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202 capitolo ventitreesimo


il costume, la tragedia e lo stato sono necessariamente e strettamente cresciuti a un’unica crescenza. Il tramonto della tragedia fu nello stesso tempo il tramonto del mito. Fino allora i greci erano involontariamente costretti a riconnettere coi loro miti tutta la vita vissuta, anzi a non potersela spiegare se non per mezzo di cotesta riconnessione; di guisa che anche il prossimo presente doveva affacciarsi repentinamente ai loro occhi sub specie eterni e, in un certo senso, come non contenuto dal tempo. E nell’onda di questo fiume senza tempo s’immergeva altrettanto lo stato che l’arte, per trovarvi riposo alla gravezza e alla brama del momento. E un popolo, come, del resto, anche un uomo, solo di tanto vale, di quanto sa imprimere sugli eventi della sua vita il sigillo dell’eterno; giacché solo così egli si pone, a mo’ di dire, fuori del mondo, e mostra la sua inconscia intima persuasione della relatività del tempo e del significato vero, val quanto dire metafisico, della vita. Accade invece l’opposto, quando un popolo principia col concepirsi storicamente e con rabbattere intorno a sé i baluardi mitici; concezione storica di sé stesso, con la quale solitamente si connette un processo di decisa moudanizzazione, un distacco violento dall’inconscia metafisica della sua esistenza primitiva, con tutte le rispettive conseguenze etiche. L’arte greca, e principalmente la tragedia greca, ritardò la fine del mito: e prima di arrivare a vivere schiantati dal patrio terreno, sfrenati nella selvatichezza del pensiero, del costume e del-