La Sovrana del Campo d'Oro/XXIII
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CAPITOLO XXIII
Nel fondo del «Gran Cañon»
L’Orso Valente mandò un fischio coll’ikkischota di guerra, fatto con una tibia umana, poi la banda si mise in cammino, passando attraverso una profonda gola, che serpeggiava fra rupi immense, le cui vette erano coperte d’una folta nebbia.
Annie, durante quella scena, non aveva aperto bocca. Aveva conservato uno sdegnoso silenzio, guardando alteramente gl’indiani: sapeva che un contegno risoluto era l’unico mezzo per farsi rispettare da quei selvaggi, grandi ammiratori delle persone coraggiose.
Di quando in quando però volgeva lo sguardo verso Harris, che le veniva dietro, come per incoraggiarlo. E il disgraziato ne aveva proprio bisogno, non perchè temesse per la propria vita, ma perchè tremava per quella della fidanzata. Egli conosceva troppo bene quei feroci selvaggi dei deserti americani, per crearsi delle illusioni, e pensava, fremendo, al momento terribile in cui si sarebbero trovati tutti legati al palo della tortura.
Blunt invece si sfogava, bestemmiando e mandando accidenti ai suoi guardiani, all’Orso Valente e anche al capo Victoria, che non credeva di dover conoscere così presto.
— Sacripanti! — diceva, dimenandosi furiosamente. — Se vi avessi scorti a tempo non mi avreste legato così come un salame. E tutto per colpa del Re dei Granchi! Se riesco a scappare mangerò il cuore di quell’africano!
Gli Apaches pareva che non comprendessero nemmeno quello che diceva, e si limitavano a sorvegliarlo attentamente, per paura che da un momento all’altro si gettasse da cavallo.
Bei guerrieri, quei crudeli selvaggi! Quantunque fossero generalmente meno alti degl’indiani del settentrione, i quali sono di statura gigantesca, erano tutti robusti, con braccia e gambe muscolose e petti sviluppatissimi.
A differenza dei loro confratelli del nord, conservavano ancora l’antico costume indiano. Avevano i capelli stretti da una striscia di pelle che reggeva penne d’aquila o di tacchino selvatico; il petto era, coperto di collane, formate di denti d’orso e di lupo, e da pepite d’oro di varia grossezza; portavano calzoni larghi verso il fondo, come quelli dei messicani, oppure stretti entro mocassini guarniti ai lati di capigliature umane; gli orecchi, i cui lobi erano assai allargati, erano adorni di grosse rotelle d’oro e d’argento.
Per la maggior parte erano armati di fucile e di tomahawk; alcuni invece portavano ancora Parco, lo scudo di pelle di bisonte e una lunga lancia. Dovevano essere, quantunque così poco armati, i più valenti perchè avevano tutti numerose capigliature umane appese agli scudi e la cintura era adorna di code di lupo, insegna del valorosi.
La banda, dopo aver percorso cinque o seicento passi, sfilando sempre fra rocce tagliate a picco, si trovò dinanzi ad un secondo cañon che scendeva ripidissimo e permetteva di scorgere le alte montagne al di là dell’immenso abisso.
— Signor Harris, dove ci conducono? — gridò Blunt.
— Andiamo verso il Colorado, — rispose l’ingegnere.
— Precipiteremo tutti. Non vedete come scende il sentiero?
— Lasciatevi guidare dai vostri guardiani e non avrete nulla da temere.
L’Orso Valente era sceso ed aveva preso il mustano montato da Annie per le briglie, dicendo ruvidamente:
— Non muoverti, viso pallido.
La discesa diventava terribile: era così ripida che i cavalli penavano a mantenersi ritti, costringendo i cavalieri a tenersi piegati all’indietro. Per di più il fondo di quel cañon era ingombro di massi ed interrotto da crepacci, in fondo ai quali si udivano scrosciare i torrenti.
A destra ed a sinistra s’alzavano due pareti gigantesche, le cui cime pareva quasi si toccassero, che impedivano ai raggi del sole di giungere in fondo alla gola.
Quelle rocce avevano strane tinte rosee, aranciate e scarlatte, che, giù nel fondo, andavano digradando nel violetto del granito. Le rocce che formano quell’abisso meraviglioso sono a strati, sovrapposti gli uni agli altri come i fogli d’un libro. Si direbbero le pagine in cui sta scritta la storia della terra in caratteri indelebili.
Le rocce, specialmente quelle della parte più profonda del baratro, sono di formazione così remota, che esistevano probabilmente prima ancora che il sole brillasse attraverso la notte dei tempi e prima che la luna e le stelle facessero piovere la loro luce attraverso le nubi.
Le arenarie rosse, che coprono la vallata immensa, furono disgregate ad opera delle piogge, e portate da esse nei mari popolati dai pesci. Nelle foreste che un tempo la ricoprivano, crescevano palme e felci e fiorivano le orchidee multicolori; nell’aria volavano i cervi volanti e gli uccelli dalle splendide piume.
In quelle epoche lontane, enormi rettili, più grossi delle balene, si aggiravano nelle selve, e altri mostri, lunghi settanta ed ottanta piedi, battaglieri e terribili, popolavano le paludi salmastre, più tardi scomparse.
Malgrado gli ostacoli, i massi, le pendenze ed i crepacci, i mustani, guidati da quegli impareggiabili cavalieri, scendevano senza esitare, puntando fortemente gli zoccoli.
Il calore, man mano che la banda scendeva, aumentava rapidamente, perchè nel fondo del Gran Cañon regna una temperatura degna del Sahara africano. L’aria poi diventava così soffocante che i prigionieri respiravano con gran pena.
— Dove ci conducono questi animali? — gridava Blunt. — All’inferno forse? Se continuiamo ancora noi cuoceremo come bistecche!
L’Orso Valente il quale temeva che quelle grida, ripercosse dall’eco, cagionassero qualche frana, lo invitava ruvidamente a chiudere la bocca, ma l’incorreggibile chiacchierone rispondeva allora con una sfilza d’insolenze.
— Brutti rettili! Lasciateci andare pei nostri affari! Siete dei banditi peggiori di quelli che si rimorchia il Re dei Granchi! Che l’inferno od il Gran Cañon v’inghiottano tutti! Io me ne rido delle capigliature che ornano i vostri mocassini, musi rossi! Non mi fareste paura se avessi una rivoltella fra le mani.
Solo uno sguardo di Annie riusciva a calmare il bollente giovane, il quale tuttavia non cessava anche dopo di brontolare.
Dopo due ore di marcia, la banda giungeva finalmente, coi cavalli mezzo rattrappiti da quegli sforzi prodigiosi, nel fondo del Gran Cañon.
L’Orso Valente, ritenendosi ormai sicuro da ogni inseguimento, lasciò che i mustani galoppassero fin sulla riva del Rio Colorado, coperta di palme, di nocciuoli selvatici, di cactus giganteschi e di alberi di romice, che spandevano un’ombra sufficientemente fresca; poi diede il segnale della fermata.
Quattro o cinque indiani tagliarono dei rami, che piantarono profondamente nel suolo umido, e vi legarono i prigionieri, senza liberarli dai lacci che stringevano loro le braccia; gli altri misero in libertà i cavalli perchè pascolassero.
— Oh! Mia povera Annie! — esclamò Harris, quando furono soli. — Quale sciagura è piombata su di noi!
— Non si è sempre fortunati, amico, — rispose la valorosa fanciulla.
— D’altronde, — aggiunse lo scrivano, — non siamo ancora morti. Credete proprio che questi selvaggi ci strappino la pelle? A me non sembrano così feroci come me li avete descritti.
— È la nostra capigliatura che è in pericolo, Blunt.
— Si può vivere anche senza.
— Egoista, — disse Annie, sforzandosi a sorridere. — Non pensate alla mia.
— Perdonate, miss, ma io ho udito raccontare che gl’indiani generalmente risparmiano le donne. Quindi siamo io ed il signor Harris che corriamo pericolo. E poi, chissà che Buffalo Bill, quel diavolo d’uomo, non giunga in tempo per dare una tremenda lezione a questi selvaggi.
— Bene! Sperate ancora! — esclamò Harris.
— Sì, finchè non sarò morto, — rispose lo scrivano. — I miei capelli si trovano ancora sulla mia testa, signore.
— Vedremo se il capo Victoria ve li lascerà.
— Non abbiamo ancora veduto quella tigre americana.
— È il più implacabile nemico dei visi pallidi.
— Noi non siamo suoi nemici, signor Harris.
— Abbiamo la pelle bianca e basta.
— Volete spaventarmi?
— No, Blunt; anzi, al contrario.
— Dovremo proprio lasciare la nostra pelle nel Gran Cañon?
— E prima di tutto la capigliatura, mio povero amico.
— Oh! In quanto a quella, la vedremo, ingegnere. Non siamo già degli agnellini, noi.
— Che cosa vorreste fare senz’armi?
— Lavoreremo di calci e di pugni.
— Ah! signor Blunt, — disse Annie. — Credete che gl’indiani siano dei fantocci?
Lo scrivano guardò la Sovrana del Campo d’Oro con stupore, colpito dalla calma straordinaria di quell’intrepida fanciulla.
— Che nervi avete voi, miss? — chiese. — Un’altra donna al vostro posto piangerebbe.
— Un’americana? Oh! Mai. — Rispose Annie, con voce calma.
— Queste belve dunque non vi fanno paura?
— Non ancora.
— Che donna siete voi?
— Ho conosciuto molti altri indiani.
— Tutte bestie feroci?
— Non sempre, signor Blunt.
— Ne avete trovato di buoni?
— Qualcuno, sì.
— Quelli non dovevano essere Apaches, — disse Harris.
— Che cosa faranno dunque di noi? — chiese lo scrivano.
— Ci legheranno al palo della tortura.
— E poi?
— Ci strapperanno innanzi tutto le unghie.
— Miserabili!
— Eh! Mio caro Blunt, vi ho detto che sono crudeli.
— Bah! Anche senza le unghie si può vivere.
— E senza...
L’ingegnere si era arrestato, per non spaventare troppo il bravo giovane.
— Forse Victoria non sarà cattivo, — disse poi. — È una mia supposizione.
Annie stava per parlare, quando l’Orso Valente si avvicinò loro dicendo:
— I larghi coltelli dell’ovest desiderano qualcosa?
— Abbiamo una fame da lupi, capo, — disse Blunt.
— Vi darò del tasaio, affinchè vi mostriate forti quando giungeremo nell’atepetl del Capo Victoria. Anzi vi aggiungeremo dell’honcyniè (polenta di granturco condita con grasso d’orso).
— Per farci sopportare meglio il supplizio cui ci avete destinati? — chiese Blunt, ironicamente.
— I saggi della tribù non vi hanno ancora giudicato, — rispose il sotto-capo.
— Conosciamo però la loro generosità, Orso Valente, — disse Harris. — Sono più velenosi dei serpenti a sonagli.
L’Apache aggrottò la fronte e lanciò sull’ingegnere uno sguardo cupo.
— How! how! (bene, bene) — disse l’indiano con un triste sorriso. — Io non so ancora se voi siete amici o nemici. I vecchi della tribù e Victoria indagheranno sul vostro conto.
Alzò le spalle come un uomo che poco s’inquieta della vita di un suo simile, indi si allontanò con passo tranquillo, sempre sorridendo.
— Quello deve essere peggiore d’un orso grigio, — disse Blunt.
— No, più feroce d’un giaguaro, — rispose Harris. — Guai se fosse lui il capo supremo della tribù! A quest’ora nessuno di noi sarebbe vivo, scommetterei un dollaro contro una miniera.
— E le vostre capigliature, se non la mia, ornerebbero già i suoi calzoneros, — aggiunse Annie. — Vi ho detto che le conosco queste belve, poichè le frequentavo assieme a mio padre, nei tempi in cui egli era trafficante della prateria.
— Però non hanno scotennato vostro padre, — disse Blunt.
— Perchè vendeva loro armi, polvere, orpelli; tuttavia una volta per poco non lasciammo le nostre capigliature nelle loro mani.
— Credete proprio che questi furfanti ci uccidano?
— Forse Victoria è meno crudele di quello che noi pensiamo, — disse Annie. — Io l’ho veduto una volta alla miniera di mio padre e non mi parve un crudele selvaggio quale lo si dipinge.
— Voi l’avete veduto, Annie! — esclamò Harris.
— Ed ho conosciuto anche sua figlia, la bella Le-es-ka (il girasole della prateria). Ecco il motivo per cui non mi vedete molto preoccupata.
— Sperate di trovare un appoggio nella figlia del capo?
— Sì, amico mio, conto su di lei per strapparci alla morte. Se fossimo caduti nelle mani dei Navajoes la cosa sarebbe stata ben diversa.
— Non ho mai saputo che aveste qualche relazione fra gli Apaches.
— Vi ho detto che mio padre, prima di essere minatore e proprietario di miniere, era stato trafficante.
— E questo animale d’Orso Valente non l’avevate mai veduto prima? — chiese Blunt.
— No.
— Che ci scotenni prima di giungere al suo villaggio?
— No, se non tenteremo la fuga.
— Ed infatti l’indiano scuoia il nemico durante la lotta, ma non il prigioniero, — disse Harris.
— Non già per risparmiarlo però, — disse Blunt.
— Anzi, per farlo soffrire di più al palo della tortura.
— Birbanti! Potesse toccare questa sorte a quel cane di Re dai Granchi! A proposito: che quei banditi si siano allontanati senza aver liberato il colonnello?
— E’ questo il pensiero che mi tormenta, — disse Harris.
— E preoccupa me pure, — aggiunse Annie. — Che quel valoroso ed i suoi bravi compagni siano rimasti rinchiusi là dentro, a morire di fame?
— Hanno nove cavalli da mangiare, miss, — rispose Blunt, — e poi quegli uomini sapranno cavarsela egualmente, ora che ci penso.
— In qual modo? — chiesero ad una voce Annie ed Harris.
— Intrecciando un’altra corda. Io ho udito Buck dire al colonnelli, quando stavano preparando quella che servì a noi: «Se non basterà, scuoieremo un cavallo, e avremo quanta pelle vorremo».
— Mi si allarga il cuore, — disse Harris. — Io temevo che a quei bravi uomini dovessero mancare i mezzi per lasciare il cliff. Comincio a sperare.
— Che cosa, signor Harris?
— Di rivederli presto. Buffalo Bill, sapendo che siamo nelle mani degli indiani, non ci abbandonerà al nostro destino. Ne ha salvato molti uomini bianchi e non dubito che riesca anche questa volta.
— Tacete, Harris, — disse Annie, udendo dei passi dietro di sè. — Vi sono uomini che comprendono l’inglese, e potrebbero udirvi.
Un indiano comparve un momento dopo, portando su di un piatto d’argilla, rozzamente foggiato, un pasticcio chiamato molchaschi, fatto di uova di storione condite con lamponi selvaggi, di cibo prediletto degl’indiani, con un contorno di honcyniè.
— E’ il capo che lo manda ai visi pallidi, — disse il guerriero.
Slegò loro le braccia, lasciandoli però avvinti per la cintura ai pali, poi si sedette a breve distanza tenendo il tomahawk sulle ginocchia, per sorvegliarli. Anche gli altri indiani, dopo aver messi in libertà i mustani affinchè pascolassero, si erano seduti attorno ai fuochi, preparandosi la colazione.
Quella fermata non durò che mezz ’ora, poi tutti risalirono a cavallo costeggiando il Colorado, che in quel luogo era largo non meno di duecentocinquanta metri: le sue acque rossastre, cariche d’argilla, scorrevano formando grandi gorghi.
L’Orso Valente s’era messo a fianco di Annie e la guardava con particolare attenzione.
Ad un tratto, le chiese a bruciapelo:
— Non saresti tu la figlia della capigliatura lunga?
La fanciulla lo guardò con sorpresa.
— Tu mi hai già veduta?
— Mi pare, — rispose l’indiano.
— Mio padre lo chiamavano appunto la «capigliatura lunga».
— How! how! — disse l’indiano con un sorriso. — L’Orso Valente ha buona memoria. Tu vai bene la mano d’un sakem.
— D’un capo, hai detto! — esclamò Annie, impallidendo.
— Tu non finirai al palo della tortura, come gli altri due. Ci sarò io a proteggerti.
— Che cosa vuoi dire?
— Hug! — fece l’indiano, dardeggiando su di lei uno sguardo ardente. Poi spinse innanzi il cavallo, raggiungendo l’avanguardia.
— Siamo perduti tutti, — mormorò la disgraziata fanciulla con angoscia. — Quel miserabile ha fissati i suoi occhi su di me. Egli pensa di fare di me la sua squaw! (la sua donna). Preferisco la morte.
In quel momento si udirono delle grida lontane, accompagnate da latrati e da nitriti, giungere da una folta boscaglia, che si stendeva dalle rive del Colorado sino alle pareti granitiche dell’abisso.
Gl’indiani dell’avanguardia spararono alcuni colpi in aria, poi partirono al galoppo seguiti da tutti gli altri.
— Il villaggio degli Apaches è vicino, — disse Harris a Blunt, che cavalcava al suo fianco. — E’ là che si deciderà la nostra sorte.
— Signor Harris, vi confesso che comincio ad aver paura, — disse il povero scrivano. — Se queste tigri ci attaccassero davvero al palo della tortura?
— Confidiamo nella figlia di Victoria.
— Se fosse morta?
— Allora, mio povero amico, cercheremo di rassegnarci alla nostra sorte.
— O fuggiremo, signore.
— Un’impresa diffìcile.
— Ma che tenteremo.
In quel momento la banda giungeva in una vasta radura, circondata da folte piante, in mezzo alla quale sorgeva l’atepetl degli Apaches.