La Stella Polare ed il suo viaggio avventuroso/Parte terza/7. L'incontro con la Cappella

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Capitolo VII

L’incontro con la «Cappella»


La spedizione Wellmann, raccolta dalla nave baleniera, aveva avuto un tale rovescio da non incoraggiare certo i membri della spedizione italiana. Ritornava in pessimo stato, con un uomo di meno e senz’esser riuscita nel suo intento di raggiungere il polo. [p. 261 modifica]

Come abbiamo detto, il signor Wellmann, un americano già pratico delle regioni polari, era partito dalla Norvegia l’anno precedente, sbarcando al Capo Tegetthoff il 30 luglio, dove piantava i suoi quartieri d’inverno, mentre la nave che lo aveva trasportato fino a quel luogo, s’affrettava a tornare in patria.

Aveva per compagni tre americani, tre scienziati, il naturalista De Hoffman, il fisico Harline ed il meteorologo e botanico luogotenente Baldwin, più cinque marinai norvegesi.

Stabiliti i quartieri d’inverno, il Wellmann, approfittando della buona stagione, si era subito spinto fino all’80° di latitudine nord, costruendo una casupola sulla costa orientale della terra di Wilczeck.

Quella stazione fu chiamata pomposamente col nome di forte Mac-Kinley, in onore del presidente degli Stati Uniti, e vi furono messi a guardia due marinai norvegesi Paolo Bjorwig e Bernt Bentzen.

Quest’ultimo era già stato compagno di Nansen durante la deriva del Fram.

Per quale motivo i due norvegesi erano stati lasciati soli nella capanna? Lo si ignora. Certo fu una imprevidenza che quei due disgraziati dovevano pagare ben cara.

Mentre i due marinai rimanevano soli su quella spiaggia deserta, alle prese coi terribili freddi della regione artica e cogli orsi bianchi, la spedizione era ritornata al Capo Tegetthoff per svernare.

Verso la metà di febbraio del nuovo anno, il signor Wellmann ed i suoi compagni lasciavano i quartieri d’inverno per spingersi verso il nord e rilevare i due marinai norvegesi.

Giunti al forte Mac-Kinley, come era da prevedersi, non trovarono vivo che il Bjorwig. Il povero Bentzen era morto due mesi prima, ucciso dallo scorbuto, ed il superstite aveva trascorso parte dell’inverno accanto al suo disgraziato compagno, che non era riuscito a seppellire!...

Non ostante quel triste avvenimento, la spedizione aveva continuata la sua corsa verso il nord, con la speranza di poter giungere, con una rapida marcia, se non al polo, almeno nelle sue vicinanze e di sorpassare la latitudine toccata da Nansen.

Raggiunse felicemente l’82° di latitudine, scoprendo al nord di [p. 262 modifica]Treeden Island, la prima terra scoperta da Nansen, nuove isole, poi dovette arrestarsi in causa d’un grave avvenimento.

Il signor Wellmann, caduto in un crepaccio, si era spezzata una gamba, costringendo la spedizione ad un sollecito ritorno per salvare il proprio capo.

Rifece adunque le trecento miglia già percorse, trasportando il signor Wellmann sulle slitte, e raggiungendo i quartieri d’inverno del Capo Tegetthoff.

Ma qui un nuovo disastro l’attendeva. Verso la metà del marzo, quando la spedizione stava per riprendere la sua corsa verso il nord, un terribile terremoto rovesciava parte delle baracche, uccidendo parecchi cani e distruggendo la maggior parte delle slitte.

Fu l’ultimo colpo che immobilizzò gli americani nei loro quartieri d’inverno.

Il 27 luglio la spedizione, quando già si era rassegnata a passare un altro inverno su quelle terre desolate, veniva raccolta dalla Cappella, mandata appositamente in quelle regioni per raccoglierla.

L’incontro della Stella Polare con la nave baleniera fu commovente. Fu trasmessa la posta, poi dopo affettuosi addii la prima riprendeva la sua corsa verso il nord, mentre la seconda, forzando i ghiacci, giungeva felicemente al Capo Flora dove raccoglieva le lettere depositate da S. A. R. il Duca, da Cagni, da Querini, da Cavalli, dalle quattro guide e dai due marinai della spedizione, Canepa e Cardenti1.

La Stella Polare, trovato il mar libero, dopo tante lotte coi banchi di ghiaccio, aveva ripreso frettolosamente il largo per raggiungere, il più presto che era possibile, le terre settentrionali dell’arcipelago Francesco Giuseppe.

Come già si sa, il piano del Duca era quello di spingersi innanzi più che poteva, per poi tentare l’avanzata con le slitte, quindi premeva a tutti di raggiungere una latitudine elevata.

Lo svernamento doveva fissarsi molto al nord, su qualche baia riparata, che si sarebbe indubbiamente trovata su qualche costa.

I rifugi non dovevano mancare, ma si trattava di trovarli il più [p. 263 modifica]tardi possibile, cioè fino all’incontro cogli ice-fields inattaccabili, ossia cogli immensi campi di ghiaccio.

Il tempo, disgraziatamente, andava sempre più abbuiandosi e quantunque si fosse in piena estate, di quando in quando, dal settentrione, soffiavano venti freddi i quali accennavano ad aumentare.

Delle nebbie ondeggiavano costantemente pel cielo, impedendo a S. A. R. ed ai suoi compagni di fare le loro osservazioni. Si sentiva già per l’aria l’avvicinarsi del terribile inverno polare: ed erano in pieno agosto!...

La Stella Polare però non si arrestava per cercare la baia che doveva servirle di svernamento. Approfittava di quel po’ di mare libero per spingersi verso il settentrione.

I ghiacci tuttavia non mancavano. Nell’immenso canale si vedevano errare capricciosamente, in balia delle onde, banchi di ghiaccio ed ice-bergs in buon numero, che però lasciavano degli spazi sufficienti pel passaggio della nave.

– Non andremo molto lontano, – disse un giorno l’ingegnere Stökken al tenente Querini che stava chiacchierando con le guide. – L’inverno si avanza a gran passi.

– Di già? – chiese il tenente, stupito.

– Guardate, signore: gli uccelli marini cominciano a fuggire verso il sud e questo è un brutto indizio.

– Andremo egualmente innanzi, signor Stökken.

– Non vi fa paura l’inverno polare?

– Se non ha fatto paura al mio glorioso avo perchè dovrebbe spaventare me?

– Cosa volete dire, signor tenente?...

– Che un mio avo si è pure spinto nei mari freddi, senza aver avuto paura dei ghiacci, – rispose il tenente. – Ed in quell’epoca, ve lo assicuro, non si aveva ancora molta conoscenza coi mari nordici.

– Cosa mi raccontate, signor tenente?

– Una storia vera, signor Stökken.

– Un vostro antenato s’è spinto fino a questi paraggi?

– Oh!... Non molto innanzi, signor Stökken, però per quei tempi era già un viaggio considerevole. Rimonta nientemeno che al 1431. [p. 264 modifica]

– È stato adunque uno dei primi naviganti, anteriore ai Verazzano ed ai Caboto.

– Sì, signor Stökken. Narrano le antiche cronache che questo mio avo, Pietro Querini, gentiluomo veneziano, si era proposto di visitare le regioni situate al di là del circolo artico, impresa molto difficile in quei tempi, non conoscendosi che molto imperfettamente le terre nordiche.

– Lo credo, signor tenente. A quell’epoca era malissimo nota anche la mia Norvegia.

– Era partito con sessantotto marinai, ottocento barili di malvasia, legnami lavorati e spezie, genziana e parecchie altre merci di valore, spingendosi fino a settecento miglia dall’Islanda.

Una tempesta tremenda aveva abbattuti gli alberi e spezzato il timone, sicchè i marinai furono costretti a cercare rifugio in due scialuppe. Una contenente venticinque uomini scomparve, nè mai più nulla si seppe; l’altra, con quarantasette, errò lungo tempo sul mare, lottando con la fame e con la sete.

Quando il 4 gennaio del 1432 quella scialuppa potè toccare le coste della Norvegia, quei quarantasette uomini erano ridotti solamente a tredici.

– Un vero disastro.

– Sì, signor Stökken.

– Ed il vostro avo, morì?

– No, potè giungere a Bergen dove ebbe festose accoglienze, recandosi più tardi a Londra, prima di tornare in patria.

– Signore, – disse l’ingegnere, con voce grave. – Auguro al pronipote del navigatore di ritornare pure in patria carico di allori e di gloria.

– Grazie, signor Stökken, eppure...

– Cosa volete dire, tenente?

– Io non lo so, tuttavia temo che i ghiacci polari debbano portare sventura al pronipote, – rispose il tenente, con accento malinconico.

– Follie, signore.

– Speriamo che siano tali, signor Stökken. –

Intanto la Stella Polare continuava la sua corsa fra le innumerevoli isole che ingombrano la parte settentrionale del Canale [p. 265 modifica]Allenamento dei cani sotto le slitte. [p. 267 modifica]Britannico, ma non era veramente una corsa, poiché i ghiacci di tratto in tratto le ostacolavano la marcia, facendole perdere molto tempo preziosissimo.

Talvolta lo sperone della nave non bastava a rompere i margini dei banchi, ed allora i marinai dovevano scendere sul ghiaccio e attaccarlo col piccone e con le seghe, fatica straordinaria, ma che però tutti sopportavano senza lagnarsi.

Non ostante quei continui ostacoli, il buon umore regnava costantemente a bordo. S. A. R. d’altronde incoraggiava tutti a compiere il loro dovere, ora con una buona parola, ora con uno scherzo, ora con un sorriso e si studiava di mantenerli tutti in buona salute con pasti abbondanti e svariati, nei quali il cuoco canavesano si distingueva sempre con generale soddisfazione.

Chi dava noia erano sempre i cani. Cogli uomini si mostravano docili, specialmente con le guide alpine incaricate della loro pulizia e del loro nutrimento; viceversa poi si azzuffavano ferocemente fra di loro, mordendosi a sangue facendo un tale baccano che talvolta i marinai non riuscivano a udire gli ordini dei comandanti.

Ad ogni momento le guide erano costrette ad accorrere per separarli affinché non si ammazzassero.

Al nord della Terra di Francesco Giuseppe, la selvaggina continuava a mantenersi numerosa. Ogni giorno si vedevano branchi di foche e di morse che giocherellavano sui margini di ghiaccio, offrendo così l’occasione agli ufficiali di fare delle belle fucilate. Specialmente S. A. R. non mancava quasi mai ai suoi colpi, da vero nipote di Vittorio Emanuele, il valente cacciatore di stambecchi. Quelle foche non appartenevano tutte ad una sola specie. Oltre a quelle comuni chiamate laggar dai norvegesi e che s’incontrano dovunque, e quelle groenlandesi a ferro di cavallo sul dorso, se ne vedevano anche parecchie di grandi dimensioni, prima mai vedute dalla maggioranza dei membri della spedizione italiana.

Erano le crestate o foche dal berretto, le maggiori della famiglia, e che posseggono una specie di vescica cutanea lunga venticinque centimetri e alta venti, che l’anfibio quando è irritato gonfia, ma che quando è in riposo lascia ricadere sul naso. [p. 268 modifica]

Queste foche misurano due metri dal muso all’estremità deretana, hanno la testa molto grossa, il muso gonfio, le unghie ricurve e assai robuste e la coda larga.

Il loro pelame è setoloso, un po’ sollevato, color bruno nocciuola o nero a macchie ovali.

Sono meno numerose delle altre, anzi è raro a trovarle in parecchie, e sono di umore battagliero e anche le più difficili a uccidersi, essendo il loro berretto quasi impenetrabile alle palle. Assalite si difendono coraggiosamente e non di rado riescono a rovesciare le barche montate dai pescatori.

Oltre le foche si vedeva comparire anche qualche orso bianco, però non si avvicinavano quasi mai a portata di fucile, e quando udivano qualche sparo s’affrettavano ad allontanarsi prendendo un galoppo piuttosto rapido.

– Sono diffidenti, – diceva Cardenti. – Quando però saremo a terra, voglio farmi preparare dei manicaretti d’orso bianco. –

Verso gli ultimi d’agosto la Stella Polare giungeva nei pressi dell’isola Elisabetta, una terra assolutamente deserta, dalle coste ripide, contornate da vecchi ice-bergs e coperta in gran parte da nevischio.

Fu presso quell’isola che la valorosa nave fece l’incontro di banchi enormi, tali da impedirle di poter procedere più oltre.

Canali non se ne vedevano in alcuna direzione. Il ghiaccio era dovunque massiccio, assolutamente inattaccabile.

– Che siamo costretti a retrocedere o trovare qui qualche baia ove svernare? – chiese il tenente Querini al capitano Evensen.

– Siamo appena all’81° grado e S. A. R. vuole toccare almeno l’82°.

– Se vi giungeremo.

– Questi ghiacci s’apriranno, signore, – disse il capitano, guardando lontano. – Ci sono delle pressioni laggiù, e domani troveremo qualche canale.

– E dove andremo a svernare?

– Non lo possiamo sapere ancora. Sarei però contento se potessimo giungere almeno alla baia di Teplitz. M’hanno detto che colà si può trovare un buon ancoraggio.

– E più innanzi non potremo trovarne? – chiese il tenente. [p. 269 modifica]

– Chi può dirlo?... Queste terre non sono conosciute. Solamente Nansen le ha percorse in gran fretta.

– È in questi paraggi che ha svernato assieme a Johansen?

– Sì, signor tenente. Si rimane ancora meravigliati nel pensare come quei due uomini soli, senza viveri, abbiano potuto passare l’inverno polare in queste regioni.

– Dove hanno precisamente svernato?...

– A 81° 13’ di latitudine nord ed a 55° ½ di longitudine est. Quasi alla nostra stessa latitudine.

– Devono aver sofferto molto durante quei lunghi mesi.

– Non troppo, signore. Altri sarebbero forse morti, ma quei due avevano delle fibre di ferro.

– È del signor Nansen che si parla? – chiese Ollier avvicinandosi al tenente, mentre il capitano Evensen si dirigeva verso prora per osservare i ghiacci.

– Sì, – rispose Querini. – Il capitano mi diceva che il famoso esploratore aveva svernato in questa latitudine.

– Aveva molti compagni, signor tenente.

– Uno solo, mio caro Ollier.

– E la sua nave?

– L’aveva abbandonata per cercare di spingersi verso il polo. Essendo stata rinchiusa dai ghiacci e trasportata verso l’ovest, Nansen l’aveva lasciata.

– E hanno passato l’inverno fra queste terre in due soli?

– E quello che è peggio senza viveri, avendo consumati quelli che avevano portato dalla nave, durante la loro corsa verso il nord.

– Raccontate, signor tenente. Come hanno potuto sopravvivere?

– Mercè una gran dose di energia veramente sovrumana e di un coraggio straordinario. Dopo d’aver toccato l’86° grado, superandolo anzi di alcune miglia, Nansen era stato costretto a ritornare per mancanza di viveri ed in causa della deriva dei ghiacci, i quali lo portavano indietro non ostante le sue lunghe marce. Così vennero a cercare rifugio su questa terra per passare l’inverno polare.

– E la loro nave?...

– Era ormai molto lontana. I ghiacci l’avevano spinta verso l’ovest, in direzione dello Spitzbergen, quindi non potevano [p. 270 modifica]contare in nessun modo su di essa. Quei due coraggiosi però non si smarrirono. Non avendo viveri ed approssimandosi l’inverno, dettero una caccia spietata alle foche ed agli orsi bianchi per avere cibo e combustibile durante i grandi freddi. Raccolte le provviste, si fabbricarono una capanna con pietre, terra e muschi, pelli di foche e con alcuni pezzi di legno trovati sulle spiagge, probabilmente trasportati dalle correnti marine. Non mancarono di costruirsi perfino il camino, adoperando, in mancanza di pietre adatte... neve e ghiaccio!...

– E cosa bruciavano per riscaldarsi?...

– Il grasso delle foche e degli orsi bianchi.

– E che cosa mangiavano?

– Alla sera si friggevano un pezzo di foca in una padella d’alluminio, e al mattino si preparavano un bollito di carne d’orso.

– Frittura di foca!... Puah!...

– La fame non ragiona, mio caro Ollier, – disse il tenente.

– E si erano preparati anche dei letti?

– Uno, composto d’un sacco di pelle d’orso entro cui si cacciavano insieme per mantenersi più caldi: di sotto avevano messo uno strato di pietre più o meno levigate.

– Dovevano dormire molto male.

– Lo hanno confessato poi. La loro occupazione principale durante tutto l’inverno, fu infatti quella di cambiare le pietre per meglio livellarle, senza però riuscirvi.

– E come passavano il loro tempo?

– Mangiando e dormendo, non potendo uscire dalla loro capanna in causa del freddo intenso e della neve che la bloccava.

– Sarà stata almeno comoda, signor tenente.

– Non aveva che tre metri di lunghezza e poco più di uno e mezzo di larghezza, – rispose il tenente.

– Una vera cella da prigionieri. E non avevano alcuna occupazione per ingannare il tempo?

– Sì, una: quella di scegliere il ghiaccio migliore per fonderlo onde poter avere sempre acqua da bere.

– Potevano mangiarlo senza scioglierlo.

– Con quei freddi il ghiaccio, messo in bocca, produce delle infiammazioni pericolose. [p. 271 modifica]

– Potevano giocare alle carte.

– Non ne avevano.

– Addomesticare almeno degli animali.

– Veramente le volpi non mancavano, anzi ve n’erano sempre moltissime sul tetto della loro capanna in attesa delle ossa spolpate che gli esploratori gettavano al di fuori, ma non si lasciavano prendere.

– Che noia, signor tenente, – disse la guida.

– Certo, ma quello che più soffrirono fu la sporcizia delle loro vesti. Avrebbero dato uno dei loro fucili per poter avere un po’ di biancheria pulita, o per lo meno un po’ di sapone.

– E come si salvarono poi?

– Furono raccolti la primavera seguente dalla spedizione Jackson che trovarono nei pressi del Capo Flora.

– E dovremo provare anche noi tante tribolazioni, signor tenente?

– È probabile, Ollier. –

La guida rimase un momento silenziosa, poi disse:

– Se le ha superate un norvegese, perchè non dovrebbero provarle e vincerle anche degl’italiani?... Signor tenente, al momento delle grandi prove, tutti saremo pronti.

– Sì, per l’onore della spedizione, – rispose Querini con voce grave.

L’indomani, come anche questa volta aveva predetto il capitano Evensen, un canale lunghissimo s’apriva in direzione del Capo Mac-Clintock dell’isola di Salisbury, permettendo alla Stella Polare di riprendere la corsa verso il nord.

La sua marcia non durò molto. I ghiacci, richiusisi nuovamente, in causa delle continue pressioni, l’arrestarono poche miglia più al nord, a 81° 14’ di latitudine.

Fu quello l’unico giorno in cui i membri della spedizione poterono, dopo d’aver lasciata la Cappella, fare il punto, essendosi il tempo mantenuto quasi sempre coperto.

Quella seconda fermata non fu molto lunga. Le pressioni se talvolta stringevano i banchi, talora li sgretolavano aprendo nuovi canali. [p. 272 modifica]

La Stella Polare adunque, sebbene faticosamente, riprese la sua corsa, seguendo la via percorsa da Nansen e da Johansen nel loro ritorno.

Potè così avvistare il Capo Hugh Mill, le coste della Terra Carlo Alessandro ancora appena delineata, quindi raggiungere la Terra del Principe Rodolfo, la più settentrionale dell’Arcipelago, passando dinanzi alla baia di Teplitz.

Ohimè! Quella corsa non doveva durare a lungo.

Dopo d’aver costeggiata la parte settentrionale dell’isola del Principe Rodolfo, girando il Capo Fligely, agli ultimi di agosto si trovava dinanzi a tale massa di ghiacci da farle perdere ogni speranza di spingersi più a settentrione.

Era giunta allora all’82° 14’ di latitudine boreale, toccando quasi il punto raggiunto da Parry, settantun anno prima, dopo una lunga e faticosa corsa con le slitte attraverso i campi di ghiaccio dello Spitzbergen settentrionale.



Note

  1. Quelle lettere giunsero felicemente in Italia.