La Merope/Atto quarto

Atto quarto

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Atto terzo Atto quinto

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ATTO QUARTO

SCENA I

Adrasto e Ismene.

Adrasto.   In somma tutto si restringe in questo

che, se diman non cangerá pensiero,
e se pronta a seguir la regia voglia
non mostrerassi, tutti i suoi più cari,
tutti gli antichi amici a me ben noti
saranle a forza strascinati innanzi
e ad uno ad uno sotto gli occhi suoi
saran svenati. Quest’è ciò che imposto
ha il re a te e che tu poscia a lei
senz’altro rechi.
Ismene. i O feritá inaudita!
o non piú intesi di barbarie esempi!
Adrasto.   Non si dolga del mal chi ’l ben ricusa.
Ismene.   Ahi questo è un ben che tutti i mali avanza.
Adrasto.   Il vano immaginar fa inganno ai sensi
e d’ogn’altro gioir sa far dolore.
Ismene.   Gioir ti sembra il soffrir nozze in tempo
che tutto ciò che vede e ciò che ascolta
non le desta nel seno altro che pianto?
Adrasto.   Di lei così han disposto il cielo e ’l fato.

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Ismene.   Il ciel l’ha abbandonata e ’l fato oppressa.

Adrasto.   Quanto passò taccia una volta e oblii.
Ismene.   Può ben tacere, ma obliar non puote;
che ’l silenzio è in sua man, ma non l’oblio.
Adrasto.   Di sé si dolga chi al peggior s’appiglia.
Ismene.   Nulla è peggio per lei del re crudele.
Adrasto.   Crudel chi le offre onor, gioia e diletto?
Ismene.   Diletto amaro a chi col cor ripugna.
Adrasto.   Perché ripugna a ciò ch’ogn’altra brama?
Ismene.   Ella brama piú tosto e strazio e morte.
Adrasto.   Sí, se non fosse morte altro che un nome.
Ismene.   La virtú di costei tu non conosci.
Adrasto.   Dunque se di virtú cotanto abbonda,
facciasi una virtú conforme al tempo.
Giá per disporsi ella non ha che questa
omai distesa notte; se tu l’ami,
qual mostri, fa che il suo miglior discerna
e che i suoi fidi non esponga a morte.
Pazzo è ’l nocchier che non seconda il vento.

SCENA II

Ismene, poi Egisto.

Ismene.   Deh qual fine avrá mai l’amaro giuoco,

che di quell’infelice la fortuna
si va prendendo? Di veder giá parmi
che siam giunti a quel punto ov’ella omai
contro sé stessa sue minacce adempia,
funestandoci or or col proprio sangue
e gli occhi e ’l core. O lagrimevol sorte!
Egisto.   Deh, se t’arrida il ciel, leggiadra figlia,
dimmi, ti priego: chiude ancor sí atroce
Merope contra me nel cor lo sdegno?
Lungo esser suole in regio cor lo sdegno,

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ed io ne temo si ch’ogni momento

mi par d’averla con quell’asta al fianco
e quest’ora notturna, in cui riposo
penso che prenda, m’assicura appena.
Ismene.   Sgombra il timor, vano timor che troppo
fa torto a lui che regna e a te fa scudo.
Egisto.   Ciò mi rincora, sì; ma per mia pace
impetrami da lei, figlia cortese,
di qual error non so, ma pur perdono.
Ismene.   Uopo di ciò non hai, perché il furore,
contra di te dentro il suo cor giá acceso,
per sé si dileguò.
Egisto.   Grazie agli dèi.
Ma di tanto furor, di tanto affanno
qual ebbe mai cagion? Dai tronchi accenti
io raccoglier non seppi il suo sospetto.
Certo ingombrolla error e per un vile
ladron selvaggio in van si cruccia.
Ismene.   Il tutto
scoprirti io non ricuso, ma egli è d’uopo
che qui t’arresti per brev’ora: urgente
cura or mi chiama altrove.
Egisto.   Io volentieri
t’attendo quanto vuoi.
Ismene.   Ma non partire
e non far poi ch’io qua ritorni indarno.
Egisto.   Mia fé do in pegno, e dove gir dovrei?
Per consumar la notte e alcun ristoro
per dar col sonno al travagliato fianco
e agli afflitti pensieri io miglior loco
di quest’atrio non ho; dove adagiarmi
cercherò in alcun modo e dove almeno
dal freddo della luna umido raggio
sarò difeso.
Ismene.   Io dunque a te fra poco
farò ritorno.

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SCENA III

Egisto.

  O di perigli piene,

o di cure e d’affanni ingombre e cinte
case dei re! Mio pastoral ricetto,
mio paterno tugurio, e dove sei?
Che viver dolce in solitaria parte,
godendo in pace il puro aperto cielo,
e della terra le natie ricchezze!
Che dolci sonni al sussurrar del vento,
e qual piacer sorger col giorno e tutte
con lieta caccia affaticar le selve,
poi ritornando nel partir del sole,
ai genitor che ti si fanno incontra
mostrar la preda e raccontare i casi
e descrivere i colpi! Ivi non sdegno,
non timor, non invidia; ivi non giunge
d’affannosi pensier tormento o brama
di dominio e d’onor. Folle consiglio
fu ben il mio, che tanto ben lasciai
per gir vagando. O pastoral ricetto,
o paterno tugurio, e dove sei?
Ma in questo acerbo di fu tanta e tale
la fatica del piè, del cor l’affanno,
che da stanchezza estrema omai son vinto.
Ben opportuni son, se ben di marmo,
questi sedili. O quanto or caro il mio
letticiuol mi saria! Che lungo sonno
vi prenderei! Quanto è soave il sonno!

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SCENA IV

Euriso e Polidoro.

Euriso.   Eccoti, o peregrin, qual tu chiedesti

nel palagio real; per queste porte
alle stanze si passa, ove chi regge
suol far dimora; penetrar piú oltre
a te non lice. Ma perché dagli occhi
cader ti veggo in su le guance il pianto?
Polidoro.   O figlio, se sapessi quante dolci
memorie in seno risvegliar mi sento!
Io vidi un tempo, io vidi questa corte
e riconosco il loco: anche in quel tempo
cosí soleasi illuminar la notte.
Ma allor non era io giá qual or mi vedi,
fioria la guancia e per vigore, o fosse
nel corso o in aspra lotta, al piú robusto,
al piú leggèr non la cedea. Ma il tempo
passa, e non torna. Or io della benigna
scorta che fatta m’hai, quante piú posso
grazie ti rendo.
Euriso.   Assai piú volentieri
nelle mie case io t’averei condotto,
perché quivi le membra tue, cui rende
l’etá piú del cammino afflitte e lasse,
ristorar si potessero.
Polidoro.   Io ti priego
di qui lasciarmi. E non vuoi tu ch’io sappia
di chi mi fu così cortese il nome?
Euriso.   Euriso di Nicandro.
Polidoro.   Di Nicandro
ch’abitava sul colle e che sì caro
era al buon re Cresfonte?

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Euriso.   Per l’appunto.

Polidoro.   Viv’egli ancora?
Euriso.   Ei chiuse il giorno estremo.
Polidoro.   O quanto me ne duole! Egli era umano
e liberal; quando appariva, tutti
faceargli onor. Io mi ricordo ancora
di quando ei festeggiò con bella pompa
le sue nozze con Silvia ch’era figlia
d’Olimpia e di Glicon, fratel d’Ipparco.
Tu dunque sei quel fanciullin che in corte
Silvia condur solea quasi per pompa;
parmi l’altr’ieri. O quanto siete presti,
quanto mai v’affrettate, o giovinetti,
a farvi adulti ed a gridar tacendo
che noi diam loco!
Euriso.   La contezza, amico,
che tu mostri de’ miei maggior desio
risveglia in me d’esserti grato. Io dunque
ti priego ancor che tu d’ogni mia cosa
per mio piacere a tuo piacer ti vaglia.
Polidoro.   Altro per or da te non bramo, Euriso.
se non che tu mi lasci occulto e nullo
con chi che sia di me ragioni.
Euriso.   In questo
agevol cosa è il compiacerti. Addio.

SCENA V

Polidoro e Egisto.

Polidoro.   Ben mia ventura fu l'essermi in questo

uom cortese avvenuto, il qual disdetto
non m’ha di qua condurmi anche in tal ora;
poiché da quel ch’esser solea mi sembra

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questa cittá cangiata, sì che quasi

io non mi rinveniva. Ottimo ancora
consiglio fu, cred’io, l’entrar notturno
e inosservato; ché in men nobil parte
pria celerommi e benché a pochi noto
ed a niun forse sospetto, pure
piú cauto fia nelle regali stanze
entrar poi di nascosto. Or qui ben posso
prender fra tanto alcun riposo.
  I’ veggio
un servo lá che dorme. Quella veste
strano risalto m’ha destato al core;
desio mi viene di vedergli il volto
ch’ei si copre col braccio. Ma udir parmi
gente ch’appressa; questa porta s’apre:
convien ch’io mi nasconda.

SCENA VI

Ismene, poi Merope.

Ismene.   Or se ti piace,

qui dunque attendi. A fé ch’io piú no ’l veggo
Ben in vano sperai che tener fede
ei mi dovesse e forse ancor piú in vano
mi lusingava che si sciocco ei fusse
di lasciarsi condur lá entro. Or dove
cercar si possa i’ non saprei. Ma taci,
Ismene, eccol sepolto in alto sonno.
Esci, regina, esci senz’altro; ei dorme
profondamente.
Merope   Ed in qual parte?
Ismene.   Mira,
vedi, se in miglior guisa e piú a tuo senno

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il ti poteva presentar fortuna.

Merope.   È vero, i giusti dèi l’han tratto al varco.
Ombra cara, infelice e fino ad ora
invendicata del mio figlio ucciso,
quest’olocausto accetta e questo sangue
prendi che per placarti a terra io spargo.

SCENA VII

Polidoro e detti.

Polidoro.   Ferma, reina; oimé ferma, ti dico.

Merope.   Qual temerario!
Egisto.   O Dèi, o Dèi, soccorso!
Pur ancor questa furia!
Merope.   Sì, sì, fuggi.
Polidoro.   T’arresta oimé, t’accheta.
Merope.   Fuggi pure
per questa volta ancor; da queste mani
non sempre fuggirai, non se credessi
di trucidarti a Polifonte in braccio.
Polidoro.   O Dèi, che non m’ascolti?
Merope.   Ma tu, pazzo,
tu pagherai... la tua canizie il colpo
m’arresta. E qual delirio? e quale ardire?
Polidoro.   Dunque piú non conosci Polidoro?
Merope.   Che?
Polidoro.   Sì, t’accheta, ecco il tuo servo antico;
quegli son io, e quei che uccider vuoi
quegli è Cresfonte, è 'l figlio tuo.
Merope.   Che! vive?
Polidoro.   Se vive! Noi vedesti? Non vivrebbe
giá piú, s’io qui non era.
Merope.   Oimé!

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Polidoro.   Sostienla,

sostienla, o figlia; l’allegrezza estrema
e l’improviso cangiamento al core
gli spirti invola: tosto usa, se l’hai,
alcun sugo vitale; or ben t’adopri.
Quanto ringrazio i dèi che a sí grand’uopo
trassermi e fèr ch’io differir non volli
pur un momento a entrar qua dentro. O quale,
s’io qui non era. empio inaudito atroce
spettacolo!
Ismene.   Son io tanto confusa
fra l’allegrezza e lo stupor, che quasi
non so quel ch’io mi faccia. O mia reina,
torna, fa core; ora è di viver tempo.
Polidoro.   Vedi che giá si muove, or si riscuote
Merope.   Dove, dove son io? sogno? vaneggio?
Ismene.   Né sogni, né vaneggi. Eccoti innanzi
il fedel Polidor che t’assicura
del figlio tuo, non vivo sol, ma sano,
leggiadro, forte e, posso dir, presente.
Merope.   Mi deludete voi? Se’ veramente
tu Polidoro?
Polidoro.   Guarda pur, rimira;
possibile che ancor non mi ravvisi,
se ben di queste faci al dubbio lume?
A te venuto er’io, perché in piú parti
a cercar di Cresfonte e perché insieme...
Merope.   Sí che se’ desso; sí ch’io ti ravviso,
benché invecchiato di molto.
Polidoro.   Ma il tempo
non perdona.
Merope.   E m’accerti ch’è mio figlio
quel giovinetto? E non t’inganni?
Polidoro.   Come
ingannarmi? Pur or lá addietro stando,
del suo sembiante che da quella parte

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tutto io scopria saziati ho gli occhi. Or quale

impeto sfortunato e qual destino
t’accecava la mente?
Merope.   O caro servo,
empia faceami la pietá, del figlio
il figlio stesso io l’uccisor credea.
S’accoppiár cento cose ad ingannarmi,
e l’anel, ch’io ti diedi, ad un garzone
da lui trafitto altri asserí per certo
ch’ei rapito l’avesse.
Polidoro.   Ei da me l’ebbe,
benché con ordin d’occultarlo.
Merope.   O stelle,
e sará ver che il sospirato tanto,
che il sí bramato mio Cresfonte al fine
sia in Messene? E ch’io sia la piú felice
donna del mondo?
Polidoro.   Tu di tenerezza
fai lagrimar me ancora. O sacri nodi
del sangue e di natura! Quanto forti
voi siete e quanto il nostro core è frale!
Merope.   O cielo, ed io strinsi due volte il ferro
ed il colpo librai! Viscere mie!
Due volte, Polidor, son oggi stata
in questo rischio. Nel pensarlo tutta
mi raccapriccio e mi si strugge il core.
Ismene.   Con cosí strani avvenimenti uom forse
non vide mai favoleggiar le scene.
Merope.   Lode ai pietosi, eterni dèi che tanta
atrocitá non consentiro, e lode,
Cintia triforme, a te che tutto or miri
dal bel carro spargendo argenteo lume.
Ma dov’è’l figlio mio? Da questa parte
fuggendo corse; ov’e’ si sia, trovarlo
saprò ben io. Mia cara Ismene, i’ credo
che morrò di dolcezza in abbracciarlo,

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in stringerlo, in baciarlo.

Polidoro.   Ove ten corri?
Merope.   Perché m’arresti.
Polidoro.   Sta.
Merope.   Lascia.
Polidoro.   Vaneggi.
Non ti sovvieni tu ch’entro la reggia
di Polifonte or sei? Che sei fra mezzo
a’ suoi custodi ed a’ suoi servi? Un solo
che col garzon ti veggia in tenerezza,
dimmi, non siam perduti? In maggior rischio
ei non fu mai, né ci fu mai mestieri
di piú cautela. Dominar conviene
i propri affetti; e chi non sa por freno
a quei desir che quasi venti ognora
van dibattendo il nostro cor, non speri
d’incontrar finché vive altro che pianto.
Non sol dall’abbracciarlo, ma guardarti
con gran cura tu dèi dal sol vederlo;
perché il materno amor, l’argin rompendo,
non tradisca il segreto ed in un punto
di tant’anni il lavor non getti a terra.
Ma perch’ei sappia contenersi, io tosto
l'esser suo scoprirogli e d’ogni cosa
farollo instrutto. Co’ tuoi fidi poi
terreni consiglio e con maturo ingegno
si studierá di far scoccare il colpo.
Tutto s’ottien, quando prudenza è guida.
Per altro assai sovente i gravi affari,
con gran sudor per lunga etá condotti,
veggiam precipitar sul fine, e sai
non si lodan le imprese che dal fine;
e se ben molto e molto avesse fatto,
nulla ha mai fatto chi non compie l’opra.
Merope.   O fido servo mio, tu se’ pur sempre
quel saggio Polidor.

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Polidoro.   Non tutti i mali

vecchiezza ha seco, ché restando in calma
da le procelle degli affetti il core,
se gli occhi foschi son, chiara è la mente
e se vacilla il piè, fermo è ’l consiglio.
Merope.   Or dimmi: il mio Cresfonte è vigoroso?
Polidoro.   Quanto altri mai.
Merope.   Ha egli cor?
Polidoro.   Se ha core
Miser colui che farne prova ardisse.
Era suo scherzo travagliar le selve
e ’l guerreggiar le piú superbe fere;
in cento incontri e cento io mai non vidi
orma in lui di timor.
Merope.   Ma sará forse
indocile e feroce.
Polidoro.   Nulla meno.
Vèr noi, ch’egli credea suoi genitori
piú mansueto non si vide. O quante
e quante volte in ubbidir sí pronto
scorgendolo e sí umil, meco pensando
ch’egli era pure il mio signor, il pianto
mi venia fino a gli occhi e m’era forza
appartarmi ben tosto ed in segreto
sfogare a pieno il cor, lasciando aperto
a le lagrime il corso.
Merope.   O me beata!
Non rape entro il mio core il mio contento.
E ben dí tutto ciò veduto ho segni:
che sí umil favellar, sí dolci modi
meco egli usò che nulla piú; ma quando
altri afferrar lo volle, oh se veduto
l’avessi! Ei si rivolse qual leone
e se ben cesse al mio comando, ei cesse
quasi mastin cui minacciando è sopra
con dura verga il suo signor, che i denti

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mostra e raffrena e in ubbidir feroce

s’abbassa e ringhia e in un s’umilia e freme.
O destino cortese, io ti perdono
quanti mai fûr tutti i miei guai; sol forse
perdonar non ti so ch’or io non possa
stringerlo a mio piacer, mirarlo, udirlo.
Ma quale, o mio fedel. qual potrò io
darti giá mai mercé che i merti agguagli?
Polidoro.   Il mio stesso servir fu premio, ed ora
m’è il vederti contenta ampia mercede;
che vuoi tu darmi? Io nulla bramo; caro
sol mi saria ciò ch’altri dar non puote;
che scemato mi fosse il grave incarco
degli anni che mi sta sul capo e a terra
il curva e preme sì che parmi un monte.
Tutto l’oro del mondo e tutti i regni
darei per giovinezza.
Merope.   Giovinezza
per certo è un sommo ben.
Polidoro.   Ma questo bene
chi l’ha no ’l tien, che, mentre l’ha, lo perde.
Merope.   Or vien, ché sarai lasso e di riposo
sommo bisogno avrai.
Polidoro.   M’è intervenuto
qual suole al cacciator che al fin del giorno
si regge appena e appena oltre si spinge,
ma se a sorte sbucar vede una fera,
donde meno il credeva, agile e pronto
lo scorgi ancóra e de’ suoi lunghi errori
non sente i danni e la stanchezza oblia.
Pur t’ubbidisco e seguo. Questa scure
qui lasciar non si vuol.
Merope.   Benché in balia
del suo fatal nimico or sia Cresfonte,
attristarmi non so, temer non posso,
ché preservato non l’avrebbe in tanti

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e sí strani perigli il sommo Giove,

se custodir poi nol volesse ancora
in avvenir.
Polifonte.   Facciam, facciam noi pure
quanto per noi si dèe, ché l’avvenire
caligin densa e impenetrabil notte
sempre circonda e l’hanno in mano i dèi.