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94 | la città dell'oro |
— Sì, giovanotto mio. Ho veduto io gli uni e gli altri radunarsi di notte, al chiaro di luna, nelle terre argillose e umide dette barrieros e farne delle scorpacciate. Vi erano perfino dei cinghiali, o meglio dei pecari e dei kariaku, specie di caprioli.
— E non produce dei disturbi l’argilla?
— Gravissimi, Alonzo. Gli uomini che la mangiano deperiscono lentamente, diventano tristi e finiscono col morire consunti.
— E non cessano di mangiarla?
— No, anzi tale vizio è tenace da sradicare e chi lo ha preso muore, ma non lo abbandona. Nelle piantagioni, ai negri che l’hanno preso, si mette persino una museruola di filo di ferro chiusa a chiave. Orsù ripartiamo, è inutile perdere del tempo ad attendere il padrone di questa catapecchia.
Stavano per ridiscendere, quando verso il bosco si udirono improvvisamente degli acuti clamori, grida rauche, urla furiose, poi un rompersi impetuoso di rami e finalmente videro apparire dieci o dodici indiani di alta statura, i quali s’inseguivano picchiandosi rabbiosamente.
— Gli Ottomachi! — esclamò don Raffaele.
— Sì, — disse il dottore. — In guardia, amici!... Sono ubriachi di niopo!