documentare, da Roma a Babilonia, l’esistenza di feste dionisiache, il cui tipo, nel miglior caso, si ragguaglia al tipo delle greche, come il satiro barbuto, che ha preso dal caprone il nome e gli attributi, è ragguagliabile a Dioniso in persona. Quasi dovunque il nocciolo di tali feste consisteva in una enorme scostumatezza sessuale, le cui ondate sommergevano ogni sentimento della famiglia e le pudiche e sacre sue leggi: si scatenavano allora le più selvagge bestie della natura, fino a quell’orrendo miscuglio di lussuria e di atrocità, che a me è parso sempre come il vero e proprio «filtro delle streghe». Dai sommovimenti febbrili di quelle feste, il cui contagio li premeva da tutte le terre e da tutti i mari, sembra che i greci siano stati protetti e tutelati dall’immagine di Apollo, che si ergeva in mezzo a loro in tutto il suo orgoglio, e che non poteva alzare la testa di Medusa contro una potenza più pericolosa di questa potenza dionisiaca grottescamente informe. L’arte dorica è propriamente quella, in cui si è eternato cotesto atteggiamento maestosamente allontanativo di Apollo. Più scabrosa divenne questa resistenza, anzi impossibile, quando infine i consimili istinti si aprirono l’adito dalle più profonde radici del genio ellenico: allora l’opera del dio delfico si circoscrisse a strappar di mano al gagliardo avversario, con una conciliazione fatta a tempo, le armi della distruzione. Questa conciliazione è il momento più importante della storia del culto greco: le trasformazioni arrecate da tale evento sono visibili