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atto quarto 47


ed io ne temo si ch’ogni momento

mi par d’averla con quell’asta al fianco
e quest’ora notturna, in cui riposo
penso che prenda, m’assicura appena.
Ismene.   Sgombra il timor, vano timor che troppo
fa torto a lui che regna e a te fa scudo.
Egisto.   Ciò mi rincora, sì; ma per mia pace
impetrami da lei, figlia cortese,
di qual error non so, ma pur perdono.
Ismene.   Uopo di ciò non hai, perché il furore,
contra di te dentro il suo cor giá acceso,
per sé si dileguò.
Egisto.   Grazie agli dèi.
Ma di tanto furor, di tanto affanno
qual ebbe mai cagion? Dai tronchi accenti
io raccoglier non seppi il suo sospetto.
Certo ingombrolla error e per un vile
ladron selvaggio in van si cruccia.
Ismene.   Il tutto
scoprirti io non ricuso, ma egli è d’uopo
che qui t’arresti per brev’ora: urgente
cura or mi chiama altrove.
Egisto.   Io volentieri
t’attendo quanto vuoi.
Ismene.   Ma non partire
e non far poi ch’io qua ritorni indarno.
Egisto.   Mia fé do in pegno, e dove gir dovrei?
Per consumar la notte e alcun ristoro
per dar col sonno al travagliato fianco
e agli afflitti pensieri io miglior loco
di quest’atrio non ho; dove adagiarmi
cercherò in alcun modo e dove almeno
dal freddo della luna umido raggio
sarò difeso.
Ismene.   Io dunque a te fra poco
farò ritorno.