Questa pagina è stata trascritta e formattata, ma deve essere riletta. |
30 | capitolo secondo |
Con tali presupposti e tali premesse possiamo ora guardare più da vicino i greci, e riconoscere fino a qual grado e fino a quale altezza siano apparsi sviluppati in loro cotesti istinti artistici della natura: per tal modo ci metteremo in condizione d’intendere e di apprezzare più profondamente il rapporto in cui l’artista greco si trova coi suoi modelli, o, come Aristotele lo chiama, «l’imitazione della natura». Quanto ai sogni dei greci, nonostante tutta la loro letteratura sul sogno e i loro copiosi aneddoti sul sogno, è dato parlarne solo per congetture. Ma davanti alla virtù plastica incredibilmente precisa e sicura del loro occhio, in uno col loro sereno e composto godimento del colore, non è possibile trattenersi dal presumere, a scorno di tutti i posteri, che anche i loro sogni erano regolati da un’intima causalità logica di linee e di contorni, di colori e di aggruppamenti, e svolgevano una successione di scene arieggiante i loro migliori bassorilievi; la perfezione delle quali, se un paragone ci fosse consentito, certamente ci autorizzerebbe a rappresentarci i greci quando sognavano come altrettanti Omeri, ed Omero come un greco durante il sogno; e ciò in un senso più profondo, che se l’uomo moderno, davanti al suo sogno, osasse compararsi a Shakspeare.
Per contro, non si è punto costretti a parlare solo per congetture, quando si tratta di scoprire l’abisso che separa i greci dionisiaci dai barbari dionisiaci. In tutti i confini del vecchio mondo, per tacere del nuovo, siamo al caso di