La Famiglia De-Tappetti/III - Il banchetto della famiglia
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III.
Il banchetto della famiglia.
La serva sbuffa in cucina. Donna Eufemia sta capando uno spicchio d’aglio. Policarpo gratta un formaggio che appesta il vicinato. Agenore, impicciando tutti quanti, giunge a spingere, surrettiziamente, alcune patate sotto la cenere calda, nella quale, naturalmente, si scotta e strilla come un’aquila.
È una rivoluzione. Policarpo si caccia in tasca il pezzo di formaggio. Eufemia depone l’aglio sopra lo sciacquatore. La serva rovescia tutto quanto il barattolo del sale dentro la pignatta.
— Presto, la concolina! — grida Eufemia pestando un piede.
La serva si slancia nella camera da letto. Policarpo osserva le dita di Agenore, e non vedendo nulla di sospetto, gli tasta il polso e si fa mostrare la lingua.
— Non piangere; — gli dice — non è niente.
— Già: brontola Eufemia, — per voi tutto è niente. Vieni qua, da me, figlietto caro.... sta zitto, che poi ti compro due bei centesimi di nocchie.
— Se non aveste messo la mano vicino al fuoco, non vi sareste scottato! — dice severamente Policarpo; — la vostra condotta non è che una serie di dispiaceri per la famiglia.
— Ma questa concolina viene o non viene?
— Che fa quella somara?
— Dille che si sbrighi.
Policarpo si volta con impeto, e ne viene uno scontro colla serva, che sta correndo colla concolina in mano. I calzoni di Policarpo sono fracidi d’acqua insaponata. La concolina va in mille pezzi.
Tutta la famiglia, costernata, si raccoglie intorno a quei frantumi, come davanti a una catastrofe. Una lacrima spunta dal ciglio di Policarpo. Donna Eufemia batte le mani congiungendole, con voce straziante:
— La concolina di mia nonna!
Policarpo, per nascondere la sua emozione, si fruga in tasca, ne cava il pezzo di formaggio, e lo fissa con straordinaria intensità.
Intanto la pignatta dà disopra, e il brodo, cascando nel fuoco, solleva spirali di fumo bianco.
Policarpo, Eufemia e la serva, con unanime slancio, si precipitano verso la pignatta, che viene alzata da sei mani e messa da pàrte.
Agenore s’appende alle ginocchia del genitore e strilla:
— Le mie patate!
La serva, confusa, afferra uno strofinaccio fradicio di acqua e cenere, dà una ripulita alla pignatta, poi sempre rintontita, lo depone sul casto seno di Donna Eufemia. Policarpo si curva per dare una correzione al figlio. Eufemia manda un grido drammatico, prende lo strofinaccio con due dita e lo butta lungi da sè con atto di ribrezzo. Lo strofinaccio s’avvolge come un turbante intorno al cranio nudo di Policarpo.
— Un asciugamani, presto un asciugamani! — urla Policarpo.
La serva afferra una cosa bianca, e glie la porge. Policarpo si asciuga la testa e il collo. Altro grido di donna Eufemia:
— La mia camicia da notte!
La cucina è un inferno. Policarpo guarda con desolazione profonda i calzoni fradici, quasi fosse l’ultimo atto dei Due Sergenti.
— Come fare? Non ce n’hai nessun altro paio di mezza stagione.
— Lascia andare: s’asciutteranno.
— Ma tu t’ammalerai.
— Che poi non m’avessi da pigliare un febbrone?
— Lévateli subito: credi a me.
— Ma che mi metto? non posso mica restare in mutande.
— Aspetta facciamo così: Rosa, prendete la mia veste di lana turchina. Per un momento, ti metterai quella.
— Un funzionario dello Stato vestito da donna?
La dignità di Policarpo si rivolta, ma la necessità è urgente e superiore all’amor proprio. Così avviene che Policarpo, un momento appresso si avvia solennemente verso la tavola, mezzo vestito da uomo e mezzo da donna. Agenore ci ride. Il genitore lo fulmina con un’occhiata.
— Non si deve mai ridere sulle sventurate emergenze della famiglia, e dovreste invece apprendere, che il genitore afflitto da sventura idraulica, sa sempre nobilmente indossare la veste del sacrificio.
Finalmente la famiglia è seduta a tavola. Agenore ha un tovagliolo, che lo strozza, legato intorno al collo.
La serva porta la minestra. Agenore domanda che per lo meno la sua scodella sia coperta da due chilogrammi di formaggio. Il genitore si rifiuta. Agenore si tira i capelli. Il genitore gli tira gli orecchi. Eufemia tira la manica di Policarpo, il quale si mette in bocca la prima cucchiaiata di minestra, Per poco non la sputa.
— Dio clemente e misericordioso! — esclama Policarpo — questa minestra è una salina di Orbetello.
— Le tue solite esagerazioni....
— Eufemia mia! non eccitare, te ne prego, la mia sacrosanta indignazione. Fammi il piacere di degustare la minestra e poi....
Eufemia assaggia,
— C’è un po’ di sale, ma non mi pare che ci sia da strillare a quel modo che fai tu.
— Ma è salata o non lo è? rispondi categoricamente, poichè la vita domestica è fondata sulla logica.
— Non ti stranire, fammi questo piacere.
— Signora Eufemia! i sett’anni di matrimonio non vi autorizzano a denigrare la sincerità dei miei sensi. Non tergiversiamo, per amore di Dio. È salata o no, questa minestra?
— Quanto sei seccante!
— Papà — soggiunge Agenore — perchè la mamma dice sempre che sei seccante?
— È un’espressione confidenziale che tu non devi ultroneamente ripetere! Hai capito? Ma guarda che fai? tu intingi la manica dentro la scodella. Ma, disgraziato, non te l’ho detto mille volte? a che cosa servono le maniche?
— A ripulirsi la bocca.
Policarpo resta atterrito, davanti al crescente idiotismo di quel figlio unico che un giorno dovrà essere il capo della sua stirpe.
La signora Eufemia con voce acre e acutissima:
— Impossibile! non passa giorno che a tavola non si faccia qualche lite. Tutti mi dicono: quanto dovete esser felice con vostro marito; è un uomo che fa ridere tutti. Ma già si capisce! fuori di casa il signore sarà amabile, sarà spiritoso, sarà ciarliero, sarà brillante. Appena messo piede in casa, non fa che brontolare, brontolare, e dalla mattina alla sera: ora i bottoni non sono cuciti; ora s’è persa la cravatta; ora la minestra ha il bruciato; ora non c’è calza abbastanza nella lampada a petrolio.... Ma dimmi un’altra cosa: non potresti dare un altro giro ai tuoi discorsi?
— Eufemia! — risponde severamente Policarpo — Eufemia, te ne prego, rientra in te stessa. Tu demolisci il prestigio della patria potestà! tu scuoti, nella loro base, quei principii inconcussi che ho procurato sempre d’instillare nel tenero animo di Agenore nostro.
— Ma io sono inconcussa da un pezzo e te lo dico francamente: o parla d’altro o sta zitto. Agenore, vuoi un pezzettino d’arrosto?
— Ma me le compri poi le nocchie?
— Ti ho detto di sì. Non seccarmi neppure te.
— Ecco — mormora Policarpo — ecco come si finisce per traviare il senso retto della gioventù! Le nocchie sono il primo passo sul sentiero dell’abisso. La nocchia è la madre dei vizi.
— Policarpo, te lo ripeto: non essere così brontolone. Non ci hai altro da dirmi? Ma scusa tanto; perchè leggi tanti giornalacci? Non ci trovi niente di bello da raccontarmi? Perchè non ci dici tante belle cose?
— Non vi si trovano che cose brutte.
— Perchè leggi, allora?
— Per ornare il mio spirito di quella cultura unissona, che deve cementare le facoltà intellettuali e intangibili della coscienza cittadina. Ma che vuoi ti narri, cara mia? Vuoi che venga a tavola, per dirti che la locomotiva ha rovesciato il ministero?
— Come?
— Con un break di sfiducia: pur troppo il capo del governo è stato trascinato con un vagone senza ruote.... lui! un uomo che trascina giorno e notte il carro dello Stato.
— E s’è fatto male?
— Nessun male, grazie al cielo.
— Ma figuriamoci, che paura, Gesú!
Policarpo con accento severissimo:
— La paura è un sentimento subalterno.
— Queste ferrovie! — esclama la signora Eufemia, con profonda convinzione. — Per me non vorrei servirmene mai.
— Tu esageri — risponde Policarpo — basta avere un poco di prudenza, e non viaggiare che con treni esenti da scontri, e da deviazioni o altri simili disastri.
— Se io fossi capo del Governo....
— Non è possibile; saresti una capa.
— Mettiamo il caso. Ebbene, non andrei che in carrozza.
— Come fare? A giorni il presidente del gabinetto andrà a Vienna in compagnia dei sovrani.
— È lontano assai Vienna?
— Lontanissima. Io non vi sono mai stato, ma conosco il fratello d’uno che suo cugino doveva andare a Vienna e anche più lontano, eppure è capitale dell’Austria.
— Ma che ci vanno a fare a Vienna?
— A fare amicizia con l’Austria.
— Papà — interrompe Agenore — non m’hai detto sempre che l’Austria è una brutta aquila bicipite?
— Lo era nel quarantotto. Perchè lo stato dell’Europa, figlio mio, è tutto cambiato. Napoleone III è stato sconfitto a Sadova. Bismarck è sceso nella penisola balcanica, e ha battuto i russi a Plevna; i bulgari hanno invaso l’Erzegovina, sbarcando nell’isola di Tabarca; la Francia ha dichiarato guerra all’Enfida, e ha levato a Thiers le redini del governo, tanto è in trambusto; per questo appunto, l’Austria, ch’era nemica, ora poi, sfido, è più amica di prima; e lo stesso imperatore degli austriaci è anche ungherese, perchè sono due governi, che diventano un solo, anche per la ragione che Kossuth è sempre stato a Torino, la nostra capitale, dove fu amico sempre dell’Italia. Così sono amici al di qua dalla Leitha, e al di là dalla Leitha.
— Scusa un momento — interrompe Eufemia; — ho capito tutto, ma questa Leitha che vuol dire?
— I governi dell’Austria sono due, cisleitano, e transleitano, mi capisci? ma poi veramente non sono che uno, e questo governo ogni tanto passa al di là dalla Leitha per poi venire al di qua.
— Scusa tanto, amico mio, ma levami una curiosità: la Leitha che cos’è?
— La Leitha con cui si governa, e che si chiama la Dieta.
— Ma se è Dieta come può essere Leitha?
Policarpo con doloroso stupore:
— Scusa tanto, cara mia. Io sono Policarpo e non sono anche De-Tappetti? Dieta è il cognome.