La Palingenesi di Roma/La Creazione/II. Sallustio
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II.
SALLUSTIO.
Di Sallustio, purtroppo, l’opera principale, le Historiae, è perduta. Le due opere minori che ci restano, la Giugurtina e la Catilinaria, figlie della passione più volubile e passeggera, la passione di parte, non sono storie, sia pure più o meno imparziali; ma piuttosto veementi libelli politici, nei quali l’amico e l'ammiratore di Cesare, sfoga i suoi tenaci rancori contro la consorteria di Silla, contro il Senato, e contro la vecchia nobiltà che aveva avversato così fieramente il conquistatore delle Gallie. Le due monografie sono state scritte con scopi precisi: la Giugurtina per dimostrare che il Senato era stato corrotto da Giugurta nel famoso affare della Numidia, il che, poco verosimile in sè, risulta falso dalla stessa narrazione di Sallustio 1; la Catilinaria per dimostrare che la celebre congiura era stata macchinata dagli avanzi del partito di Silla: ritorsione in parte vera, ma non immune da esagerazione, contro quelli che l’imputavano a Cesare e ai suoi amici.
Su due opere minori soltanto, di polemica più che di vera storia, dobbiamo giudicare Sallustio; ma poiché sono innanzi tutto due opere d’arte, senza meraviglia poniamo, nella storia della storiografia romana, Sallustio come il primo storico romano, di cui ci resti qualche opera, che sia stato sin dall’antichità e giustamente considerato un grande scrittore. La sua brevità ora lodata, ora biasimata, già celebre presso gli antichi, tanto che fu ricordata tra gli altri da Seneca (« obscura brevitas ») e da Quintiliano (« vitanda illa Sallustiana brevitas »), e la sua abitudine di collezionare arcaismi, adoprandoli a fare una tessitura preziosa e ricercata di prosa, in cui si sente il compiacimento dell’autore, che, quando si rileggeva, doveva divertirsi a certi effetti di simmetria e alle trovate architettoniche delle frasi ben composte, lascia trasparire una preoccupazione stilistica, che è del tutto nuova, e riesce bene, se non cade nell’artificio.
«Sallustio — scrive un francese, che aveva profondo il senso della bellezza letteraria2 — non cerca tanto di far conoscere i fatti, quanto di ostentare il suo ingegno, e ambisce più la lode che l’istruzione del lettore. Si diverte ogni momento a trovare delle antitesi riuscite, delle frasi simmetriche, delle metafore e delle rassomiglianze. Quando i congiurati stanno per essere condannati a morte, ferma il racconto e comincia a paragonare Cesare con Catone, contrapponendo a una a una le loro qualità, a membro a membro i periodi, con una straordinaria veracità e profondità di vedute; tanto che sarebbe uno scrittore ammirabile se non cercasse troppo di farsi ammirare. Le frasi corrono con gran velocità, a una a una, non più raggruppate in battaglioni compatti, e lo spirito è lanciato come su una china. Ma si sente la maniera, perchè la tecnica è invariata: quando incontra un assedio, una battaglia, una spedizione, un’azione qualsiasi, Sallustio scocca una grandine di frasine concise, ugualmente costrutte ».
Ma che forza, non ostante questo difetto! « Il suo stile cammina con una certa indifferenza sdegnosa; è stringato come quello di Tacito, pur essendo meno faticoso; è ricco come quello di Livio, ma è anche più sobrio. « En arrivant au bout d’une phrase, on est parfois frappé comme d’un coup subit; ce sont deux mots simples qui, par un rapprochement nouveau, ont pris un sens accablant »3. Metafore audaci, nascoste in un verbo, illuminano tutta un’idea. E poi una lunga e furiosa passione chiusa in una parola, una mescolanza di famigliarità, di poesia, di eloquenza, e sopratutto quegli sbalzi bruschi e potenti d’invenzione originale che piacciono più della perfezione liscia: il dono della creazione ».
Ma Sallustio non è soltanto un grande stilista; è anche un moralista ed un filosofo, il quale nella storia vuol ritrovare i segreti della fortuna, i piani del destino, le profonde lezioni della vita; tanto che la sua narrazione, sorretta da una concezione generale del mondo, come da una intelaiatura, mira a un alto fine morale. Siamo usciti con lui dalla scarna annalistica per entrare nel pieno splendore del genere oratorio. Senonchè ci siamo entrati un po’ bruscamente. Non è possibile non avvertire in Sallustio — ed è uno dei suoi difetti maggiori, pur non essendo un difetto scevro di grandezza e nobiltà — una sproporzione tra il fine e i mezzi, tra l’intelaiatura e la tela: fine ed intelaiatura troppo grandi per i mezzi e per la tela troppo piccoli.
« Io credo che poiché ho deciso di vivere lontano dagli affari pubblici — scrive nella prefazione della Giugurtina — questa mia grande ed utile fatica sarà chiamata pigrizia da coloro ai quali pare somma attività andare mendicando il favore della plebe coi banchetti. E se essi penseranno in che tempo entrai nelle magistrature, e che uomini ne siano stati esclusi, e siano arrivati al Senato, conchiuderanno certamente che io per ragione e non per pigrizia ho cambiato parere, e che alla Repubblica verrà maggior bene dal mio riposo che dalla attività di costoro. Perciò io ho spesso udito che Q. Massimo e P. Scipione ed altri uomini illustri, eran soliti dire che quando guardavano le immagini dei loro maggiori, l’animo loro si accendeva di grande coraggio ». Chi non potrebbe lodare questo fine nobilissimo? Ma per assolverlo, non basta raccontare in forma elegante e bella una guerricciola memorabile, invece che per la gloria delle armi, per gli odi e i puntigli delle fazioni, che senza scrupoli ferirono, pur di ferirsi l’un l’altra, financo il corpo della Repubblica ».
Con la storia di Catilina, Sallustio assunse il compito di mostrare che nei tempi antichi « in pace e in guerra si coltivavano i buoni costumi: e massima era la concordia, minima l’avidità; e il diritto e il bene eran forti più per la loro natura che per le leggi; e le brighe, le discordie e gli odi si riservavano ai nemici, mentre i cittadini coi cittadini gareggiavano di virtù. Magnifici nell’onorare gli dei, parchi in casa, fedeli cogli amici. Con due arti, il coraggio in guerra e l’equità in pace, governavano sè medesimi e la repubblica. » 4 Poi «il destino incominciò ad incrudelire e rivoltò tutte le cose» 5. Ritroviamo qui — a far da cornice al quadro — quella dottrina della corruzione dei costumi, opposta alla nostra fede nel progresso indefinito del genere umano, ma famigliare invece al pensiero antico. Senonchè la cornice è troppo vasta per il piccolo quadro in cui è dipinto il tumulto, più clamoroso che pericoloso, suscitato, nella repubblica, da Catilina. Cosicché non possiamo dar torto a Quintiliano quando dice che « Sallustio nella Catilinaria e nella Giugurtina ci conduce all’una ed all’altra guerra, con dei proemi che sembrano non aver che fare con il soggetto », e dobbiamo riconoscere che le sue dissertazioni qualche volta sono un po’ lunghe e gonfie, le sue digressioni talora appiccicaticce e fuori di posto. Se le Historiae si fossero conservate, non avrebbero, forse, rivelato così ingenuamente questi difetti, perchè in quella vasta storia di tutta un’età, la cornice poteva essere adeguata al quadro. Ma sia colpa del caso, che ci ha fatto conoscere soltanto il Sallustio minore, o difetto inerente alla mente dello scrittore, cui mancasse un po’ quella virtù così difficile che è l’equilibrio, per trovare uno storico in cui la cornice ed il quadro, la visione della vita ed il soggetto, la materia e la forma si proporzionino, dobbiamo giungere a Tito Livio.