottardo. Io?
Oste. Sì, ella che se n’è servito.
Gottardo. Mi fareste venir la rabbia davvero.
Oste. Come! vorrebbe ella negarmi ancora le mie posate d’argento?
Gottardo. Vi dico che sono un uomo d’onore, e non ne so niente.
Oste. Ed io le dico che sono stato avvisato che la mia roba è qui, e che hanno tutto riposto in un armadio, e ci scommetterei che è quello che lì.
Gottardo. Non è vero niente.
Placida. Vediamo, vediamo, presto vediamo, (corre all’armadio, lo apre e si vede tutto) Ah ah, signor marito!
Gottardo. (Io resto di sasso). (da sè, mortificato)
Placida. Ecco qui, posate, biancheria, piatti, boccie, bicchieri; negatelo ora, se vi dà l’animo. (a Gottardo)
Gottardo. Lasciatemi stare. (Non so in che mondo mi sia). (da sè)
Oste. Si contenta ch’io prenda la roba mia? (a Gottardo)
Gottardo. Prendete quel che diavolo volete.
Oste. Ehi, giovani, venite avanti. (alla porta)
SCENA III.
Garzoni dell’Oste e detti.
Garzoni. (Entrano.)
Oste. Prendete quella roba e portatela a casa, ma prima incontriamola.
(L’Oste e i Garzoni vanno all’armadio, incontrano tutta la roba, e la vanno disponendo per portarla via.)
Gottardo. (Cospetto di bacco! io non posso capire il fondo di questa istoria). (da sè)
Placida. Ecco, se ho ragione di lamentarmi di voi. Ecco il bel trattamento che voi mi fate, dopo quattro giorni di matrimonio. Ridete, se vi dà l’animo di ridere.
Gottardo. (Sì, non può esser altro assolutamente). (da sè)
Placida. Risparmia un paolo, per non dar a me una picciola soddisfazione, e poi getta i danari, e fa pranzi in casa, e di nascosto della povera moglie.
Gottardo. Eh corpo del diavolo! con tutte le vostre belle parole, con tutte le vostre affettate esagerazioni, voi non me la darete ad intendere. Altri che voi non può avermi fatto questa soperchieria.
Placida. Io?
Gottardo. Sì, voi; per castigarmi della mia supposta avarizia, per vendicarvi del pasto, che non ho voluto far per le nozze.
Placida. Io?
Gottardo. Sì, altri che voi non poteva entrare in casa; la serratura è forte, ha degli ordigni, che senza la propria chiave non si può aprir da nessuno; voi che avete la chiave, voi siete entrata, voi mi avete fatto l’impertinenza.
Placida. Povero Bernardone! io ho la chiave? Vedete come le bugie hanno corte le gambe! Non vi ricordate più, che mi avete obbligato questa mattina a lasciar la chiave?
Gottardo. Ah sì, è vero. Son fuor di me. Scusatemi, non me ne ricordava.
Placida. Voi avrete data la mia chiave a qualcheduno. Sa il cielo cosa ne avete fatto.
Gottardo. Io non l’ho data a nessuno. Eccole qui tutte due. (tira fuori le due chiavi e le osserva) Come! questa non è mia chiave. Questa non apre la nostra porta. Ah ah, ora capisco l’inganno, la baronata. Voi che mi avete gettata la chiave per dispetto, voi mi avete gabbato, mi avete dato una chiave per un’altra. Vi siete ben divertita, ed ora vi burlate di me.
Placida. Uomo perfido! uomo maligno! avete ancora tanto coraggio d’aggiungere la calunnia alla falsità, all’impostura? Basta così: non vo’ sentir altro. Vi conosco abbastanza. Prenderò il mio partito. Mi farò render giustizia, e voi, e voi... Lasciatemi stare, che non posso più tollerarvi, (parte, e va in camera)
SCENA IV.
Gottardo, l’Oste e i Garzoni.
Gottardo. Veramente la bile e lo stordimento in cui sono, mi ha fatto avanzare a mia moglie una proposizione ingiuriosa. Non la credo capace di tanto, ed ha ragione se si scalda; ma anch’ io non ho torto, se mi do al diavolo per una cosa di questa natura.
Oste. Signore, veda se nel suo armadio vi è tutto quello che a lei appartiene.
Gottardo. Non vo’ veder niente. Lasciatemi stare.
Oste. Io ho preso la roba mia.
Gottardo. Sì signore.
Oste. Permette che la mandi a casa?
Gottardo. Fate quel che volete.
Oste. Figliuoli, andate, e consegnate ogni cosa alla padrona. (Garzoni partono)
SCENA V.
Gottardo e l’Oste,
Gottardo. (Ho dei sospetti, ma non ne posso verificare nessuno). (da sè)
Oste. Signor Gottardo, servitor umilissimo.
Gottardo. Schiavo suo.
Oste. Scusi di grazia.
Gottardo. Cosa c’è?
Oste. Mi favorisca trenta paoli, se si contenta.
Gottardo. Perchè vi ho da dar trenta paoli, se io non so niente del desinare?
Oste. Signor, perdoni, parlo con tutto il rispetto; se ella per sorte non avesse presentemente il danaro, e non volesse, o non potesse ora pagarmi, son galantuomo, si accomodi, e mi basta la sua parola; ma se mi nega il debito, con tutto il rispetto, con tutta la riverenza, vado subito a ricorrere alla giustizia.
Gottardo. No, fermatevi. Venite qui. Vedo anch’io che sono stato soverchiato, ed a me tocca a pagar la soverchieria. Son galantuomo, e vi pagherò; vi prometto che vi pagherò...
Oste. Tanto basta.
Gottardo. Ma vorrei almeno...
Oste. Il signor Gottardo è padrone di tutto.
Gottardo. Vorrei che mi diceste...
Oste. E quando le occorre, non ha che a comandare, ed io mi darò l’onore di servirlo.
Gottardo. Lasciatemi dire. Volete ch’io paghi, non ho mangiato, e per trenta paoli non potrò nemmeno parlare?
Oste. Scusi, perdoni, parli. In che cosa la posso servire?
Gottardo. Vorrei almeno sapere chi è quello che a nome mio vi ha ordinato il pranzo.
Oste. Mi pare di averglielo detto. Il suo signor fratello.
Gottardo. Ma se io non ho fratelli.
Oste. Sarà uno che avrà avuto l’onore di passare per suo fratello.
Gottardo. Ed io ho da pagare?
Oste. Ho servito al di lei nome, in casa sua; la mia roba si è ritrovata nel di lei armadio.
Gottardo. Avete ragione, e vi pagherò. Ma ditemi in cortesia. Non lo conoscete quello che mi ha fatto l’onore di passare per mio fratello?
Oste. Signore, io non lo conosco altrimenti.
Gottardo. Era grande o piccolo?
Oste. (Dirà la statura di Agapito.)
Gottardo. Vestito con un abito... (secondo l'abito di Agapito)
Oste. Non ci ho molto badato, ma mi pare di sì.
Gottardo. Con una parrucca... (secondo quella di Agapito)
Oste. Per verità, non me ne ricordo. Gottardo. (Io sospetto sopra quel galeotto di Agapito, ma non sono ancora sicuro). (da sè)
Oste. Mi comanda altro?
Gottardo. La grazia sua.
Oste. Oh signore! sono a’ suoi comandi. E quando mi onorerà de’ trenta paoli?
Gottardo. Li avrete, ve li darò. Avete paura che non ve li dia?
Oste. Oh mi maraviglio. Son sicurissimo. Un uomo come lei! la prego prevalersi della mia servitù. Nelle occorrenze la supplico non farmi torto. La servirò sempre con distinzione... Me li darà questa settimana i trenta paoli?
Gottardo. Ma voi siete un gran seccatore.
Oste. Servitor umilissimo. (parte)
SCENA VI.
Gottardo solo.
Ci giocherei dieci zecchini, che la bricconeria me l’ha fatta quel birbante di Agapito; ma come diavolo avrà potuto entrare in casa? Come? È stato qui. È capace di aver cambiata la chiave. Oh se potessi assicurarmene, vorrei fargliela pagar salata. Se potessi almeno sapere chi erano le cinque persone che hanno mangiato qui. L’oste non sa niente, ed è difficile indovinarlo.
SCENA VII.
Il Garzone del caffè, ed il suddetto.
Garzone. Servitor umilissimo, signor Gottardo.
Gottardo. Cos’è? C’è qualche altra novità? Venite anche voi per danari?
Garzone. Sì signore, vengo per i cinque caffè, che ho portati qui quest’oggi.
Gottardo. Ma io non c’era.
Garzone. So benissimo ch’ella non c’era, e per questo sono venuto a domandarle se li pagherà vossignoria, o se devo farmeli pagare dal signor Agapito.
Gottardo. Ah ah. È il signor Agapito che li ha ordinati?
Garzone. Sì signore, ma mi ha detto che li pagherete voi.
Gottardo. E Agapito oggi ha desinato qui?
Garzone. Senza dubbio.
Gottardo. Con altre persone?
Garzone. Ancora.
Gottardo. Conoscete voi le persone che hanno qui desinato?
Garzone. Sì signor, li conosco tutti.
Gottardo. Buono, buono. Ditemi un poco (ma non vorrei che venisse Placida ad inquietarmi sul più bello. Non vi è bisogno di furia, ma di destrezza). (da sè) Andiamo fuori; vi pagherò il caffè, e mi direte... Andate, andate innanzi.
Garzone. Per obbedirla. (parte)
Gottardo. Ora sono contento. Ho scoperto il furbo; non son chi sono, se non mi vendico. (parte)
Fine dell’Atto Quarto.
Note
- ↑ Così l’ed. Zatta; in altre edizioni posteriori: non la parli così.