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42 la merope


al disagio non resse.

Merope.   Ah! scelerato,
tu mi dileggi ancora. Or piú non fingi,
ti scopri al fin; forse il piacer tu speri
di vedermi ora qui morir di duolo.
Ma non l’avrai, vinto è il dolor da l’ira;
sí che vivrò per vendicarmi. Omai
nulla ho piú da temer, correr le vie
saprò, le vesti lacerando e ’l crine,
e co’ gridi e col pianto il popol tutto
infiammare a furor, spingere all’armi.
Chi vi sará che non mi segua? A l’empia
tua magion mi vedrai con mille faci,
arderò, spianterò le mura, i tetti,
svenerò i tuoi piú cari, entro il tuo sangue
sazierò il mio furor. Quanto contenta,
quanto lieta sarò nel rimirarti
sbranato e sparso! Ahi che dich’io! che penso?
Misera, tutto questo il figlio mio
riviver non fará. Tutto ciò allora
far si dovea che per cui farlo v’era.
Or che piú giova? Oimé, chi provò mai
sí fatte angosce? Io ’l mio consorte amato,
io due teneri figli a viva forza
strappar mi vidi e trucidare. Un solo
rimaso m’era appena; io per camparlo
mel divelsi dal sen mandandol lungi,
lassa! e ’l piacer non ebbi di vederlo
andar crescendo e i fanciulleschi giochi
di rimirarne. Vissi ognora in pianto,
sempre avendolo innanzi in quel vezzoso
sembiante ch’egli avea, quando al mio servo
il porsi. Quante lagrimate notti!
quanti amari sospir! quanto disio!
Pur cresciuto era al fine e giá si ordiva