La Nascita della Tragedia/Capitolo II
Questo testo è completo. |
◄ | Capitolo I | Capitolo III | ► |
Capitolo II.
Finora abbiamo considerato il senso apollineo e il suo opposto, il dionisiaco, come forze artistiche che scaturiscono dal seno stesso della natura, senza intervenzione dell’artista umano, e nelle quali gl’istinti artistici della natura medesima trovano il primo e diretto appagamento: prima come mondo figurativo del sogno, la cui compiutezza non ha alcun rapporto con l’altezza intellettuale o con l’educazione artistica del singolo; poi come realtà piena di ebbrezza, che neppure fa conto del singolo, ma anzi cerca di abnegare l’individuo e scioglierlo in un misticismo unitario. Davanti a tali stati artistici immediati della natura ogni artista è «imitatore»; vale a dire, o è artista apollineo del sogno, o artista dionisiaco dell’ebbrezza, o, infine, come per esempio nella tragedia greca, è artista del sogno insieme e dell’ebbrezza. Quest’ultimo ci è dato immaginarlo simile a un dipresso a colui che, caduto a terra durante l’ebbrezza dionisiaca e l’abnegazione mistica, rimane solo, appartato dai cori deliranti: in virtù del sogno apollineo, il suo proprio stato, vale a dire la sua unità con l’intima sostanza del mondo, ora gli si rivela in una visione allegorica di sogno.
Con tali presupposti e tali premesse possiamo ora guardare più da vicino i greci, e riconoscere fino a qual grado e fino a quale altezza siano apparsi sviluppati in loro cotesti istinti artistici della natura: per tal modo ci metteremo in condizione d’intendere e di apprezzare più profondamente il rapporto in cui l’artista greco si trova coi suoi modelli, o, come Aristotele lo chiama, «l’imitazione della natura». Quanto ai sogni dei greci, nonostante tutta la loro letteratura sul sogno e i loro copiosi aneddoti sul sogno, è dato parlarne solo per congetture. Ma davanti alla virtù plastica incredibilmente precisa e sicura del loro occhio, in uno col loro sereno e composto godimento del colore, non è possibile trattenersi dal presumere, a scorno di tutti i posteri, che anche i loro sogni erano regolati da un’intima causalità logica di linee e di contorni, di colori e di aggruppamenti, e svolgevano una successione di scene arieggiante i loro migliori bassorilievi; la perfezione delle quali, se un paragone ci fosse consentito, certamente ci autorizzerebbe a rappresentarci i greci quando sognavano come altrettanti Omeri, ed Omero come un greco durante il sogno; e ciò in un senso più profondo, che se l’uomo moderno, davanti al suo sogno, osasse compararsi a Shakspeare.
Per contro, non si è punto costretti a parlare solo per congetture, quando si tratta di scoprire l’abisso che separa i greci dionisiaci dai barbari dionisiaci. In tutti i confini del vecchio mondo, per tacere del nuovo, siamo al caso di documentare, da Roma a Babilonia, l’esistenza di feste dionisiache, il cui tipo, nel miglior caso, si ragguaglia al tipo delle greche, come il satiro barbuto, che ha preso dal caprone il nome e gli attributi, è ragguagliabile a Dioniso in persona. Quasi dovunque il nocciolo di tali feste consisteva in una enorme scostumatezza sessuale, le cui ondate sommergevano ogni sentimento della famiglia e le pudiche e sacre sue leggi: si scatenavano allora le più selvagge bestie della natura, fino a quell’orrendo miscuglio di lussuria e di atrocità, che a me è parso sempre come il vero e proprio «filtro delle streghe». Dai sommovimenti febbrili di quelle feste, il cui contagio li premeva da tutte le terre e da tutti i mari, sembra che i greci siano stati protetti e tutelati dall’immagine di Apollo, che si ergeva in mezzo a loro in tutto il suo orgoglio, e che non poteva alzare la testa di Medusa contro una potenza più pericolosa di questa potenza dionisiaca grottescamente informe. L’arte dorica è propriamente quella, in cui si è eternato cotesto atteggiamento maestosamente allontanativo di Apollo. Più scabrosa divenne questa resistenza, anzi impossibile, quando infine i consimili istinti si aprirono l’adito dalle più profonde radici del genio ellenico: allora l’opera del dio delfico si circoscrisse a strappar di mano al gagliardo avversario, con una conciliazione fatta a tempo, le armi della distruzione. Questa conciliazione è il momento più importante della storia del culto greco: le trasformazioni arrecate da tale evento sono visibili dovunque si guarda. Fu, quella, la riconciliazione di due avversari, fatta con la rigorosa determi, nazione dei rispettivi confini che da ora in poi bisognava osservare, e con lo scambio periodico di doni onorari; ma in ’fondo lo screzio non fu spianato. Se però guardiamo al modo come la potenza dionisiaca ebbe a palesarsi sotto l’influenza di quel patto pacifico, noi veniamo a riconoscere nelle orgie dionisiache dei greci, raffrontate con le sacee di Babilonia e con la connessa ricaduta dell’uomo a tigre e a scimmia, la significazione di feste di redenzione universale e di trasfigurazione. Per la prima volta in mezzo a loro la natura celebrò il suo giubilo artistico; per la prima volta in mezzo a loro l’infrazione del principium individuationis diventò un fenomeno artistico. Qui, tra i greci, queiresecrabile filtro delle streghe stillato dalla lussuria e dall’atrocità non aveva forza: lo ricorda unicamente, come i rimedi energici ricordano i veleni mortali, la meravigliosa mescolanza o duplicità di affetti del tripudiatore dionisiaco; lo ricorda solo lo strano fenomeno, che i dolori producono sensazioni di delizia, che il giubilo strappa al petto voci di angoscia. Dalla più alta allegrezza scoppia il grido del terrore o l’urlo di lamento e di ansia per una perdita irreparabile. In quelle feste greche emana per così dire uno sfogo sentimentale della natura, come se le cavasse gemiti e singhiozzi il proprio smembrarsi in altrettanti individui. Il canto e la mimica di cosiffatti convulsionari di gioia insieme e di spasimo, parvero qualcosa di nuovo e di inaudito al mondo greco-omerico: particolarmente la musica dionisiaca gli fece terrore e orrore. Se evidentemente la musica era già riconosciuta come un’arte apollinea, vuol dire che essa, esattamente intesa, non era tale se non come onda ritmica, la cui forza figurativa venisse svolta a produrre stati d’animo apollinei. La musica di Apollo era l’architettura dorica espressa in note, ma in note leggere e descrittive, quali sono proprie della cetra. L’elemento che in essa era evitato con cura, come non apollineo, era appunto quello che forma il carattere della musica dionisiaca e della musica in generale, vale a dire la vigoria scotente del suono, il torrente compatto della melodia e il mondo affatto impareggiabile dell’armonia. Nel ditirambo dionisiaco l’uomo viene eccitato alla più alta esaltazione di tutti i suoi talenti simbolici: qualcosa di non mai provato fa impeto per venir fuori, per trovare espressione; è la distruzione del velo di Maia, l’unità dell’essere come genio della generazione, della stessa natura. Qui l’essenza della natura deve esprimersi simbolicamente: è necessario un nuovo mondo di simboli, è necessaria l’intera simbolica del corpo, non già la mera simbolica della bocca, del viso, della parola, sibbene la piena mimica della danza, quella che move insieme ritmicamente tutte le membra. Allora di botto, impetuosamente, le altre forze simboliche, quelle della musica, si sviluppano in ritmica, in dinamica, in armonia. Per comprendere cotesto simultaneo sprigionamento di tutte le forze simboliche, bisogna che l’uomo sia già arrivato a quel fastigio dell abnegazione e oblio di sé stesso, che appunto in tali forze si esprime simbolicamente: e perciò il servente ditirambico di Dioniso non è compreso se non dal proprio simile e conservo! Con quale stupore dovè guardarlo il greco apollineo! Con uno stupore che era tanto più cupo, in quanto vi si mescolava l’orrore del presentimento, che pure tutto ciò in fondo non gli fosse interamente estraneo; che, purtroppo, la sua coscienza apollinea non fosse altro, in fondo, che un velo steso a celargli quel mondo dionisiaco.