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VI. La fortuna di Roma e Cristo

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La Distruzione - V. S. Agostino, i grandi uomini e la storia di Roma La Rinascita
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VI.


LA FORTUNA DI ROMA E CRISTO.


Ma allora da che cosa è nata, se non è nata dalla protezione degli Dei, la grandezza romana? Dal caso, dalla fatalità, o dal destino? No 1. Siamo così arrivati, con tutte le preparazioni necessarie, sulle soglie della conclusione cristiana. S. Agostino ci rivela subito il fine di quel tormentoso sillogizzare:

« Vediamo ora per quali virtù dei Romani, e per quale scopo si degnò di aiutare l’impero ad ingrandirsi il vero Dio, nella cui potestà sono anche i regni della terra. Appunto per potere discutere absolutius della questione, abbiamo dimostrato nel libro precedente come, per questo ingrandimento, non abbiano contato nulla quegli Dei venerati con cerimonie così ridicole, e, al principio di questo libro, come fosse da eliminarsi la versione del fato, perchè qualcuno, stufo del culto degli Dei, non attribuisse la grandezza e la difesa dell'Impero romano a non so quale [p. 76 modifica] fato piuttosto che alle potentissime volontà del Sommo Dio. » 2

L’Impero romano è stato fondato ed ingrandito da Dio, perchè unificando il mondo sotto uguali leggi ed in un’unica lingua, preparasse la venuta di Cristo e rendesse possibile l’espansione della nuova religione. « La città di Roma fu fondata come un’altra Babilonia e come la figlia della prima, per mezzo della quale piacque a Dio domare l’universo e pacificarlo in lungo ed in largo con la comunanza del governo e delle leggi. Poiché c’erano allora dei popoli forti ed agguerriti che non cedevano facilmente e che non si potevano vincere se non con gravi pericoli, grandi devastazioni reciproche e orribile travaglio » 3.

Questa è la dottrina cristiana dell’impero e della sua storia. Senonchè è facile intendere che questa dottrina spogliava Roma di tutta la gloria, di cui l’antica storiografia l’aveva illuminata. Roma non ha virtù, ma vizi, non enumera glorie, ma orrori: ha vinto nonostante questi orrori e questi vizi, per volere di Dio, per combattere vizi ed orrori più grandi. Essa è insomma il minor male dei tempi che furono prima della redenzione; e il cristianesimo le deve, non ammirazione, ma intelligente compatimento. Così S. Agostino considerò quelle virtù civiche, per glorificar le quali Livio aveva scritto il suo immenso poema, come vizi: primo di tutti l’amor della [p. 77 modifica] gloria, il pilone centrale della grandezza romana. « E questo impero potentissimo, col quale voleva castigare i gravi peccati di molti popoli, Dio lo affidò a questi uomini, i quali, per amore di onori e di lode, misero nella gloria della patria la propria gloria e non esitarono ad anteporre la salvezza della patria alla loro salvezza, vincendo il desiderio di denaro e molti altri vizi con un solo vizio: l’amor della gloria » 4. « Poiché chi è saggio capisce subito che l’amor della gloria è un vizio ». Vizio tanto maggiore perchè i Romani « non solo non gli resistevano, ma cercavano anzi di eccitarlo, pensando che sarebbe stato utile alla repubblica » 5. Infatti « senza dubbio è meglio resistere a questa passione che cedere » 6. Invece « quella gloria, per amore della quale ardevano, non è altro che la buona opinione degli uomini sopra un uomo. È dunque migliore la virtù che non si contenta della testimonianza degli uomini, ma esige quella della coscienza. Dice infatti l’apostolo: « Nam gloria nostra haec est, testimonium conscientiae nostrae » 7.

Perciò il sentimento vero che S. Agostino prova per i Romani delle grandi epoche, tanto ammirate da Sallustio, da Livio e da Tacito, è una specie di compassione, come per i disgraziati condannati; a compiere un’opera necessaria ma orrenda, quasi si [p. 78 modifica] direbbe per i carnefici della storia. « Essi amarono la gloria ardentissimamente, per la gloria vollero vivere, e per la gloria non esitarono a morire... Stimando vergognoso che la propria patria fosse schiava, e glorioso che dominasse e comandasse, con ogni sforzo vollero prima farla libera e poi sovrana ». « E così era fra le aspirazioni degli uomini illustri per coraggio, che Bellona, agitando la sua frusta sanguinante, eccitasse i miseri popoli alla guerra, perchè vi potesse risplendere il loro valore... E prima per il desiderio di libertà, poi per quello di dominio e di gloria compirono grandi imprese » 8.

Nè è più benigno per l’altra passione figlia dell’amore della gloria: l’ambizione di dominare, regina delle virtù romane, quella che creò e difese l’impero. S. Agostino, infatti, condanna questa qualità del popolo romano, accusandolo di essere dominato dalla libidine di dominare, (« ipsa ei dominandi libido dominatur »). E non cessa mai in tutta l’opera, ogni volta che l’occassione gli si offre, di scapitozzare questa colonna della civiltà romana, sentendo bene che l’ambizione, essendo fra tutte le virtù antiche, la più civile e la meno personale, contra diceva più aspramente che ogni altra tutta la morale cristiana.

« Chi potrebbe dire, egli scrive, quante calamità ha suscitato pel genere umano questa passione di dominio? Vinta da questa passione, Roma godeva di [p. 79 modifica] aver soggiogata Alba, ed accettava sotto il nome di gloria la lode del suo misfatto. Perchè, è detto nella Sacra Scrittura, il peccatore è lodato per i suoi cattivi desideri, ed è benedetto chi commette l’iniquità. Ma togliamo quel belletto fallace, e questi falsi colori, per esaminare sinceramente le cose come stanno. Non mi vengano a dire: il tale è grande perchè ha combattuto con questo e quest’altro ed ha vinto. Combatte il gladiatore, e la sua crudeltà ha un salario di lode. Ma per me è meglio essere disprezzato come un vigliacco, che acquistar la gloria di simile coraggio » 9.

Roma, certo, non avrebbe avuto bisogno di guerreggiare così lungamente, se tutti gli uomini fossero stati d’accordo con S. Agostino, quando osservava, che per il mondo era meglio assoggettarsi senza guerre all’impero Romano: « tanto, dice, per la nostra vita mortale, così breve, che importa all’uomo morituro vivere sotto questo o quell’impero, se non è obbligato da quelli che comandano ad azioni empie od inique? » 10. Ma ha quasi l’aria di dire che i romani hanno rifiutato questo semplice e profittevole mezzo di conquista — la buona volontà dei conquistati — « perchè sarebbe mancato loro la gloria del trionfo! ».

È facile intendere come con questa dottrina della vita, tutta la storiografia antica, anche quella di Sallustio e di Livio, non avesse più nessun senso o [p. 80 modifica] interesse. Che importavano tutte quelle guerre, quelle vittorie, quelle lotte civili, se Dio non c’entrava per nulla, poiché badava solo al risultato, e cioè all’unità dell’impero, come quella che doveva essere la gigantesca culla del redentore? A che serviva ormai la dottrina della corruzione, se le virtù civiche, che Sallustio e Livio opponevano alla corruzione, erano anche esse corruzione e male? E neppure la storia di Tacito, con quella sua sollecitudine della morale personale, poteva attrarre il pensiero cristiano. Dinnanzi a S. Agostino, il quale trova giusto che i buoni ed i cattivi godano e soffrano ugualmente, perchè secondo la dottrina cristiana saranno puniti e premiati con equità nella vita oltre mondana, come grossolana doveva sembrare la giustizia di Tacito, il quale aveva scritto per punire col suo stilo di storico i cattivi ingiustamente felici sulla terra, senza neppure sospettare, che secondo la dottrina cristiana i buoni e i cattivi reagiscono diversamente alle disgrazie e alle fortune. Infatti come « sotto lo stesso fuoco l’oro scintilla e la paglia fumiga... e l’olio e la morchia non si mescolano, quando sono espulse dallo stesso peso del frantoio, così una uguale disgrazia, se piomba sui buoni li prova, li purifica e li fa splendere, sui cattivi li tormenta, li rovina e li stermina! » 11.

Tutti i sentimenti, tutte le istituzioni, tutte le credenze romane sono a poco a poco trasformate ed alterate. La saggezza diventa follia, il bene diventa il [p. 81 modifica] male, quello che era citato ad esempio è ricordato come un obbrobrio oltrepassato per la felicità degli uomini.

Così la morte, che era stata stimata il peggiore dei mali, fuori che quando era affrontata per la difesa della patria, diventa una mèta, il momento desiderabile per l’acquisto della beatitudine perfetta 12. Viceversa il suicidio, considerato sempre un atto di coraggio, si giudica ora una viltà ed una follia, 13 oltreché un peccato mortale. La sepoltura, cerimonia consacrata religiosamente, come la più importante e la più sacra di tutte le funzioni, perchè era legata alla vita ultramondana del morto, ora non è più che una dimostrazione di amore, rispetto al defunto, ed un dovere igienico rispetto ai rimasti. L’Anima, tanto, è superiore ed indifferente al destino del suo corpo e al lusso della sua tomba 14.

La storiografia antica è stata vittima di questo immenso rivolgimento dello spirito del mondo. A poco a poco, a mano a mano che i secoli passavano, l’indifferenza, l’incomprensione e l’ignoranza stesero un immenso mantellone di feltro sul passato e la storia ritornò allo stadio primitivo di molti secoli innanzi. A Carlo Magno, che si faceva leggere e rileggere il De Civitate Dei, le opere di Sallustio, di Tito Livio e di Tacito non potevano insegnare più nulla, dovevano anzi riuscire quasi incomprensibili. Importava [p. 82 modifica] tutt’al più il ricordo dei nudi fatti della storia di Roma, come l’aveva conservato nei primi secoli la annalistica. Le grandi opere di storia sono distrutte; anche dei grandissimi — di Sallustio, di Livio, di Tacito — solo pochi brandelli si salvano; si moltiplicano invece le piccole epitomi. E così quella grande luce intellettuale dell’antichità si ridusse a una piccola fiammella morente, finchè un rivolgimento del pensiero umano non la fece divampare di nuovo. È quella che si può chiamare la risurrezione della storiografia antica.

  1. (1) De Civit. Dei, V, 1 e 10.
  2. (1) De Civit. Dei, V, 12.
  3. (2) De Civit. Dei, XVIII, 22.
  4. (1) De Civit. Dei, V, 13.
  5. (2) De Civit. Dei, V, 13.
  6. (3) De Civit. Dei, V, 14.
  7. (4) De Civit. Dei, V, 12.
  8. (1) De Civit. Dei, I, 1.
  9. (1) De Civit. Dei, III, 14.
  10. (2) De Civit. Dei, V, 17.
  11. (1) De Civit. Dei, I, 8.
  12. (1) De Civit. Dei, I, 11.
  13. (2) De Civit. Dei, I, 17 e 24.
  14. (3) De Civit. Dei, 1, 12.