La Città dell'Oro/19. Il pane degli indiani

19. Il pane degli indiani

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XIX.

Il pane degli indiani.

Il luogo ove avevano approdato era una lunga striscia di terra, larga forse venti metri, coperta di grandi alberi e che aveva dietro di sè una savana tremante d’una estensione così immensa che non si potevano scorgere i confini.

Su quell’istmo, che divideva le acque dell’Orenoco da quelle nere della savana, crescevano colossali bambù d’un diametro di uno o due metri; macchioni di spine ansara e di erbe taglienti che producono ferite pericolose; ammassi di calupi, piante le cui frutta tagliate a pezzi dànno una bevanda rinfrescante, e di calupi diavolo i cui semi, messi in infusione coll’acquavite, sono uno specifico contro i morsi dei serpenti; gruppi di niku, gambi sarmentosi simili alle liane, colla [p. 273 modifica]Mezz’ora dopo l’indiano sospendeva il colubro.... (pag. 284). [p. 275 modifica]scorza bruna e che tagliati a pezzi dànno un succo lattiginoso che si lascia colare negli stagni per ubriacare i pesci; poi un grande numero di palme, le graziose bactris, le nane marajà, le esili euterpe edulis, le folte cargia (atlalea spectabilis) che sono quasi senza fusto e che si curvano verso terra, le spinose javary (astrocaryum) e le grandi manassù (atlalee speciosae).

Numerosi uccelli svolazzavano fra quelle piante e sull'orlo della savana tremante: i mahitaco, piccoli pappagalli, cicalavano su tutti i toni; le arà lanciavano le loro grida acute di arà, arà; gli aracari, uccelli simili a un merlo ma col becco grossissimo volavano via a stormi; gli azulao, piccoli uccelli colle penne azzurre, canticchiavano fra i niku e le spine ansara, mentre gli japu, appollaiati sulle cime degli alberi, facevano un baccano indiavolato col loro cinguettìo sgradevolissimo.

Fra i cespugli poi, svolazzavano gli splendidi colibrì, i piccolissimi uccelli mosca chiamati anche beja-flores perché pare che bacino i fiori e dagli indiani capelli del sole o piccoli re dei fiori. Erano grossi come un tafano e mostravano, ai primi raggi dell'astro diurno, le loro splendide penne scintillanti.

V'erano anche i trochilus pella o colibrì topazii; i trochilus auratus o colibrì granato e i trochilus minimus, [p. 276 modifica]i più piccoli di tutti, ma i più battaglieri. Trillavano sull’orlo dei loro nidi graziosissimi, fatti in forma di coni rovesciati, facendo scintillare le loro piume verdi, o turchine, o nere porporine a riflessi dorati.

Gli animali invece mancavano ed anche i quadrumani, di solito numerosi sulle sponde dell’Orenoco, non facevano udire le loro grida discordi. Solamente una coppia di saiminé, o scimmie scoiattolo, saltellavano fra i rami d’una lantana camara, gentile arbusto rampicante carico di graziosi fiori variopinti.

— È un luogo tranquillo — disse Alonzo.

— E sicuro — aggiunse il dottore. — Questa savana tremante impedirà ai misteriosi indiani, che si ostinano a perseguitarci, di sorprenderci.

— A te, Yaruri — disse don Raffaele. — Affidiamoci all’uomo dei boschi.

— Prima di tutto pensiamo al canotto — rispose l’indiano. — Ecco là un grosso bambù che fa per noi.

— È grosso come una botte — disse Alonzo. — Sarà facile abbatterlo?

— Impossibile per un uomo bianco, ma non per un indiano — rispose Yaruri.

— Resisterà alla scure?

— L’arma rimbalzerebbe senza intaccarlo. Questi bambù sono leggeri ma tenaci. [p. 277 modifica]

— Ed allora come farai ad atterrare questo gigante?

— Lo vedrete, — rispose Yaruri.

Si mise a raccogliere dei rami morti e li accumulò alla base del bambù, poi vi diede fuoco.

— Ecco fatto, — disse. — Il legno si consumerà lentamente ed il colosso questa sera cadrà. Intanto possiamo metterci in cerca di viveri per preparare le nostre provviste di viaggio.

— Non so dove ne troverai, — disse Alonzo. — Non vedo che uccelli.

— La foresta ha mille risorse per l’indiano — rispose Yaruri. — Voi incaricatevi della selvaggina, ed io ed il padrone penseremo a procurare il pane.

— Quello dei palmizi forse?

— No, il manioca, — rispose Yaruri.

— Ma speri di trovarne qui? — chiese don Raffaele, con tono incredulo.

— Qui no, ma presso la cascata sì. Un tempo vi sorgeva una missione di padri bianchi e so che gl’indiani vanno ancora a raccogliere la manioca.

— Verremo con te, — disse Alonzo. — Sono curioso di vedere questa pianta e di assistere alla preparazione della farina.

— Ma non abbiamo nè un colubro, nè uno staccio, nè una piastra di ferro per cucinarla, — disse il dottore. [p. 278 modifica]

— Yaruri avrà tutto, — rispose l’indiano. — In cammino.

— Ma io ho fame, — disse Alonzo. — La foresta non potrebbe regalare qualche cosa all’indiano?

Yaruri gettò intorno un rapido sguardo, poi prese una fiaschetta che il dottore portava appesa alla cintola, dicendo:

— La foresta vi offre del latte.

— Hai scorto qualche mucca? — chiese Alonzo, ridendo.

Yaruri non rispose, ma s’avvicinò ad un grande albero col tronco liscio, alto dai venticinque ai trenta metri, colla corteccia rossastra e coi rami carichi di frutta rotonde, grosse come aranci e giallastre.

— La mimosops balata, — disse il dottore. — Avremo del buon latte che nulla avrà da invidiare a quello delle mucche.

L’indiano aveva estratto il coltello e fatta sul tronco di quell’albero una profonda incisione. Tosto un getto di succo lattiginoso zampillò, cadendo entro la fiaschetta del dottore.

— A voi, — disse l’indiano, porgendola ad Alonzo. — Bevete.

Il giovanotto, dopo una breve esitazione, mandò giù due o tre sorsi. [p. 279 modifica]

— Ma è vero latte! — esclamò. — Foresta benefica!... Si sono mai veduti degli alberi surrogare le bovine?

— Bevete, o il succo sfuggirà tutto, — disse l’indiano.

Alonzo vuotò la fiaschetta, poi bevettero il piantatore, Velasco e ultimo Yaruri.

— Ora in marcia, — disse questi.

Rinvigoriti da quel latte, si misero in cammino costeggiando la savana tremante e oltrepassata la lunga lingua di terra che la divideva dal fiume, guadagnarono la grande foresta che si estendeva lungo la cateratta.

Yaruri s’arrestò alcuni istanti per orientarsi, poi condusse i suoi compagni nel folto della selva e s’arrestò sul limite d’una radura, in mezzo alla quale si vedevano ancora sorgere gli avanzi di alcune capanne.

Tutto all’intorno il terreno era diboscato per un grande tratto e portava ancora tracce di coltivazione. Qua e là crescevano alberi di cocco, ma ormai mezzi selvatici; banani già carichi di frutta deliziose e profumate; piante di batolo le cui foglie, messe in infusione, calmano le febbri, piante di tabacco che un tempo dovevano aver servito alla missione; aranci, cedri, mangli che si curvavano sotto il peso dei loro frutti che sono eccellenti e succosi ma impregnati d’un [p. 280 modifica]legger sapore di terebintina, qualche albero di cacao e qualche pianta di caffè, ma ormai semi-infruttifera per mancanza di cure.

Yaruri però non si curava di quelle piante. Egli mosse diritto verso certe pianticelle, sollevò rapidamente la terra ed estrasse un grosso bulbo somigliante ad una patata, esclamando:

— La manioca!... Il pane è assicurato.

— È buona questa manioca? — chiese Alonzo.

— Eccellente, — rispose il dottore.

— Assaggiamola.

— Sei pazzo! — esclamò Velasco. — Se la mangi così morrai.

Alonzo lo guardò con stupore.

— Ma contengono del veleno questi bulbi?

— E potente, giovanotto mio. Basta una piccola dose del succo di questi tuberi per produrre vomiti, convulsioni, gonfiezza del corpo e quindi la morte.

— Ma come si mangiano adunque?

— I bulbi devono prima subire una speciale preparazione per sbarazzarli del succo velenoso. Vedrai Yaruri all’opera.

— Tutti gl’indiani sanno prepararli?

— Tutti, e nell’America del Sud si fa un consumo enorme di cassava e di cuac. [p. 281 modifica]Nel vederlo, Yaruri si era fermato mormorando: — Tu, Sipana?... (pag. 296). [p. 283 modifica]

— Cosa sono la cassava e il cuac?

— Te lo dirò poi. Al lavoro.

L’indiano continuava a scavare aiutandosi col suo largo coltello e accumulava i bulbi. Don Raffaele ed il dottore si accomodarono per terra, si misero a pelarli, poi a tagliarli in fette sottili.

— Sarebbe necessaria una raspa, — disse il dottore ad Alonzo, — ma in mancanza di questa faremo col coltello.

— Posso aiutarvi?

— Sì, ma bada a non ferirti, poichè una scalfittura fatta con un coltello bagnato nel succo di questi tuberi produce la morte.

— Agirò con prudenza, dottore. Ma non vi è alcun antidoto per questo veleno?

— Sì, uno solo, il succo della rundiroba cardifolia, ma non ho veduto nessuna di queste piante in questa foresta.

Yaruri aveva terminata la raccolta e si era seduto dinanzi ad un ammasso di foglie che aveva prese nella foresta. Erano di palme murumurò, adoperate dagli indiani per fabbricare delle stuoie finissime.

L’indiano le intrecciava rapidamente formando una specie di budello lungo e grosso come la coscia d’un uomo. [p. 284 modifica]

— Cosa intreccia? — chiese Alonzo al dottore.

— Prepara il colubro, — rispose questi.

— Ma a cosa servirà quel budello? A fare dei salami forse?...

— A sbarazzare la manioca del veleno. Affrettiamoci, chè Yaruri ha quasi terminato.

Mezz’ora dopo l’indiano sospendeva il colubro, che era lungo due metri, al ramo d’un albero e lo riempiva, a tutta forza, in modo da farlo quasi scoppiare, di pezzi di manioca. Ciò fatto si mise a comprimerlo cominciando dall’estremità superiore, facendo schizzare, attraverso i pori delle foglie, un succo lattiginoso. Era il veleno.

Spremuta per bene quella polpa farinacea, di colore giallastro, l’indiano vuotò il colubro e ripetè l’operazione con tutta l’altra, aiutato dal piantatore e anche da Velasco.

— È mangiabile ora? — chiese Alonzo che seguiva attentamente quel lavoro.

— Non ancora, — rispose il dottore. — La manioca non s’è sbarazzata del tutto del veleno e potrebbe ancora procurarti la morte.

— Cosa richiede ancora prima di venire adoperata?

— Innanzi tutto uno staccio per sbarazzare queste fecole dei filamenti che contengono. [p. 285 modifica]

— Ma noi non lo possediamo.

— S’incaricherà Yaruri di fabbricarlo colle fibre dei cocchi.

— E poi?

— Poi Yaruri con dell’argilla fabbricherà un piatto, non possedendo noi alcuna piastra di ferro. Stenderà la manioca su quel piatto e la lascierà seccarsi a lento fuoco per far sparire gli ultimi residui di veleno. Si potrebbe farne anche a meno però della piastra, poichè lasciando la manioca un paio di giorni all’aria libera, perde egualmente le sue proprietà velenose.

— E perchè?

— Pel semplice motivo che il veleno della manioca si volatilizza al pari dell’acido cianidrico. La farina ottenuta si chiama cuac e si mette in commercio entro barili ove si conserva benissimo per lungo tempo.

— E le cassava cosa sono?

— Sono le gallette fatte colla farina di manioca.

— È vero, dottore, che questi tuberi sono molto nutritivi?

— Basta mezzo chilogrammo di cassava per nutrire ed abbondantemente un uomo per ventiquattro ore.

— Allora noi abbiamo qui....

— Tanto cuac da vivere un mese. [p. 286 modifica]

In quell’istante verso la savana tremante echeggiò uno schianto formidabile.

— Cosa succede? — chiese Alonzo afferrando il fucile.

— È il bambù che è caduto — rispose il dottore. — Fra due giorni avremo anche un canotto.