La Nascita della Tragedia/Capitolo XXIII
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo XXII | Capitolo XXIV | ► |
Capitolo XXIII.
Chi voglia provare proprio con precisione sopra sé medesimo, se e in qual grado è affine al vero ascoltatore estetico, oppure se non fa parte della società degli uomini socratico-critici, non deve far altro, che domandarsi coscienziosamente qual’è la vera sensazione suscitata nel suo animo dal prodigio rappresentato sulla scena: se, cioè, egli non ne senta offeso il suo senso storico guidato dalla rigida causalità psicologica, oppure se non fa, per così dire, una benevola concessione al prodigio, come a un fenomeno comprensibile nella fanciullezza ma a lui ormai divenuto estraneo, oppure se non prova, comunque, qualcosa d’altro. Da questo, insorama, egli può misurare fino a qual segno è capace di comprendere il mito, cotesto simbolo riassuntivo dell’universo, il quale, come compendio del mondo fenomenico, non può far di meno del prodigioso. Ma è verosimile, che quasi tutti, esaminando rigorosamente sé stessi, si sentano talmente disgregati dallo spirito critico-storico della nostra cultura, che non sanno più concepire come credibile l’esistenza del mito, quale fu un tempo, se non per la via erudita, per mezzo di astrazioni. Se non che, tolto il mito, ogni cultura va spoglia della sua sana e naturale energia creatrice; solamente un orizzonte cosparso di miti raccoglie nell’unità un intero movimento di cultura. Solo il mito salva tutte le forze della fantasia e del sogno apollineo dal loro vagabondare senza direzione. Bisogna che le immagini del mito siano i non visti e onnipresenti spiriti indigeti, sotto la cui egida crescono le giovani anime, e al cui segno l’uomo maturo comprende la propria vita e le proprie lotte; e anche lo stato non conosce leggi non scritte più potenti degl’istituti mitici, che garantiscono il suo rapporto con la religione, la sua provenienza dalle rappresentazioni mitiche.
Proviamo ora, invece, a contrapporre a ciò l’uomo astratto, non guidato dai miti, l’educazione astratta, i costumi astratti, il diritto astratto, lo stato astratto; rappresentiamoci il vagamento sregolato della fantasia artistica, non frenato da alcun mito ad essa familiare; figuriamoci una cultura, che non ha una sede originaria, fissa e sacra, ma che è condannata a sfruttare tutti i rinfranchi e a nutrirsi miserabilmente di tutte le culture: ebbene è proprio questo il presente, quale risulta da quel socratismo che mirò all'esterminazione del mito. Ed ecco l’uomo senza miti, eternamente in fame tra le reliquie del passato, affaticarsi a scavare e frugare tra le radici, sia pur che gli tocchi di andarle rintracciando nelle più remote antichità. Che cosa mai vuol dire l’enorme bisogno storico dell’insaziabile cultura moderna, la raccolta d’innumerevoli altre culture, la divorante brama di conoscenza, se non la perdita del mito, la perdita della patria mitica, del mitico seno materno? Si dubiti pure, se il movimento febbrile e tanto sinistro di questa cultura sia qualcos’altro che l’avidità dell’affamato che allunga la mano e ghermisce l’alimento; ma chi vorrebbe dare ancora una briciola a una siffatta cultura, che di quanto inghiotte non è mai satolla, e al cui tocco il nutrimento più sostanzioso e salubre usa cangiarsi in «Storia e Critica»?
Si dovrebbe, con dolore, disperare anche della nostra vita tedesca, se il popolo tedesco si fosse già fuso indissolubilmente con la sua cultura, fosse divenuto uno con essa, nella stessa guisa come è avvenuto e, con nostro spavento, possiamo osservarlo nella incivilita Francia. E quello stesso fatto che per tanto tempo ha costituito il grande vantaggio della Francia, ed è stato la ragione della sua enorme supremazia, cioè appunto cotesta unificazione di popolo e cultura, dovrebbe in questo momento indurci ad apprezzare la fortuna, che questa nostra tanto problematica cultura non ha fino a oggi nulla di comune con l’intima e nobile essenza del carattere del nostro popolo. Tutte le nostre speranze si movono anzi con passione nostalgica verso la certezza, che sotto i flutti agitati di questa vita di cultura e i sussulti di questa educazione si celi una magnifica forza originaria, intimamente sana, la quale, invero, si solleva gagliarda solo nelle ore dei portenti, e poi ricade torpida, a risognare un futuro risveglio. Fuori di cotesto abisso balzò la Riforma germanica, e nei corali della Riforma echeggiarono la prima volta le armonie germaniche della musica dell’avvenire. Il corale di Lutero risonò profondo, ardimentoso, sgorgato dall’anima, infinitamente umano e soave, così come il primo richiamo dionisiaco che traversò i folti del bosco rinascente all’approssimarsi della primavera. Gli rispose a gara il frastuono del festoso corteo sacramente protervo di quei tripudiatori dionisiaci, ai quali noi dobbiamo la musica tedesca, ai quali noi dovremo la rinascita del mito germanico!
So bene, che ora mi spetta di condurre il lettore, che mi segue con interesse, in cima a un luogo di meditazione romita, dove non avrà più di pochi compagni; e ve lo chiamo animosamente, perché abbiamo per appoggio le nostre splendide guide, i greci. Al fine di depurare la nostra conoscenza estetica, noi finora abbiamo mutuato da loro quelle due divine immagini, di cui ciascuna domina un mondo artistico a parte, e del cui reciproco rapporto e rafforzamento ci ha dato sentore lo studio d’iniziazione nei segreti della tragedia greca. Il dichino della tragedia greca doveva rivelarcisi come l’effetto di un notevole disgiungimento dei due istinti artistici primordiali; evento, il quale procedeva talmente d’accordo con la degenerazione e la trasformazione del carattere popolare greco, da indurci a gravi meditazioni, onde risulta, che nei loro elementi fondamentali l’arte e il popolo, il mito e il costume, la tragedia e lo stato sono necessariamente e strettamente cresciuti a un’unica crescenza. Il tramonto della tragedia fu nello stesso tempo il tramonto del mito. Fino allora i greci erano involontariamente costretti a riconnettere coi loro miti tutta la vita vissuta, anzi a non potersela spiegare se non per mezzo di cotesta riconnessione; di guisa che anche il prossimo presente doveva affacciarsi repentinamente ai loro occhi sub specie eterni e, in un certo senso, come non contenuto dal tempo. E nell’onda di questo fiume senza tempo s’immergeva altrettanto lo stato che l’arte, per trovarvi riposo alla gravezza e alla brama del momento. E un popolo, come, del resto, anche un uomo, solo di tanto vale, di quanto sa imprimere sugli eventi della sua vita il sigillo dell’eterno; giacché solo così egli si pone, a mo’ di dire, fuori del mondo, e mostra la sua inconscia intima persuasione della relatività del tempo e del significato vero, val quanto dire metafisico, della vita. Accade invece l’opposto, quando un popolo principia col concepirsi storicamente e con rabbattere intorno a sé i baluardi mitici; concezione storica di sé stesso, con la quale solitamente si connette un processo di decisa moudanizzazione, un distacco violento dall’inconscia metafisica della sua esistenza primitiva, con tutte le rispettive conseguenze etiche. L’arte greca, e principalmente la tragedia greca, ritardò la fine del mito: e prima di arrivare a vivere schiantati dal patrio terreno, sfrenati nella selvatichezza del pensiero, del costume e dell’azione, gli uomini doverono distruggerli tutti. Pure, cotesto istinto metafisico si sforza anche adesso di procurarsi una forma, sebbene svigorita, di trasfigurazione nel socratismo della scienza inculcante a vivere; solo che nei più bassi gradi sociali tale istinto menò a una cerca febbrile, che a poco a poco si smarrì in un pandemonio di miti e superstizioni raccattati da tutte le parti. E in mezzo al pandemonio s’indugiò il greco con l’anima inappagata, finché non si volse, come greculo, a mascherare la febbre con la serenità greca e con la leggerezza greca, oppure non s’intorpidl completamente in qualche cupa credenza orientale.
Fin dal tempo della rinascita dell’antichità alessandrino-romana nel quindicesimo secolo, dopo un intermezzo difficile a descriversi, noi ci siamo raccostati a quello stato d’animo nel modo più singolare. Sulla cima, la stessa smodata brama di sapere, lo stesso gusto insaziabile della scoperta, la stessa enorme mondanizzazione, e, insieme, un vagabondare senza patria, un affollarsi avidamente intorno alle tavole straniere, una frivola apoteosi del presente oppure uno stupido e torpido distacco, tutto e sempre sub specie saeculi, dall’«oggigiorno»: sintomi, la cui somiglianza fa indovinare una consimile mancanza nell’anima di questa cultura, vale a dire la distruzione del mito. Sembra quasi impossibile trapiantare con esito duraturo un mito straniero, senza ledere sacrilegamente l’albero in tale trapiantagione: può darsi talvolta, che l’albero sia abbastanza forte e sano per espellere in una lotta formidabile l’elemento straniero; consuetamente però è condannato a languire stento e triste, oppure ad esaurirsi in un morboso rigoglio. Noi serbiamo tanta parte del seme puro e vigoroso dello spirito tedesco, che osiamo attenderci da lui l’espulsione degli elementi stranieri violentemente sovrapposti, anzi stimiamo possibile che lo spirito tedesco torni a raccogliersi nella coscienza di sé stesso. Taluno forse opinerà, che lo spirito tedesco abbia ad intraprendere la lotta con l’espulsione dell’elemento romanico; e potrebbe anzi ravvisarne la preparazione esteriore e la predisposizione nella vittoriosa bravura e nella gloria sanguinosa dell’ultima guerra; ma bisogna invece rinvenirne l’intima necessità nello zelo di emulazione, nel dovere di serbarsi degni dei nobili precursori, di Lutero non meno che dei nostri grandi artisti e poeti. Ma nessuno creda mai, che tali lotte possano combattersi senza i propri iddii familiari, senza la propria patria mitica, senza un «ripristinamento» di tutto ciò che è tedesco! E se il tedesco dovesse mai guardarsi intorno perplesso, in cerca della guida che lo riconduca nella patria da troppo tempo perduta, e di cui riconosce appena le vie e i sentieri, ebbene, si tenga allora in ascolto, al richiamo irresistibile e felice dell’uccello dionisiaco che vola sul suo capo, e gl’indicherà il cammino.