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New-York e Parigi insieme e anche Pechino, con tutti i loro milioni di abitanti, vi si perderebbero dentro.

In quell’abisso, scavato nel corso di migliaia e migliaia d’anni dalle acque del Rio Colorado, ogni senso di misura si perde per chi lo contempli dall’alto dei suoi margini.

Si pensi che ha una lunghezza di seicento miglia ed ha conservato sempre, da secoli e secoli, l’antico livello di duemila piedi soltanto su quello del mare.

Mentre tutti gli altri fiumi straripano, come il Nilo, l’Irawaddy e l’Amazzoni, per citare i più grossi ed i più conosciuti, il Rio Colorado non esce mai dal suo letto, a causa della forza perforante veramente eccezionale delle sue acque e delle sabbie, che distruggono e limano incessantemente le rocce del fondo.

Quindi, mentre le terre circostanti si sono alzate a poco a poco fino a ottomila piedi, il Colorado è rimasto stazionario al suo primitivo livello.

I suoi affluenti, che scendono per lo più da nevai collocati a duemila metri d’altezza, hanno avuta una parte importantissima in questa colossale opera di scavo, poichè rovesciano continuamente migliaia di tonnellate d’acqua ricca di detriti, che hanno una potenza perforante quasi pari a quella della polvere di diamanti.

Nell’abisso non vi erano in quell’epoca nè villaggi, nè città. Solo alcune miniere, che venivano lavorate con grandi stenti: per lo più di rame e poche d’oro.

A grandi distanze esistevano gruppi di catapecchie, appena sufficienti a riparare i minatori dai raggi torridi del sole, che sovente venivano abbandonate, quando i Navajoes e gli Apaches, assetati di stragi, o bramosi di fare nuove collezioni di capigliature per ornare i propri calzoneros, lasciavano le alte montagne per scendere nel Gran Cañon.

Esistevano però, sui fianchi di quelle rocce colossali, numerosi rifugi, costituiti da immense caverne scavate dagli antichi Lupai, indiani che, a differenza di quelli attuali, coltivavano la terra invece di vivere di caccia. Essi vennero poi quasi interamente distrutti dai loro confratelli Apaches e Navajoes, che li precipitarono nell’abisso, dopo averli respinti fino sui margini dell’enorme spaccatura.

Buffalo Bill che, come abbiamo, detto, conosceva profondamente il Gran Cañon, avendo compreso che dai cavalli, non poteva ottenere uno sforzo ulteriore e premendogli di non perderli, era balzato a terra, prendendo il suo per la briglia.

— Raggiungiamo prima l’orlo dell’abisso, — aveva detto ai suoi compagni. — Se non m’inganno, noi dobbiamo essere vicini al picco di Kit.

— E là troveremo un rifugio? — aveva chiesto Harris.