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atto quarto 57


mostra e raffrena e in ubbidir feroce

s’abbassa e ringhia e in un s’umilia e freme.
O destino cortese, io ti perdono
quanti mai fûr tutti i miei guai; sol forse
perdonar non ti so ch’or io non possa
stringerlo a mio piacer, mirarlo, udirlo.
Ma quale, o mio fedel. qual potrò io
darti giá mai mercé che i merti agguagli?
Polidoro.   Il mio stesso servir fu premio, ed ora
m’è il vederti contenta ampia mercede;
che vuoi tu darmi? Io nulla bramo; caro
sol mi saria ciò ch’altri dar non puote;
che scemato mi fosse il grave incarco
degli anni che mi sta sul capo e a terra
il curva e preme sì che parmi un monte.
Tutto l’oro del mondo e tutti i regni
darei per giovinezza.
Merope.   Giovinezza
per certo è un sommo ben.
Polidoro.   Ma questo bene
chi l’ha no ’l tien, che, mentre l’ha, lo perde.
Merope.   Or vien, ché sarai lasso e di riposo
sommo bisogno avrai.
Polidoro.   M’è intervenuto
qual suole al cacciator che al fin del giorno
si regge appena e appena oltre si spinge,
ma se a sorte sbucar vede una fera,
donde meno il credeva, agile e pronto
lo scorgi ancóra e de’ suoi lunghi errori
non sente i danni e la stanchezza oblia.
Pur t’ubbidisco e seguo. Questa scure
qui lasciar non si vuol.
Merope.   Benché in balia
del suo fatal nimico or sia Cresfonte,
attristarmi non so, temer non posso,
ché preservato non l’avrebbe in tanti