Pagina:Maffei, Scipione – Opere drammatiche e poesie varie, 1928 – BEIC 1866557.djvu/49


atto terzo 43


di porlo in trono e giá pareami ognora

dirgli insegnando qual regnar solea
il suo buon genitor; ma nel mio core,
misera, io destinata infin gli avea
la sposa, ed ecco un improvviso colpo
di sanguinosa inesorabil morte
me l’invola per sempre e senza ch’io
pur una volta il vegga e senza almeno
poterne aver le ceneri, trafitto,
lacerato, insepolto ai pesci in preda,
qual vil bifolco da torrente oppresso...
Polifonte.   Non cetre o lire mi fur mai sí grate
quant’ora il flebil suono di questi lai,
che del spento rival fan certa fede.
Merope.   Ma perché dunque, o Dèi, salvarlo allora?
Perché finora conservarlo? Ahi lassa,
perché tanto nodrir la mia speranza?
Ché non farlo perir ne’ dí fatali
della nostra ruina, allora quando
il dolor della sua misto al dolore
di tante morti si saria confuso?
Ma voi studiate crudeltá; pur ora
sul traditor stetti con l’asta e voi
mi confondeste i sensi, ond’io rimasi
quasi fanciulla; mi si niega ancora
l’infelice piacer d’una vendetta.
Cieli, che mai fec’io? Ma tu che tutto
mi togliesti, la vita ancor mi lasci?
Perché se godi sí del sangue, il mio
ricusi ancor? Per mio tormento adunque
vedremti infino diventar pietoso?
Tal giá non fosti col mio figlio. O stelle,
se del soglio temevi, in monti e in selve
a menar tra pastori oscuri giorni
chi ti vietava condannarlo? Io paga
abastanza sarei, sol ch’ei vivesse.