La Regaldina/XVIII
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XVIII.
Sui veli della neonata che portarono l’indomani a battezzare, un nastro nero indicava che la poveretta era senza madre.
Dietro al piccolo corteo la gente si affollava avida di notizie, mascherando sotto parole compassionevoli la curiosità di conoscere addentro il mistero che aveva fatta orfana così presto quella innocente.
Il mistero però restò sempre tale; nessuno, nemmeno fra i più maligni, ponsò mai che Matilde avesse potuto suicidarsi per amore. Gli amici e i conoscenti che accompagnarono la sua bara al cimitero, lamentando la febbre che le aveva tolta colla ragione anche la vita, piansero sulla immatura perdita, tornandosene a gruppi, tutti composti e gravi in volto lungo il viale.
Quando furono davanti alla Regaldina non vi fu uno solo che non si volgesse a guardare il tragico posto dove Matilde era morta — e le due case, la nera dei Regaldi, la bianca di Ippolito ritte sulle due sponde in attitudine di sfida.
Ma la primavera ridente spargeva tutto intorno i suoi colori e i suoi profumi. Nelle acque verdi, scorrenti, con dolce ondulazione, si specchiavano i mandorli fioriti; cantavano le rondini nei vecchi nidi, e sopra e lontano, dietro ai monti, fin dove poteva spingersi lo sguardo, dappertutto il lieto sole di maggio accendeva una scintilla di vita.
— Infine (disse una donna, percorrendo cogli occhi lo spazio, che la separava dalla propria abitazione, dove il marito e i bimbi l’attendevano) infine, che c’è di buono a questo mondo?
— È vero (rispose un’altra, la quale, avendo pianto molto, afferrò con riconoscenza questa inaspettata consolazione). Tutti quelli che se ne vanno, stanno meglio di noi.
Acchetata per tal modo la loro sensibilità, le due donne si trovarono sollevate da un gran peso. Altre si unirono subito a loro, aggiungendo ciascuna un commento per provare che la morte non è un male se non per quelli che restano.
Entrarono così nel paese, strette insieme, incoraggiandosi l’un l’altra, finchè si trovarono prese fra una folla di banchi, di sacchi e di panieri che (essendo quello giorno di mercato) i contadini dei prossimi cascinali accorrevano a schierare lungo le vie adiancenti alla piazza.
— Guarda, ci sono già le fragole.
— Oh! l'annata promette di essere buona.
Un pensiero allegro spianò la fronte delle donne. Qualcuna si accostò per sentire il prezzo delle fragole; qualche altra si lasciò attirare da una mostra di fazzoletti rossi, di cotone, lucidi come seta.
— E un fazzoletto di lutto, non lo avete? — domandò, con voce piagnolosa la servetta dei Regaldi, facendosi largo in mezzo alla gente.
— Un fazzoletto per voi, bella ragazza? Eccolo qui; tutto nero sparso di crocelline bianche.
— Oh!... le croci... È troppo triste.
— Prendete allora questo che ha i cuori (soggiunse il mercante, sorridente maliziosamente). Vi sarà di buon augurio.
Anche la servetta non potè fare a meno di sorridere, mettendosi il gomito sugli occhi — e comperò il fazzoletto, lesinando un poco sul prezzo, che non le pareva vero di dover spendere ottanta centesimi; ma tanto lo fece per amore della sua povera padrona.
Laggiù, nel salotto bigio dei Regaldi, Daria si teneva in braccio la Lena, che piangeva silenziosamente. Poco lungi, al posto dove c’era una volta la poltroncina di Matilde, una piccola culla di vimini accoglieva la neonata. Daria non abbandonava mai le due piccine; se le era adottate, le appartenevano di diritto per tutto ciò ch’ella aveva sofferto in quella famiglia e per ciò che alla famiglia ella aveva sacrificato.
Nell’attigua cucina si udiva il passo pesante di Rodolfo che risuonava sull’impiantito, misto alle esciamazioni prive di senso che uscivano spesso dalla sua bocca e a qualche bestemmia, scagliata contro una fatalità ignota della quale non faceva il nome.
A un tratto, l’uscio di fuori scricchiolò, e Daria sobbalzando lievemente e colorandosi in volto, salutò Ippolito che entrava.
In pochi mesi il giovine si era affatto mutato, come se una decina d’anni gli fosse passata sul capo imbiancandogli qua e là i capelli e rendendo ancor più grave l’espressione della sua fisionomia.
Incontrando gli occhi di Daria, egli sorrise, con un sorriso stanco, pieno di malinconia rassegnata.
— La piccina dorme? — domandò.
— Dorme.
— Ed egli è là? — soggiunse, accennando la cucina.
— Sì — rispose Daria con un sospiro.
E poi non dissero più nulla per un gran pezzo, pensando le medesime cose, oppressi dalla recente sventura.
La Lena, dopo aver continuato a piangere per un po’ di tempo, chiuse gli occhi, sfinita, e si addormentò sul seno di Daria. Allora Daria si levò pian piano e andò a posarla sul divano bigio, mettendole davanti una sedia perchè non avesse a cadere; chiuse a metà le imposte delle finestre e tornò al suo posto, muta, triste e calma come soleva.
Il sole, che fuori raggiava così vivo, non penetrava oramai che per un lieve spiraglio dalle imposte socchiuse; tutta la stanza era immersa in una penombra; una mosca, la prima della stagione, ronzava intorno alla finestra, urtando tratto tratto nei vetri con un rumore secco e molesto. Il cucù, che si era fermato, e che nessuno in quei giorni aveva pensato a caricare, se ne stava muto tra le due finestre, come un lungo spettro, testimonio immobile di tutto quello che accadeva nel salotto.
— Hanno mandato la nota del funerale? — domandò Daria, a voce bassa.
— No — rispose Ippolito, mentre colla mano si assicurava ch’essa era ben nascosta nella sua tasca e che non ne sarebbe uscita così facilmente.
Daria incrociò le mani sui ginocchi, tenendo gli occhi fissi a terra, assorta.
— Coraggio! — fece Ippolito, interpretando male quella posa.
— Oh! ne ho — disse ella prontamente, sollevandogli in volto gli occhi asciutti, dove non si leggeva alcuna debolezza.
— Più fortunata di me — balbettò Ippolito, non frenandosi più, coprendosi il volto colle mani.
Daria vide alcune lagrime che gli uscivano silenziose fra le dita. Lo lasciò piangere un poco, rispettando il suo dolore, approfittando del fatto che egli non poteva vederla per avvolgerlo tutto nell’onda de’ suoi sguardi affettuosi, accarezzandolo colle pupille.
Di lì a qualche istante:
— Non è chi ha sofferto e ha combattuto tanto che deve aver paura di nuove lotte e di nuovi dolori.
— Ma si stanca alla fine.
— Non lo dica....
— È vero — mormorò egli, vergognandosi e sollevando così prontamente gli occhi, ch’ella non ebbe tempo di abbassare i suoi.
Fu un bene; perchè Ippolito da quello sguardo attinse fermezza e consolazione.
— Ma lei... lei... — soggiunse, prendendole le mani e sprofondandosi nella dolcezza del guardarla.
— Io? — fece Daria, stringendosi lievemente sulle spalle con un moto involontario di dolore — io sarò sempre felice finche avrò un dovere da compiere e degli esseri da amare...
Guardò in giro per la stanza, e guardò anche lui, con un raggio di dolcezza improvvisa.
Egli le teneva sempre le mani.
— Sa — continuò la giovane, tremando a fior di pelle, pallidissima — la mia vita non era destinata alla gioia. Non conobbi i miei genitori, venni orfana e povera in questa casa, facendo con me stessa il patto di ricambiare in affetto e in devozione il pane che i Regaldi mi davano... All’amore non ci pensavo. Esso venne... e fu la mia fede, fu la mia forza... Non gli chiedo altro. — Qui (abbassò la voce, quasi volesse parlare all’anima di Ippolito, senza ferirgli l’orecchio) abbiamo veduto l’amore che non sa tacere, che non sa soffrire, che non sa combattere, oh! esso non è il vere amore....
— Daria! — esclamò Ippolito, baciandole le mani, piangendo come un bambino.
Il volto di Daria si illuminò di una luce celeste.
— Il vero amore è coraggio sempre, e qualche volta è anche sacrificio.
— Ma ridursi così dopo avere sentito fremere nel cuore tutte le speranze, tutti i desiderî, tutti gli affetti; compendiare ogni forza dell’animo nel reprimere e nel soffrire... è una vita cotesta?
— È la vita di chi sa elevarsi al punto dove la gioia non è più necessaria... è la nostra... poichè siamo in due, non è vero?
Egli se la strinse al seno in un amplesso disperato.
Il passo di Rodolfo, dalla stanza attigua, si avvicinava.
— Siamo forti — disse Daria, sciogliendosi da Ippolito. — Il mio posto è qui. Vede?...
E gli accennò colla mano le due bambine addormentate e il padre che entrava barcollando.
Fine.