XX - Il «Gran Cañon» del Colorado

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CAPITOLO XX


Il «Gran Cañon» del Colorado


Il Gran Cañon del Colorado è indubbiamente una delle più grandi meraviglie dell’America Settentrionale.

E’ un vero squarcio aperto nella crosta terrestre, ma uno squarcio che non ha l’eguale in tutto il mondo. Nemmeno le spaccature enormi che i viaggiatori moderni hanno osservate nelle profonde valli del Tibet, possono reggere al paragone. E’ un baratro così vasto che [p. 146 modifica]New-York e Parigi insieme e anche Pechino, con tutti i loro milioni di abitanti, vi si perderebbero dentro.

In quell’abisso, scavato nel corso di migliaia e migliaia d’anni dalle acque del Rio Colorado, ogni senso di misura si perde per chi lo contempli dall’alto dei suoi margini.

Si pensi che ha una lunghezza di seicento miglia ed ha conservato sempre, da secoli e secoli, l’antico livello di duemila piedi soltanto su quello del mare.

Mentre tutti gli altri fiumi straripano, come il Nilo, l’Irawaddy e l’Amazzoni, per citare i più grossi ed i più conosciuti, il Rio Colorado non esce mai dal suo letto, a causa della forza perforante veramente eccezionale delle sue acque e delle sabbie, che distruggono e limano incessantemente le rocce del fondo.

Quindi, mentre le terre circostanti si sono alzate a poco a poco fino a ottomila piedi, il Colorado è rimasto stazionario al suo primitivo livello.

I suoi affluenti, che scendono per lo più da nevai collocati a duemila metri d’altezza, hanno avuta una parte importantissima in questa colossale opera di scavo, poichè rovesciano continuamente migliaia di tonnellate d’acqua ricca di detriti, che hanno una potenza perforante quasi pari a quella della polvere di diamanti.

Nell’abisso non vi erano in quell’epoca nè villaggi, nè città. Solo alcune miniere, che venivano lavorate con grandi stenti: per lo più di rame e poche d’oro.

A grandi distanze esistevano gruppi di catapecchie, appena sufficienti a riparare i minatori dai raggi torridi del sole, che sovente venivano abbandonate, quando i Navajoes e gli Apaches, assetati di stragi, o bramosi di fare nuove collezioni di capigliature per ornare i propri calzoneros, lasciavano le alte montagne per scendere nel Gran Cañon.

Esistevano però, sui fianchi di quelle rocce colossali, numerosi rifugi, costituiti da immense caverne scavate dagli antichi Lupai, indiani che, a differenza di quelli attuali, coltivavano la terra invece di vivere di caccia. Essi vennero poi quasi interamente distrutti dai loro confratelli Apaches e Navajoes, che li precipitarono nell’abisso, dopo averli respinti fino sui margini dell’enorme spaccatura.

Buffalo Bill che, come abbiamo, detto, conosceva profondamente il Gran Cañon, avendo compreso che dai cavalli, non poteva ottenere uno sforzo ulteriore e premendogli di non perderli, era balzato a terra, prendendo il suo per la briglia.

— Raggiungiamo prima l’orlo dell’abisso, — aveva detto ai suoi compagni. — Se non m’inganno, noi dobbiamo essere vicini al picco di Kit.

— E là troveremo un rifugio? — aveva chiesto Harris. [p. 147 modifica]

— Sì, ingegnere, un antico villaggio sotterraneo dei Lupai.

— Andiamo, colonnello. L’uragano sta per scatenarsi.

Violentissime raffiche, assai fredde, giungevano dalle montagne che s’alzavano sull’opposto margine dell’abisso, e torcevano con mille scricchiolii i rami degli aceri e degli alberi del cotone, mentre in lontananza il tuono continuava a rumoreggiare.

Qualche lampo, di quando in quando, rompeva l’oscurità che regnava sotto le piante, seguito quasi sempre da fragori strani, che parevano prodotti dal rovinar di frane entro il Gran Cañon.

Attraversata la zona boscosa, i viaggiatori si trovarono improvvisamente dinanzi all’enorme spaccatura, la quale si apriva fra due altissime rupi che cadevano a piombo.

Di quando in quando il colonnello mandava un grido d’allarme:

— Badate!... Vi è una fenditura!... Attenti a quel sasso!... Tenetevi stretti alla parete!... Aprite bene gli occhi!...

Per dieci minuti fiancheggiarono la roccia, avanzando adagio adagio, per non scivolare in quello spaventevole abisso, poi il sentiero improvvisamente si allargò terminando in una specie di recinto, chiuso da ogni lato da rupi altissime.

— Eccoci, — disse il colonnello, mostrando un’arcata che si delineava da una parte. — Qui si trova l’antico villaggio dei Lupai. Ci siete tutti?

— Sì, — rispose Harris, — ma la prova è stata dura. Mi sono sentito due o tre volte attrarre da quell’orribile abisso.

— Seguitemi, signori. Credo che nessuno conosca questo rifugio che io ho scoperto un giorno per caso, mentre inseguivo un orso nero. Te ne ricordi, Buck?

— Sì, colonnello, — rispose il cow-boy.

Buffalo Bill si diresse verso l’arcata e penetrò in un’ampia apertura semi-circolare che pareva mettesse in qualche caverna.

— Buck, prepara una torcia, — disse. — Il cliff-dwelling non è lontano.

Attraversata quella seconda arcata, i viaggiatori si trovarono su di un sentiero aperto fra le rupi, che saliva serpeggiando dolcemente ed era fiancheggiato di tratto in tratto da strane costruzioni semidiroccate, che rassomigliavano vagamente a piccole torri.

— Dove siamo noi? — chiese Blunt.

— Sul viottolo che conduce al cliff-dwelling, — rispose Buffalo Bill. — Quegl’indiani sapevano collocare bene i loro villaggi, in luoghi impervi e difesi da opere solide.

Continuarono a salire, nonostante i furiosi colpi di vento che li investivano, e raggiunsero una piattaforma piuttosto vasta, che da un lato guardava l’abisso del Gran Cañon ed era ricoperta dalle rovine di certi bastioni ormai sgretolati dalle acque. A destra ed a sini[p. 148 modifica]stra, e anche verso il precipizio, si udivano scrosciare con un rombo incessante torrenti invisibili.

Il colonnello mostrò un’apertura e, presa la torcia che Buck aveva accesa, vi si cacciò dentro, senza abbandonare il cavallo.

I fuggiaschi si trovarono in una sala quadrata, scavata fra gli strati teneri e friabili della montagna, con quattro piccole finestre che pareva guardassero sull’abisso.

All’estremità opposta vi era un’altra apertura, che probabilmente doveva condurre in altre stanze consimili, dalla quale uscivano folate di vento.

Sulle pareti si scorgevano strane pitture, che volevano raffigurare animali di altre epoche; appesi al soffitto, alcuni sacchetti di pelle si dondolavano sotto i soffi dell’aria.

— Signori, — disse Buffalo Bill, — qui potremo riderci dell’uragano e riposarci senza venire seccati da nessuno. Koltar, vedo là in quell’angolo dei pezzi di legno e delle ossa, che avranno probabilmente migliaia d’anni. Provati ad accendere un po’ di fuoco e tu, Buck, prepara uno degli zamponi se...

Un rombo spaventevole che si ripercosse lungamente nelle stanze del cliff-dwelling, e fece impennare i cavalli, gli soffocò la frase.

— Si scatenerà un ciclone, — disse il colonnello. — E’ stata una vera fortuna che noi siamo giunti in tempo. Miss Annie, non spaventatevi. Queste costruzioni meravigliose non cedono, anche se sono state fatte sull’orlo del Gran Cañon.

— Chi abitava questi luoghi, signor Bill? — chiese Blunt, che si era seduto su un macigno presso Annie ed Harris.

— Gl’indiani Lupai, almeno così si crede, — rispose il colonnello. — Se ne trovano moltissime di queste abitazioni sotterranee tra le rocce che circondano il Gran Cañon.

— E’ vero — disse Harris. — Quel popolo, che pare sia giunto dal Messico, per paura forse degli spagnuoli, si è rifugiato qui, in luoghi quasi inaccessibili. Hanno approfittato dei piccoli Cañon, aperti dalle acque fra strati di terreni friabili, per scavarsi queste dimore che per secoli furono ignorate da tutti, e persino dagli Apaches, che pure scorrazzavano in tutti i sensi per questi luoghi.

— E come mai sfuggirono agli sguardi di tutti? — chiese Annie.

— Perchè muravano le pareti esterne, in modo che nessuno poneva accorgersi che dietro a quelle esistesse un piccolo popolo di esseri umani. In certi Cañon queste cavità murate si estendono per parecchie miglia, presentando, in mezzo a rupi tagliate quasi sempre a picco, le loro facciate inaccessibili.

— E vissero molti secoli tranquilli ed ignorati? — chiese Blunt.

— Sì, — rispose Harris.

— E come scomparve quel popolo? [p. 149 modifica]

— Fu distrutto dai feroci Navajoes, il giorno in cui quei guerrieri riuscirono a scoprirne i villaggi. Quasi tutti i disgraziati Lupai, che si erano esiliati volontariamente fra questi picchi altissimi, furono massacrati nei loro rifugi o scaraventati nel Gran Cañon.

— Che non ne esistano più? — chiese Annie.

— È probabile che ve ne siano ancora, miss, — disse Buffalo Bill, — nascosti verso le più alte cime, in luoghi assolutamente inaccessibili. Un giorno attraversando un Cañon profondissimo, ho veduto alcuni indiani inerpicarsi su per le rocce, che si trovavano a cinque o seicento metri sopra di me e scomparire entro una fessura. Vi erano anche dei fanciulli con loro, che per agilità potevano gareggiare coi montoni di montagna1. Vi dirò anzi che i minatori del Gran Cañon cercano sempre di sorprendere gli abitanti delle caverne nella speranza di obbligarli a confessare il segreto dell’oro.

— Il segreto dell’oro! — esclamarono Annie e Blunt.

— Si crede che quegli indiani, dopo la conquista del Messico, abbiano trafugato favolose ricchezze e che le tengano celate entro le loro misteriose caverne, — disse Buffalo Bill. — Altri invece affermano che abbiano nascosto, o meglio sepolto, le miniere che in tempi remoti possedeva l’imperatore del Messico, l’infelice Montezuma fatto morire da Cortez, perchè gli stranieri non potessero più trovarle. Qualcosa di vero vi deve essere, perchè so che molti minatori hanno sposato fanciulle indiane del Gran Cañon, per tentare di strappare ad esse il segreto, e che hanno offerto mule cariche d’argento ai capi tribù.

— Con qualche successo? — chiese Harris.

— Con nessuno, almeno finora, anzi intere spedizioni armate sono state distrutte entro le caverne, e ultimamente due uomini, che erano riusciti a saper dove gli indiani tengono nascosto l’oro, sono stati inseguiti ed assassinati, affinchè non divulgassero il segreto.

Mi rammento anzi che anni or sono, minatori messicani affermavano di aver trovata una caverna le cui pareti ed il soffitto erano coperti da lamine del prezioso metallo. Gl’indiani accortisi di ciò, diedero loro battaglia, riuscendo a scacciarli.

Tornati qualche anno dopo, quando le Pelli Rosse erano state domate, non riuscirono più a trovarli, perchè nel frattempo i guerrieri rossi con le mine avevano fatto saltare sentieri, caverne e rocce insieme, in modo che l’aspetto della regione circostante era completamente mutato.

Ehi, Koltar? Come va il prosciutto dell’orso?

— È pronto, colonnello, — rispose il gigante, — e pare, dal [p. 150 modifica]profumo che esala, che non valga meno d’uno di maiale. Che grasso hanno quei bestioni!

— Porta dunque, e tu, Buck, cerca nelle fonde della mia sella. Vi dev’essere qualche bottiglia di whisky, se non m’inganno. Dopo faremo una bella dormita a dispetto dell’uragano.

Il corriere che aveva compiuto veri miracoli, bruciando pezzi di legname e ossa insieme, stese a terra la pelle d’una gualdrappa e, su alcune foglie che un cow-boy aveva staccato da una pianta che cresceva presso la caverna, depose l’enorme prosciutto, abbastanza ben cucinato.

Buffalo Bill lo tagliò, e ne diede a ciascuno un pezzo, offrendo il primo ad Annie.

Avevano appena terminata quella colazione mattutina, poichè l’alba non era lontana, quando all’esterno si udì uno scrosciare assordante. Pareva che centinaia e centinaia di torrenti precipitassero lungo i fianchi delle rupi, mentre tuoni formidabili si ripercuotevano entro le caverne.

Dalle finestre irregolari, aperte sull’abisso, entravano folate di vento e sprazzi abbaglianti di luce che facevano sobbalzare i cavalli raggruppati in un angolo.

Buffalo Bill, che si era spinto verso l’entrata del rifugio assieme con Buck Taylor, era quasi subito rientrato, dicendo:

— È un ciclone che si rovescia sul Gran Cañon. Lasciamolo passare.

Con le coperte delle gualdrappe improvvisò in un canto della sala, dietro un cumulo di macerie, un giaciglio per la fanciulla, ponendovi una sella per guanciale. Era tutto quello che poteva fare, poichè tali sono i letti dei cow-boys.

Anche Blunt e Harris, che erano stanchissimi, si erano coricati su di una semplice coperta, ed il corriere e parecchi cow-boys li avevano imitati. Il colonnello e Buck Taylor, che pareva non sentissero affatto bisogno di riposare, si erano invece spinti nuovamente verso l’apertura, attraverso la quale le raffiche s’ingolfavano con tremendi ruggiti, minacciando di spegnere il fuoco.

Fuori, i lampi si succedevano ai lampi, con un crescendo spaventoso, e si udivano rombi terribili, come se tutte le rocce precipitassero nell’immenso baratro aperto dal Colorado; risuonavano sibili e ruggiti formidabili, come se in alto s’incrociassero centinaia di correnti d’aria, provenienti da direzioni diverse.

— Che cosa sta per succedere? — chiese Buck Taylor, che cercava di sporgere la testa fuori dell’arcata.

— Un ciclone, spaventevole senza dubbio, piomba sul Gran Cañon, — rispoae Buffalo Bill. — In realtà, io non sono molto tranquillo, quantunque noi siamo al coperto. [p. 151 modifica]

— Udite, colonnello? — chiese dopo qualche secondo il cow-boy, che tendeva gli orecchi.

— Che cosa?

— Mi pare di udire delle grida.

— Salire dal Gran Cañon?

— No, scendere dall’alto, piuttosto.

— Che sopra questo rifugio vi sia qualche altro cliff-dwelling?

— Ascoltate attentamente.

Buffalo Bill si era alzato. Sì, gli pareva di udire fra le urla ed i ruggiti del ciclone, delle grida umane.

— Usciamo, Buck, — disse.

Stavano per avanzarsi verso l’uscita, quando il suolo tremò sotto i loro piedi: poi sentirono un rombo formidabile proprio dinanzi all’entrata del cliff.

— Il terremoto! All’erta! — aveva urlato il colonnello.

Nel medesimo istante Buck aveva lanciata una bestemmia.

— Sangue di... Una frana ci ha chiusa l’uscita e siamo sepolti nel cliff.

Note

  1. Anche nel Messico, fra le più alte montagne, vivono ancora, entro caverne, tribù d’indiani che sembrano appartenere ad una stirpe antichissima e che non si fanno vedere quasi mai.