La Palingenesi di Roma/La Creazione/III. Tito Livio
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III.
TITO LIVIO.
Tito Livio, famigliare di Augusto, e così grato nella casa del principe, che a lui fu affidata l’educazione del futuro imperatore Claudio, figlio di Druso, non ebbe ambizioni politiche, non coprì cariche, e visse da privato, studiando e scrivendo; fu insieme a Virgilio e ad Orazio, il terzo dei tre grandi restauratori, che aiutarono, con la penna, Augusto a ricomporre il mondo romano, disfatto dalle guerre civili. Livio nacque da una famiglia cospicua. Scrisse, come è noto, dialoghi, trattati filosofici, ed una immensa storia di Roma, dalle origini ai tempi suoi, nella quale volle trasfigurare la rudezza dell’annalistica tradizionale, adornandola e vivificandola con il colore, il calore e la pienezza fluente della oratoria greca.
Gli storici moderni sono stati severi con Livio, e non possono approvare il metodo con cui trattò le sue fonti, capriccioso, arbitrario, ed un po’ negligente, almeno alla stregua del nostro zelo nel cercare la verità. Senonchè Livio non vuol cercarla, così come noi l’intendiamo, arrivando alla conoscenza esatta dei fatti, proprio come sono accaduti. Egli vuole dimostrare con la sua storia (e dimostrarla con la rappresentazione viva più che con la rigorosa argomentazione, con il colore più che con l’esattezza, prediligendo il dramma che sembra alla storia che vuole essere vera) una dottrina generale, una visione della vita in cui gli spiriti più alti del tempo credevano e nella quale tutta la storia di Roma entra come un quadro nella cornice: che la ricchezza e la potenza non sono beni ma pericoli; che Roma si è corrotta e guasta a mano a mano che il suo impero è ingrandito; che le generazioni non possono camminare verso la perfezione se non a ritroso della corrente del tempo. È la dottrina della corruzione, quella già mescolata, senza grazia e naturalezza, alla storia di Sallustio, ma ripresa e sviluppata con la grandiosa coerenza necessaria, per dare a un corpo robusto un’anima sostanziale.
« Io vorrei — scrive Livio nel proemio:— che ciascuno tra sè considerasse ansiosamente con l’animo, che vita, che costumi fossero i loro (quelli degli antichi), con quali uomini e con quali arti in pace ed in guerra sia stato fatto e ingrandito l’impero. E come indebolendosi a poco a poco ogni disciplina, prima i costumi quasi tralignassero e poi rovinando sempre di più precipitassero fino a questi tempi, in cui non possiamo sopportare nè i nostri vizi nè i nostri rimedi. E questo è nella conoscenza delle cose sopratutto salutare e fruttifero, che tu studi gli ammaestramenti di tutti gli esempi posti nelle illustri memorie; e di lì impari ciò che devi imitare per te e per la repubblica, e ciò che devi evitare perchè brutto negli inizi e nei risultati... O l’amore della mia opera mi illude, o non fu mai una repubblica più grande, o più saggia, o più ricca di esempi, ove così tardi entrassero l’avidità ed il lusso, ove tanto e così largamente fosse onorata la povertà e la parsimonia, e tale che quanto meno i suoi cittadini possedevano tanto meno desideravano ».
Posto questo proposito, si spiega come, resistendo alla fretta dei suoi lettori, impazienti di arrivare alla storia recente, Livio incominci la sua opera rammentando minutamente le origini favolose di Roma, sebbene, anzi appunto perchè le sa favolose. « Io credo — dice egli ancora nel proemio — che i primi principî e le cose vicine a quei tempi non divertiranno la maggior parte dei miei lettori, parendo loro mill’anni di giungere a queste ultime novità, per cui stanno morendo le forze di quello che fu il più gagliardo popolo del mondo. Ma io voglio invece anche questo come premio della mia fatica, che mentre con tutto l’ardore andrò ripetendo quelle prime cose antiche, allontanerò il mio pensiero dai mali di questa età; e sarò libero da quella preoccupazione, che se non può distogliere dal vero l’animo di chi vive, può però renderlo travagliato. Non è mia intenzione nè confermare nè rifiutare quel che si raccontò sui tempi della fondazione di Roma, sebbene le favole vaghe ci abbondino più che le notizie sicure ».
Non c’è dunque da meravigliarsi se Livio non si è scervellato, come gli storici moderni, per scoprire quella briciola di vero che poteva nascondersi sotto i miti della fondazione di Roma. In quel mondo lontano e solatio, come quello di una leggenda, Livio si riposa delle miserie e delle tragedie contemporanee, che sono tristi, perchè vere; si diverte a giuocare con quegli eroi vestiti di corazze lustrate, e che han l’aria, attardandosi fra Torquato e Bruto, di pensare con tristezza al momento della separazione. Egli non cerca d’infonder in quei personaggi una vita reale, che possa romper l’incanto di quel dolce e quieto artifizio; ma li toglie di peso dalla leggenda, con tutto l’ingenuo ingrandimento proprio del mito, che ammette solo santi o ribaldi; e se per un verso li dipinge così lontani dai moderni, che non è possibile avere neppur un’illusione di vita, dall’altra li veste col linguaggio e i costumi del suo tempo, come i pittori del quattrocento infilavano agli eroi della Bibbia il giustacuore e le calze lunghe. Così, quei soldati sono oratori espertissimi, che hanno certo letto i libri di Cicerone sull’arte del dire, e improvvisano ben composte orazioni, feconde in gradevoli simmetrie ogni volta che capita, e se non capita spontaneamente, lo storico pensa a facilitare l’avvento, una buona occasione — e ognuno capisce che di solennità politiche, religiose o militari ce n’erano fin che se ne voleva. La narrazione cammina sempre sull'orlo della parodia; ma Livio, che è un grande artista, non cade, e procedendo sereno, misurato, lontano dall’amarezza di Sallustio, il quale ricorda gli antichi con irritante pomposità e li adopra, perchè sono ormai intangibili e lontano, a maltrattare inutilmente i moderni, ha invece l’aria di dire che non importa accertare le virtù degli avi, ma che bisogna stimarli in ogni modo così, perchè ogni nazione ha diritto di avere dei padri semi-divini. « Si concede all’antichità il permesso di mescolare le cose umane con le divine, per rendere più venerabili i principi delle città. E se è lecito ad un popolo consacrar le sue origini attribuendole agli dei, la Gloria del popolo Romano nella guerra è così grande, che se egli dice essere Marte il genitore suo e del suo fondatore, le genti umane devono sopportare pazientemente anche questo, come sopportarono d’essere signoreggiate da Roma » 1.
Ma questa età dell’oro non dura; non può durare a lungo. La storia di Livio è stata scritta per dimostrare la tesi, che Roma s’è corrotta ingrandendo. Al prologo degli eroi tien dietro l’età in cui gli uomini, ridotti alle giuste proporzioni, peggiorano a mano a mano che la storia progredisce. Dovremmo quindi entrare nella realtà; ma ci entriamo solo sino ad un certo punto, perchè anche là dove la storia di Livio non è più favolosa, i suoi personaggi fanno talvolta pensare a quei Romani che David dipinse nel « Ratto delle Sabine ». Le figure del quadro infatti, disposte una dietro l’altra, vestite scrupolosamente con le corazze e gli schinieri, sono ordinate, senza che i piani si compongano o fondano in file parallele; le facce hanno una ricercata impersonalità, che rivela l’imitazione delle statue greche; così come nella carne dei corpi, che è stata dipinta con un modello di marmo e vuol arrivare a quell’effetto medesimo di plastica polita.
In Livio si ritrova la stessa stilizzata ricerca del generico. Così che componendo, a grandi tratti, il carattere della professione e della carica, egli vi introduce poi volta a volta i suoi uomini e fa che essi ne rivestano, con le insegne esterne, anche le doti morali e intellettuali, come, entrando in una stanza ove un gioco di sole sulle persiane l’abbia bagnala tutta di luce verde, la gente è colorata di verde. Così abbiamo il tipo del generale, il tipo del senatore, il tipo del tribuno, mentre la classificazione dei buoni e dei cattivi, più larga, comprende tutte l’altre classificazioni minori. Ma che differenza c’è fra Manlio Torquato e Paolo Emilio, il primo agli inizi e il secondo al termine della storia; se rispetto a ogni circostanza si comportano allo stesso modo, come se seguissero un protocollo?
Noi non possiamo dire se questa attitudine a generalizzare il tipo, piuttosto che ad individuare i singoli, fosse comune a tutta l’opera di Livio, o non piuttosto si ritrovasse soltanto nella parte più antica della sua storia, quella a cui appartengono i libri giunti fino a noi e che tratta i tempi in cui gli stampi della tradizione e del costume erano più forti e gli uomini fatti tutti secondo pochi modelli. Forse, se potessimo leggere i libri, in cui si raccontavano i tempi di Silla e di Cesare — pieni di rivoluzioni, e più ricchi di tempre singolari — vedremmo in quelli un maggior rilievo di uomini meno simbolici. Ma nei libri che possediamo i personaggi sono come li abbiamo descritti. E poiché gli avvenimenti procedono in modo già prestabilito dagli Dei, la storia apparisce quasi una enumerazione di battaglie e di lotte politiche, sommate le une alle altre in ordine di tempo come una montagna di pietre, e tutte così simili, che non si distinguono a colpo. Non sembra che l’intelligenza degli uomini possa influire su questo corso preordinato dagli eventi: caso mai, contano di più le virtù e lo zelo religioso, che gli Dei ricompensano con la vittoria. Dobbiamo dunque concludere che Livio è uno storico freddo e senz’anima?
No, Livio è uno storico vivo, anche se i suoi eroi spesso non sono tali, perchè con quella sua attitudine a descrivere il tipo più che il singolo, riesce come nessuno a far muovere le folle. Per questo, se non è riuscito a vivificare i grandi Romani, è riuscito invece a rappresentare il popolo romano. Il vero protagonista della sua storia è il popolo romano: personaggio enorme, che occupa tutta la scena, e non si compone di tanti singoli ben distinti, così da essere la somma dei loro caratteri comuni; ma appare come un ente nel tempo stesso umano e sovrumano, da cui loro caratteri particolari, come uomini che attingono acqua ad una fontana. In questa potentissima personificazione del popolo romano sta il fascino incomparabile della storia di Livio; perchè questa personificazione è riuscita ad essere nel tempo stesso di un alto ideale e di un’efficace verità.
Il popolo romano, in Livio, si presenta da proncipio come una generalizzazione di Appio Claudio; sprezzante le fatiche, giorno e notte corazzato per ogni battaglia, indifferente alla morte e valoroso in guerra, semplice di costumi, laborioso in pace, ambizioso di gloria, scrupoloso di verità, ligio alla fede data, ossequiente dinnanzi alla Giustizia che lo governa per mezzo di tante leggi, devoto alle Divinità, che ne ricompensano lo zelo facendolo oggetto di un favore priviligiato. Religione, patria, lavoro, obbedienza alle leggi, spirito di sacrificio, sono le virtù che rifulgono in fondo ai secoli dalla sua vita privata e pubblica. La storia non ha mai visto una luce più intensa. Lo scrupolo della verità e della giustizia, che fra tutte le qualità dei romani è la più coltivata, ha l’aria di resistere in loro, anche quando le circostanze offrono, senza pericoli, allettanti transazioni. Bisogna vedere che importanza ha un giuramento fatto al nemico: e con quali tortuose invenzioni i Romani cercano di svincolarsi senza disonore da queste promesse! Uno dei prigionieri di Annibale, quando furon mandati in commissione a Roma, per trattare del riscatto, col giuramento di tornare, appena uscito dal campo ritornò indietro, toccò le palizzate e si riunì ai compagni, sperando di essere con questo libero da ogni impegno. Ma fu rimandato ai Cartaginesi. Anche le cattive azioni di questo Popolo devono esser compite rispettando rigorosamente la legalità, ossia rendendo omaggio al principio che quella tale azione non deve essere compiuta perchè illecita.
Ora, siccome un popolo di questo stampo non è mai esistito, Livio avrebbe l’aria di dipingere in lui uno di quegli eroi puritani, che vivono solo nelle leggende; così che le gesta di questo popolo immaginario formerebbero un poema, più che una storia. Senonchè, anche in mezzo al racconto delle età più antiche e leggendarie, qualche tratto verace fa intravedere nell’eroe sovrumano un po’ di triste umanità. Così, sulla bocca del Sannita, si sente forse la voce dello storico, che riconosce nei grandi eroi il fango per cui si riattaccano gli uomini.
« Voi deste gli ostaggi a Porsenna e col furto li avete ripresi; ricompraste dai Galli le città con l’oro, e sono stati trucidati mentre prendevano l’oro. Ci avete promesso la pace, per ottenere le legioni prigioniere e ora la fate vana; e compite sempre ogni frode sotto apparenze di giustizia »2.
Senonchè anche nella figurazione del popolo romano si osserva quello che già vedemmo nelle figure degli eroi; così che essa si fa più umana, di pari passo col procedere della storia. Che la dottrina della corruzione, fondamento di tutta la storia di Livio, sia filosoficamente vera, è riprovato per via indiretta dalla vivacità di cui si anima la storia di Livio, a mano a mano che questa dottrina domina e quasi guida la narrazione. Pur conservando una certa nobiltà ideale, il popolo romano si fa vivo a mano a mano che i difetti della ricchezza e della potenza escono dall’ombra dell’antichità incorrotta: l’indisciplina, la cupidigia, l’amore del lusso e dei piaceri, la gola e la sensualità, l’egoismo, l’invidia sopratutto, che distrugge Roma con la guerra intestina delle ambizioni e delle cupidige insoddisfatte.
« Qui si tratta della fama dei soldati, anzi universalmente di tutto il popolo romano »3, dice Servilio rampognando i soldati che si oppongono al trionfo di Lucio Paolo, « perchè il popolo romano non abbia fama di invidioso ed ingrato contro tutti i suoi più illustri cittadini, e non sembri con questo imitare il popolo Ateniese, solito a perseguitare con l’invidia i migliori. Abbastanza si peccò contro Camillo, il quale almeno fu offeso prima di aver riconquistato la città dai Galli. Abbastanza contro Scipione Africano. A Linterno si trova la casa del vincitore dell’Africa; e Linterno ostenta il suo sepolcro. Vergogniamoci se L. Paolo, uguale per gloria a tali uomini, sia loro uguagliato anche per l’ingiurie vostre. Cancelliamo finalmente questa nostra mala fama, sozza e vilipesa presso le altre genti e dannosa presso di noi. » Chi non riconosce qui l’eterna malignità della democrazia? Così gli idillici rapporti fra il senato concepito come un « consesso di Re » e la plebe, sui primordi obbediente carne da macello, sempre pronta per il mattatoio delle battaglie, si fanno a poco a poco torbidi e violenti; quella docile moltitudine di cittadini-eroi diventa tumultuosa, sediziosa; accecata dai propri interessi non vede più quelli della comunità; si lascia trascinare dal più ignobile dei demagoghi e non ascolta le parole dei saggi e dei grandi; passa da un accesso di furore oceanico in cui pretende rivendicazioni — anche giuste — coi mezzi più rivoluzionari, ad uno stato di indifferente incoscienza e di fatalistica sopportazione quando è vessata da un regime sanguinario, ingiusto e terroristico.
E il Senato perde, se si comincia a passeggiare fra i rostri e a conversare sotto le colonne, quella regale apparenza che presentava agli occhi di Cinna. Si vede una moltitudine di patrizi, pieni di pregiudizi e di altezzosità, egoisti, che si preoccupano di Roma, per quel che riguarda la loro classe e i loro interessi, ma non hanno nessun pensiero per i Romani, come se Roma e i Romani fossero due cose distinte. E le gelosie e le diffidenze reciproche alterano il loro retto giudizio, e li spingono a operare, in ogni occasione, per secondi fini.
« Si stabilì un patto con gli Ernici, si tolsero due parti del territorio, e una metà fu data ai Latini, e l’altra il Console Cassio voleva dividerla fra la Plebe. Aggiungeva a questo dono alcune terre le quali, essendo pubbliche, egli biasimava che fossero di privati. E questo spaventò molti senatori che ne eran possessori, e vedevano in pericolo le cose loro. Ma erano ancor più inquieti perchè il Console con queste largizioni si acquistava una potenza pericolosa alla libertà. »4
Così la grandezza romana, idealizzata tutta insieme come una meraviglia sovrumana, ci apparisce umanissima nei singoli elementi di bene e di male, che la compongono. Questa è nel tempo stesso la grande bellezza e la profonda verità dell’opera di Livio, alle quali corrisponde mirabilmente lo stile. Lo stile di Livio è veramente come un fiume immenso dalla corrente tranquilla, che scende dal monte sicuro di arrivare alla foce, trasportando una mescolanza di cose diverse. Nei momenti solenni, o tragici, è maestoso e lento, quasi per trattenere il respiro a chi legge e non accontentarlo nella sua impazienza con piccole frasi rapide; alle volte perde la sua serenità olimpica, si commuove, si agita come uno stagno in cui sia piombato un macigno; ma la chiusa degli avvenimenti è spesso composta con poche frasi corte e succosissime, che appaiono più potenti che mai, appunto perchè, con grande arte, son collocate dopo un periodare ampio e fertile, in cui le frasi tendono la mano una all’altra e si allacciano con rotonda scorrevolezza. In tal modo i due ritmi si sostengono e si analizzano a vicenda: il primo mette in rilievo quella stringatezza del secondo, che, dopo un capitolo di Tacito, non sarebbe neppure avvertita; il secondo drammatizza lo stile per quel variare improvviso di tono, che sorprende, e ci fa sentire come il primo ritmo fosse armoniosamente pieno.