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il fallimento della cultura | 159 |
tragedia, come l’Elena a lui dovuta, ed esclamasse come Faust:
E non dovrei io, la più anelante delle potenze,
Condurre alla vita la più sublime delle apparizioni?
Ma dopo che la cultura socratica è scossa dai due lati e riesce appena con mano tremante a tenere lo scettro della sua infallibilità, da un lato per la paura delle sue proprie conseguenze, che principia per l’appunto a presentire, dall’altro perché essa stessa non è più persuasa dell’eterna validità dei suoi fondamenti con l’ingenua confidenza di prima, ecco che è ben triste lo spettacolo offerto dalla danza del suo pensiero, che sempre corre anelante a nuove forme per abbracciarle, e poi d’un subito le abbandona rabbrividendo, come fa Mefistofele con le lamie tentatrici. È proprio cotesto il contrassegno di quel «fallimento», del quale ognuno suole parlare come del peccato originale della cultura moderna: che l’uomo teoretico si sgomenta davanti alle sue conseguenze, e, insodisfatto, non si arrischia più di affidarsi al formidabile fiume ghiacciato dell’esistenza: corre qua e là affannato sulla riva. Egli non vuol più saperne affatto, nulla più che vedere con l’atrocità naturale delle cose. Tanto lo ha effemminato il pensare ottimistico. Inoltre egli sente, che una cultura eretta sul principio della scienza, deve andare in rovina quando principia a diventare illogica, vale a dire a involarsi alle sue conseguenze. La nostra arte rivela questo travaglio universale: