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348 | ATTO QUARTO |
Placida. Una donna! Vi era anche una donna? Ah traditore! ah ingrato! ah perfido! (a Gottardo)
Gottardo. Tacete, Placida, che or ora mi fate fare qualche bestialità. Signor oste, io sono un galantuomo, incapace di far stare nessuno, e vi dico ch’io non ne so niente, e non ne so niente. (scaldandosi)
Oste. Orsù, signore, su quest’articolo parleremo poi; intanto favorisca almeno di darmi la mia biancheria, i miei piatti, e le mie posate d’argento.
Gottardo. Io?
Oste. Sì, ella che se n’è servito.
Gottardo. Mi fareste venir la rabbia davvero.
Oste. Come! vorrebbe ella negarmi ancora le mie posate d’argento?
Gottardo. Vi dico che sono un uomo d’onore, e non ne so niente.
Oste. Ed io le dico che sono stato avvisato che la mia roba è qui, e che hanno tutto riposto in un armadio, e ci scommetterei che è quello che lì.
Gottardo. Non è vero niente.
Placida. Vediamo, vediamo, presto vediamo, (corre all’armadio, lo apre e si vede tutto) Ah ah, signor marito!
Gottardo. (Io resto di sasso). (da sè, mortificato)
Placida. Ecco qui, posate, biancheria, piatti, boccie, bicchieri; negatelo ora, se vi dà l’animo. (a Gottardo)
Gottardo. Lasciatemi stare. (Non so in che mondo mi sia). (da sè)
Oste. Si contenta ch’io prenda la roba mia? (a Gottardo)
Gottardo. Prendete quel che diavolo volete.
Oste. Ehi, giovani, venite avanti. (alla porta)
SCENA III.
Garzoni dell’Oste e detti.
Garzoni. (Entrano.)
Oste. Prendete quella roba e portatela a casa, ma prima incontriamola.
(L’Oste e i Garzoni vanno all’armadio, incontrano tutta la roba, e la vanno disponendo per portarla via.)