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156 | capitolo diciottesimo |
mann: «Sì, mio buon amico, c’è auche una produttività dell’azione», egli in guisa amabilmente ingenua richiamò in sostanza il fatto, che per l’uomo moderno l’uomo non teoretico è qualcosa d’incredibile e di stupefacente; tanto che occorre la sapienza di un Goethe per ammettere come concepibile, scusabile anzi, una forma di esistenza siffattamente singolare.
Né bisogna nascondersi ciò che si asconde nel seno di cotesta cultura socratica! L’ottimismo che si presume illimitato! Né bisogna spaventarsi, se i frutti di tale ottimismo maturano, se la società, lievitata fin negli strati infimi da una cultura di tal fatta, fermenta a poco a poco in sobbollimenti e pretese violenti, se la fede nella felicità terrena di tutti, la fede nella possibilità di una tale cultura scientifica universale si cangia a mano a mano nella minacciosa pretensione di una siffatta felicità terrena alessandrina, nella scongiurazione di un deus ex machina euripideo! Si noti: la cultura alessandrina esige, per durare, una casta di schiavi; ma nella sua concezione ottimistica dell’esistenza nega la necessità di tale casta, e perciò, usando l’effetto delle sue belle parole lusingatrici e contentatrici di «dignità dell’uomo» e «dignità del lavoro», cammina a poco a poco verso una orribile annichilazione. Non vi è nulla di più spaventoso di una casta barbarica di schiavi, che ha imparato a riguardare la propria esistenza come un’ingiustizia, e si prepara a trarne vendetta non solo per sé, ma per tutte le generazioni. Chi mai oserebbe,