La Città dell'Oro/6. I mangiatori di terra

6. I mangiatori di terra

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5. Un fuoco sospetto 7. La caccia al jacaré

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VI.

I mangiatori di terra.

La prudenza, non mai troppa in quelle regioni abitate da tribù ostili che da secoli si trasmettono un odio profondo contro gli uomini di razza bianca che riguardano, e non a torto, come oppressori, consigliava di abbandonare quel luogo che poteva nascondere qualche agguato.

Quegli indiani, che poco prima si facevano la cena all’estremità del banco, e che poi si erano affrettati a scomparire, dovevano avere dei motivi gravi per aver eseguita quella rapida ritirata e per non farsi conoscere.

Se avessero avute delle buone intenzioni, sarebbero rimasti, ben sapendo che nulla avevano da temere da un così piccolo numero d’uomini bianchi.

Don Raffaele ed i suoi compagni, dopo d’aver lan[p. 80 modifica]ciato un ultimo sguardo sotto le gigantesche foglie degli jupati, tornarono ad imbarcarsi, ed afferrati i remi attraversarono il Capanaparo sbarcando sulla sponda opposta, sul margine d’una immensa foresta di cari (astrocaryum), sorta di palme dal fusto spinoso, che dànno delle frutta brune, lucide e grosse come le castagne e che pendono in forma di grappoli lunghi un buon piede.

Sono le foreste più difficili a superarsi, anzi talvolta sono inaccessibili perfino agli indiani ed alle fiere, poichè crescendo quelle piante le une assai vicine alle altre, formano una vera selva di spine acutissime e pericolosissime.

Il sole era già scomparso dietro grandi alberi e colle prime tenebre che calavano rapide sui due fiumi e sulle boscaglie, gli uccelli e le scimmie cominciavano a tacere. Non si udivano più che le grida scordate ma potenti di qualche banda di scimmie rosse, ma non dovevano tardare a farsi udire gli animali notturni, i formidabili giaguari, i coguari, i lunghi serpenti, ecc.

L’indiano discese pel primo, ascoltò con profonda attenzione, poi legò la scialuppa ed invitò gli uomini bianchi a sbarcare, dicendo laconicamente:

— Nulla. [p. 81 modifica]— In guardia, amici!... sono ubbriachi di niopo! (pag. 94). [p. 83 modifica]

— Speriamo di passare la nostra prima notte tranquilli, — disse Alonzo.

— Tranquilli!... — esclamò don Raffaele, crollando il capo. — Comincerà ben presto un tale concerto da rompere i timpani, cugino mio.

— Ci abitueremo, spero.

— Sarà un po’ difficile per te; udrai che baccani indiavolati! To’!... La musica incomincia!...

Un gracidare acuto ruppe improvvisamente il profondo silenzio che regnava sulle sponde del Capanaparo, mescolato a certi fischi acuti che parevano emessi da parecchie centinaia di battelli a vapore.

— Cosa sono? — chiese Alonzo stupito.

Parraneca che cominciano i loro concerti, — disse don Raffaele ridendo.

— Dei rospi forse?

— No, sono rane nere, ma che hanno le gambe posteriori così lunghe, che loro permettono di spiccare tali salti da entrare nelle case passando per le finestre. Quelli che fischiano sono invece rospi, i così detti sapo de minas, assai grossi, colla pelle chiazzata di giallo e di nero, colle appendici cornute e larghi come un cappello. Sono orribili a vedersi. Ascolta, cugino, ascolta!...

Un concerto formidabile teneva dietro a quei primi [p. 84 modifica]fischi ed a quei primi gracidii. Si udivano dei muggiti, poi degli stridori che parevano emessi da migliaia di pulegge scorrenti, poi abbaiamenti che parevano prodotti da bande di cani furibondi, dei gorgoglii strani come se centinaia di persone si gargarizzassero per guarirsi dal male di gola, quindi un martellare sonoro come se diecimila calafati battessero le costole d’una flotta intera.

— Chi sono che producono questo baccano? — chiese Alonzo.

— I rospi, le rane ed i ranocchi, — rispose don Raffaele. — Sono milioni di batraci nascosti nei pantani o sugli alberi che fanno una serenata alla luna.

— Fulmini e lampi!... Non ho mai udito un tale fracasso.

— È una buona notte pei serpenti, — disse il dottore.

— Cosa volete dire? — chiese Alonzo.

— Voglio dire che i rettili faranno delle belle scorpacciate. Ne divorano a milioni e dicesi che siano così destri da attirarli fin dentro le loro bocche.

— Ma.... oh!... guardate!... guardate!... Cosa sono quelle scintille che ondeggiano laggiù! — esclamò Alonzo.

— Scintille! — disse don Raffaele, ridendo. — T’in[p. 85 modifica]ganni, cugino mio, sono delle splendide cucujos o, se ti piace meglio, moscas de luz.

— Insetti fosforescenti?

— Sì, e tramandano, dagli ultimi anelli addominali, una luce così viva, come ben vedi, da rivaleggiare colle più grosse scintille o coi più belli fuochi fatui. Con un cucujo si può leggere comodamente anche durante le notti più oscure.

— Mi hanno detto, Raffaele, che gli indiani le adoperano come ornamenti; è vero?

— Verissimo, Alonzo, ma li adoperano per miglior uso anche, cioè per la pesca, legandoli ad un bastone a guisa di torcia per attirare i pesci.

— A cena! — esclamò in quell’istante il dottore, che si era trasformato in cuoco.

I viaggiatori, che avevano molto appetito, si sedettero presso il fuoco acceso dall’indiano e fecero tutti molto onore al pasto; poi, fumate alcune sigarette, raggiunsero le loro amache sospese ai rami d’un albero, il quale protendevasi verso il fiume. Yaruri invece preferì coricarsi nella scialuppa per sorvegliare il fiume.

— A chi il primo quarto di guardia? — chiese Alonzo.

— A te, il secondo a Yaruri, il terzo a me ed il quarto a Velasco, — disse don Raffaele. [p. 86 modifica]

— Allora chiudete gli occhi, — disse il giovanotto, armando il fucile. — Speriamo che nessun avvenimento venga a disturbarci.

— Buona guardia, — risposero i compagni, coricandosi.

Alonzo accese una nuova sigaretta, s’accomodò nella sua amaca meglio che potè, mettendosi vicino il fucile, aprendo per bene gli occhi e tendendo gli orecchi.

La luna era sorta dietro le grandi foreste, ma essendo velata dalla nebbia che si alzava sull’Orenoco, spandeva una luce così pallida, che non permetteva di distinguere bene un oggetto anche grande ad una certa distanza. Perciò il giovanotto, che non aveva dimenticato gl’indiani armati di fucile e così rapidamente scomparsi, teneva gli occhi fissi sulla sponda opposta e precisamente verso il luogo ove doveva trovarsi il banco.

I grossi rospi e le rane, dopo salutata la comparsa dell’astro notturno, avevano posto fine ai loro concerti. Solo di quando in quando si udiva una salva di fischi od uno scoppio di muggiti, ma poi il silenzio tornava sotto le grandi e cupe boscaglie. Ad un tratto un grido acuto, quello del tucano, ma assai più potente, ruppe il silenzio. Alonzo trasalì e alzò il capo gettando sulle rive del fiume un lungo sguardo. [p. 87 modifica]

— Un tucano che canta a quest’ora, — mormorò. — Sarà poi un tucano?... Yaruri!...

— Padrone, — rispose l’indiano, apparendo sul bordo della scialuppa.

— Hai udito?

— Nulla sfugge all’indiano, anche quando dorme.

— Cos’è? Un tucano?

— Nessun uccello ha un grido così acuto.

— Cosa credi che sia?

— Un segnale.

— Emesso da chi?

— Ecco quello che ignoro.

— Vedi nulla sul fiume?

— Nulla.

— Che quel grido sia stato lanciato dagli indiani d’ieri sera?

— È possibile.

— Chiudi gli occhi: veglio attentamente.

Yaruri, dopo aver lanciato un altro e più acuto sguardo sul fiume, tornò a coricarsi nella scialuppa.

Alonzo stette parecchi minuti cogli orecchi tesi, sperando di raccogliere qualche nuovo segnale, ma più nulla udì. Verso le dieci però, nel momento in cui una nuvola oscurava la luna, credette di scorgere, verso la sponda opposta, una linea nera solcare la corrente e [p. 88 modifica]dirigersi verso la foce del Capanaparo. Non potè però accertarsi meglio, poichè quando la nube passò oltre e la luna tornò a illuminare il fiume, quella linea oscura non si scorgeva più.

— Sarà stato forse un caimano, — mormorò egli, e non vi pensò più.

Durante i quarti di guardia dei suoi compagni, nessun avvenimento degno di nota venne a turbare la notte.

Alle sette del mattino, essendosi alzato un fresco venticello che soffiava dal settentrione, scioglievano le vele rimettendosi in viaggio. Contavano di fare la seconda fermata alla foce del Maniapure, affluente di destra dell’Orenoco.

Gli uccelli e le scimmie, sempre numerosi, avevano ripreso i loro concerti, surrogando quelli scordati e così bizzarri delle rane e dei rospi.

Sulle sponde si vedevano volteggiare stormi di arà, grandi pappagalli rossi chiamati con tale nome perchè gridano incessantemente arà arà; bande di aracari, piccoli tucani grossi come un merlo, ma anche questi con un becco sproporzionato; di tico-tico, specie di passere che si radunano in stormi immensi, mentre sul fiume navigavano, gravemente appollaiati sui margini delle victoria regia, i piassoca, uccelli che hanno le gambe lunghissime e che vivono di pesci. [p. 89 modifica]

Superbi poi erano gli alberi che si succedevano senza interruzione sulle sponde della grande fiumana, strappando grida d’ammirazione al giovine Alonzo, il quale mai aveva veduto una flora così svariata e così maestosa nella Florida che è ricca solamente di pini.

Ora apparivano dei boschi di miriti, enormi palme colle foglie disposte a ventaglio, frastagliate a nastri, ma così grandi che un uomo non potrebbe portarne più d’una e cariche di frutta rosse penzolanti in grappoli; boscaglie di bossù, altra specie di palme ma colle foglie rigide, dentellate a mo’ di sega sui margini, serrate, diritte e lunghe dieci e anche undici metri; di palme tucum, dalle cui fibre gl’indiani ricavano una specie di canapa robustissima che adoperano nella fabbricazione delle loro amache; di palme papunha o palme pesche, così chiamate perchè portano delle graziose ciocche di frutta somiglianti alle pesche e che sono deliziose cucinate in acqua con un po’ di zucchero; di bacaba, palme vinifere, dal cui tronco si estrae, facendo una incisione, una specie di vino molto piccante ed inebbriante.

Anche sul fiume le piante acquatiche non mancavano ed erano rappresentate dalle aninga (arum) colle foglie larghe in forma di cuore, poste in cima ad un peduncolo emergente dalla corrente, e dalle murici, foglie più [p. 90 modifica]modeste e più umili che si mantengono a fior d’acqua. I viaggiatori navigavano da tre ore, con una velocità di cinque a sei nodi, essendo la corrente dell’Orenoco sempre debole in causa della pochissima pendenza del letto, quando il dottore, che stava a prua, additò un’abitazione situata presso la foce d’un piccolo fiume della sponda destra.

Era una specie di tettoia aperta da un lato, col tetto e le pareti coperte di curua, piccole foglie di palma adoperata dagli indiani nelle loro costruzioni, ed era collocata su di una palafitta per metterla al riparo dalle piene periodiche del fiume.

Legato ai pali, un piccolo canotto indiano, un montaria, scavato nel tronco d’un albero col fuoco, si dondolava sotto le ondate della corrente.

— Che sia abitata quella capanna? — chiese Alonzo.

— Non vedo alcuno, — disse don Raffaele.

— Che indiani abitano queste sponde?

— Gli Ottomachi.

— Indiani da temersi?

— No, ma non amano la compagnia degli uomini bianchi.

— Andiamo a visitare quella catapecchia, — disse il dottore. — Sarei ben contento di trovare il proprietario. [p. 91 modifica]

— Per che cosa sapere? — chiese don Raffaele.

— Se ha veduto passare degli indiani armati di fucile.

— L’idea è buona. Metti la prua verso quel fiumicello, Yaruri.

La scialuppa virò di bordo e poco dopo si trovava bordo contro bordo colla montaria. Alonzo ed i suoi due compagni s’aggrapparono ai pali e si issarono sulla piattaforma che serviva di base alla capanna.

Bastò a loro uno sguardo per convincersi che quell’abituro era deserto. Qualcuno però doveva abitarlo perchè sospesa a due pali vi era un’amaca di fibre di tucum abilmente intrecciate ed in un canto parecchie cuia, ossia specie di zucche tagliate a metà e ben seccate, delle quali gl’indiani si servono come recipienti.

Alonzo però, che frugava dappertutto, scoprì sotto un folto strato di foglie due piramidi di pallottole grigio-giallastre, un po’ più grosse delle uova d’oca e che parevano composte d’una specie d’argilla grassa.

— A cosa servono queste palle? — chiese stupito.

— Quelle palle indicano che il proprietario di questa capanna è un ottomaco, — disse il dottore.

— Ma cosa sono?

Poya.

— Ora ne so quanto prima, dottore.

— Allora ti dirò che costituiscono la riserva degli [p. 92 modifica]Indiani ottomachi, per quando manca la selvaggina. Le mangiano, mio caro, e con quale piacere!

— Ma non sono di terra?

— Di creta ma grassa, un po’ oleosa e mescolata con un po’ d’ossido di ferro. Un mio amico che l’ha analizzata l’ha trovata composta di silice e d’allume con un terzo di calce.

— E voi dite che gli Ottomachi mangiano questa creta?

— È verissimo, — disse don Raffaele.

— Forse come medicina?

— No, vi ho detto che la mangiano quando sono a corto di viveri, — disse il dottore. — All’epoca dello straripamento dell’Orenoco, tutta la selvaggina abbandona queste sponde per ripararsi sui monti o sulle alture, sicchè per un buon mese gl’indiani, che non hanno l’abitudine di conservare grosse provviste, si trovano ben presto in lotta colla fame. Gli Ottomachi allora ricorrono alle pallottole di creta che hanno raccolte sulle sponde del fiume e che hanno fatto seccare. Dicono che bastano per ingannare il ventre, ma aggiungerò che sono tanto ghiotti di queste poya, come le chiamano loro, che anche in mezzo all’abbondanza non possono fare a meno di rosicchiarne qualcuna dopo il pranzo. [p. 93 modifica]

— E le mangiano così dure?

— No, le bagnano e poi le divorano con un appetito formidabile.

— Ma che sapore devono avere queste pallottole?

— Di creta, ma un po’ dolce.

— Se fosse un’altra persona che mi raccontasse simili cose, vi giuro, dottore, che non crederei. Degli uomini che mangiano la terra!... S’è mai udita una cosa simile?

— Non è poi tanto sorprendente, giovanotto mio. Vi sono molti altri popoli selvaggi che mangiano la creta: i Neocaledoni per esempio, alcuni popoli dell’arcipelago indiano, alcune tribù dell’Africa ed alcune di Pelli-rosse delle rive del Makenzie, nell’America del Nord. Anche i Giavanesi mangiano la creta, l’ampo, che sono tavolette di terra cotta e ne fanno un consumo enorme.

— Ho veduto anche dei negri in alcune piantagioni a mangiare la creta, — disse don Raffaele.

— Ma la cosa più strana e inesplicabile è che in queste regioni, anche gli animali e gli uccelli, mangiano la terra, — disse il dottore. — Si direbbe che questo clima spinge uomini e animali a nutrirsene.

— Anche gli uccelli e gli animali! — esclamò Alonzo, sempre più stupito. [p. 94 modifica]

— Sì, giovanotto mio. Ho veduto io gli uni e gli altri radunarsi di notte, al chiaro di luna, nelle terre argillose e umide dette barrieros e farne delle scorpacciate. Vi erano perfino dei cinghiali, o meglio dei pecari e dei kariaku, specie di caprioli.

— E non produce dei disturbi l’argilla?

— Gravissimi, Alonzo. Gli uomini che la mangiano deperiscono lentamente, diventano tristi e finiscono col morire consunti.

— E non cessano di mangiarla?

— No, anzi tale vizio è tenace da sradicare e chi lo ha preso muore, ma non lo abbandona. Nelle piantagioni, ai negri che l’hanno preso, si mette persino una museruola di filo di ferro chiusa a chiave. Orsù ripartiamo, è inutile perdere del tempo ad attendere il padrone di questa catapecchia.

Stavano per ridiscendere, quando verso il bosco si udirono improvvisamente degli acuti clamori, grida rauche, urla furiose, poi un rompersi impetuoso di rami e finalmente videro apparire dieci o dodici indiani di alta statura, i quali s’inseguivano picchiandosi rabbiosamente.

— Gli Ottomachi! — esclamò don Raffaele.

— Sì, — disse il dottore. — In guardia, amici!... Sono ubriachi di niopo!