La Nascita della Tragedia/Capitolo XXIV
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Capitolo XXIV.
Tra i peculiari effetti artistici della tragedia musicale abbiamo posta in rilievo una illusione apollinea, la quale ci salva dal sommergerci in una immediata unificazione con la musica dionisiaca, porgendo alla nostra concitazione musicale il modo di alleviarsi nella calma di un dominio apollineo, nella mediazione di un mondo visibile sorto a spettacolo. In tal modo abbiamo creduto di porre in evidenza, che, appunto in virtù di cotesto alleviamento, il mondo intermedio dell’azione scenica, ossia il dramma in generale, venga reso visibile e comprensibile dall’interno all’esterno in tal grado, quale non era possibile che fosse raggiunto da tutta la precedente arte apollinea; cosicché abbiamo dovuto riconoscere che nel dramma, in cui quest'arte è, per così dire, afferrata e trasportata in alto dallo spirito della musica, avviene la suprema elevazione delle sue forze, e quindi nella fratellanza di Apollo e di Dioniso toccano il fastigio i fini artistici tanto apollinei che dionisiaci.
Certo, la luminosa immagine apollinea non raggiunse, appunto in virtù stessa della luce interiore arrecatale dalla musica, l’effetto specifico del grado meno intenso dell’arte apollinea; vale a dire, non era dato conseguire col dramma nonostante la maggiore animazione ed evidenza che gli sono proprie, la potenza caratteristica dell’epos e della pietra animata, quella, cioè, di avvincere lo sguardo dell’osservatore e immergerlo nel tranquillo incanto del mondo dell’individuatio. Noi abbiamo osservato il dramma, e con occhio acuto abbiamo penetrato l’intimo mondo commosso dei suoi motivi; nulladimeno ci è capitato come se ci stendesse davanti non più che una allegoria, di cui credevamo quasi d’indovinare il senso più profondo, e che desideravamo di sollevare come una cortina, per scoprire dietro a quella l’immagine primitiva. La più limpida chiarezza dell’immagine non ci bastava; giacché ci pareva che questa altrettanto ci svelasse qualche cosa, quanto ce la velasse; e mentre con la sua rivelazione simbolica sembrava invitarci a strappare il velo, a scoprire lo sfondo misterioso, ecco che precisamente quella vistosità rischiarata da tutte le parti tornava a fermare l’occhio e lo tratteneva dal penetrare più addentro.
Chi non lo ha provato, chi non ha provato come si possa nello stesso tempo guardare una cosa e, insieme, anelare a spingersi di là dalla cosa guardata, difficilmente intenderà con quale precisione e chiarezza questi due processi si svolgono l’uno accanto all’altro e sono sentiti l’uno accanto all’altro quando si assiste allo spettacolo del mito tragico; laddove invece gli spettatori veramente estetici mi confermeranno, che tra gli effetti caratteristici della tragedia il più singolare è appunto cotesto doppio processo. Si trasporti ora, in un analogo processo, all’artista tragico questo fenomeno proprio dello spettatore estetico, e s’intenderà la genesi del mito tragico. Egli partecipa col mondo artistico apollineo la piena gioia dell’apparenza e della visione, e, nello stesso tempo, rinnega tale gioia, e prova un appagamento anche più alto nell’annichilazione del mondo visibile dell’apparenza. Il contenuto del mito tragico è innanzi tutto un avvenimento epico in cui si ha la glorificazione dell’eroe in lotta; ma donde nasce quella voga per sé stessa inesplicabile, per cui il patimento nel destino dell’eroe, le più strazianti soggiogazioni, i più angosciosi contrasti di motivi, in una parola, l’esemplificazione della saggezza di Sileno o, per dirla esteticamente, il brutto e il disarmonico vengono sempre ripresentati in così innumerevoli forme, con tanta predilezione, e proprio nell’età più esuberante e più giovanile di un popolo; donde nasce, se non dalla gioia superiore che si prova da tutto cotesto tumulto di sentimenti?
Giacché ciò che effettivamente avviene di tragico nella vita sarebbe il meno atto a spiegare l’origine di una forma artistica; essendo vero, all’opposto, che l’arte non è meramente un'imitazione della realtà naturale, sibbene per l’appunto un supplemento della realtà naturale postole accanto per superarla. Il mito tragico, in quanto appartiene essenzialmente all’arte, partecipa interamente a questo fine metafisico di trasfigurazione proprio dell’arte; ma che cosa mai esso trasfigura, quando presenta il mondo fenomenico sotto la figura dell’eroe che soffre? Trasfigura per lo meno la «realtà» del mondo fenomenico, giacché ci dice appunto: «Guardate! guardate a fondo! È questa la vostra vita! È questa la lancetta sull’orologio della vostra esistenza!».
Il mito, adunque, ci ha mostrato questa vita per trasfigurarcela agli occhi dell’anima? Ma se così non fosse, dove consisterebbe il godimento estetico, col quale noi assistiamo al passaggio di quelle immagini? Io mi occupo del godimento estetico, ma so bene, che molte di queste immagini possono, insieme, suscitare un diletto morale, sia sotto la forma della compassione, che di un trionfo della moralità. Chi però intendesse di derivare l’effetto del tragico esclusivamente da coteste fonti morali, come, a dire il vero, si è usato troppo a lungo nell’estetica, non dovrebbe però figurarsi di aver fatto, per questa via, qualcosa a vantaggio dell’arte: la quale invece esige soprattutto, nel suo dominio, la purezza assoluta. La prima esigenza imposta dalla spiegazione del mito tragico è precisamente quella di cercare il godimento che gli è proprio nella sfera puramente estetica, senza intrusioni ed usurpazioni nel campo della compassione, del terrore, del sublime morale. Come mai il brutto e il disarmonico, che è il contenuto del mito tragico, può suscitare un godimento estetico?
Qui è d’uopo lanciarci in un’ardita incursione nella metafisica dell’arte, e riprendere la tesi da me dianzi sostenuta, che l’esistenza e il mondo non appaiono giustificati altrimenti, che come fenomeno estetico: nel qual senso, precisamente il mito tragico ci ha inculcato la persuasione, che anche il brutto e il disarmonico sono un gioco estetico, che la volontà gioca con sé stessa nell’eterna pienezza del proprio godimento. Solo che questo fenomeno primordiale, difficile a comprendersi, dell’arte dionisiaca, diviene unicamente intelligibile per via diretta ed è immediatamente capito nella meravigliosa significazione della dissonanza musicale; come pure soltanto la musica, raffrontata col mondo, può dare un’idea di ciò che bisogna intendere per «giustificazione del mondo come fenomeno estetico». Il godimento prodotto dal mito tragico nasce a un solo parto con la gioiosa sensazione della dissonanza nella musica. Il senso dionisiaco, col suo piacere primordiale percepito anche nel dolore, è l’alvo comune alla musica e al mito tragico.
Forse che, ricorrendo all’aiuto offertoci dal rapporto musicale della dissonanza, non ne viene essenzialmente agevolata la comprensione dell’arduo problema dell’effetto tragico? Pure, noi adesso comprendiamo che cosa significa nella tragedia la voglia di vedere e, nello stesso tempo, l’ansia di penetrare di là da ciò che si vede: che è uno stato d’animo, che, rispetto alla dissonanza adoperata a scopo artistico, avremmo dovuto appunto caratterizzare come un desiderio di ascoltare e, insieme, di trasportarci di là dall’ascoltazione. Cotesta anelanza all’infinito, cotesto colpo d’ala della nostalgia nell’istante stesso della gioia suprema provata alla chiara visione della realtà, ci dicono appunto, che nell’uno e nell’altro caso dobbiamo riconoscere un fenomeno dionisiaco, il quale sempre e in ogni cosa ci rivela il gioco di costruzione e di distruzione del mondo della individualità come lo sfogo di un piacere primordiale, nella stessa guisa come la forza creatrice del mondo viene assomigliata da Eraclito l’Oscuro al ghiribizzo di un fanciullo, che gioca a rizzare qua e là e a rovesciare castelletti di pietre e di sabbia.
Se intendiamo di apprezzare esattamente l’attitudine dionisiaca di un popolo, ci è d’uopo, dunque, di non por mente solo alla sua musica, sibbene ci è altrettanto indispensabile d’interrogare, come secondo testimonio di tale sua capacità, il suo mito tragico. Tenendo conto di questa intima parentela tra la musica e il mito, è lecito presumere, che con la degenerazione e depravazione dell’una va connesso l’inaridimento dell’altro; giacché l’infiacchimento del mito esprime in generale l’estenuazione della facoltà dionisiaca. Se non che, uno sguardo gettato all’una e all’altro non ci consentirebbe alcun dubbio sullo svolgimento dell’anima tedesca: la natura dell’ottimismo socratico, altrettanto insensibile all’arte quanto corrodente la vita, ci si è svelata così nel melodramma, come nel carattere astratto della nostra esistenza nuda di miti, così in un’arte discesa a ufficio di sollazzo, come nel costume di vivere sotto la guida dell’astrazione concettuale. Ma a nostro conforto sorgono presagi, che, ciò nonostante, lo spirito tedesco, immune nella pienezza di una magnifica salute, nella profondità della potenza dionisiaca, si riposa e sogna in un precipizio inaccessibile come un cavaliero caduto in sopore: precipizio, dal quale s’innalza fino a noi l’inno dionisiaco, per dirci, che questo cavaliero germanico sogna anche adesso nelle sue sacre e austere visioni il vetusto mito dionisiaco della stirpe. Nessuno creda, che lo spirito tedesco abbia perduto per sempre la sua patria, se esso intende tuttora il linguaggio degli uccelli che gli parlano della patria antica. Giorno verrà, che egli si troverà ridesto, in tutta la freschezza mattutina seguita a un sonno portentoso: ucciderà allora i draghi, annienterà i maligni nani, sveglierà Brunilde, e nemmeno la lancia di Wotan potrà precludergli la via!
O amici, voi che avete fede nella musica dionisiaca, sapete anche ciò che significhi per noi la tragedia. In essa riabbiamo, risuscitato alla vita dalla musica, il mito tragico, e dal mito vi è lecito sperare tutto e dimenticare il dolore più angoscioso! Per noi tutti il dolore più angoscioso è la lunga abiezione in cui il genio tedesco, straniato dal focolare e dalla patria, visse in servitù dei maligni nani. Voi comprendete ciò che voglio dire: comprenderete anche, in fine, le mie speranze.