La Città dell'Oro/13. I succhiatori di sangue

13. I succhiatori di sangue

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XIII.

I succhiatori di sangue

I due cacciatori, raccolte le armi e alcune bistecche di formichiere, s’affrettarono ad abbandonare quel luogo che diventava ormai malsicuro, essendosi spento il fuoco per mancanza di legna secca.

L’urlo del secondo giaguaro si era udito verso un gruppo enorme di mauritie. Volsero le spalle e fuggirono in direzione opposta, cercando di non incespicare contro i tronchi degli alberi atterrati, i cespugli e le liane le quali formavano, talvolta, delle reti inestricabili.

Quantunque l’oscurità fosse molto profonda, poterono avanzarsi in quella nuova direzione per più di un’ora, senza incontrare nessun altro animale. Stavano per arrestarsi onde cercare un albero adatto per passarvi la notte, quando credettero di udire confusamente un sordo fragore. [p. 185 modifica]Alle due detonazioni tenne dietro un ruggito formidabile... (pag. 181). [p. 187 modifica]

— Ascolta, Alonzo — disse il dottore.

— È il fiume! — esclamò il giovinotto, che si era curvato verso terra.

— Ne sei certo?

— No... non m’inganno.

— Si ringrazii Iddio! Accorriamo!

I due cacciatori si misero a correre attraverso la foresta in preda ad una viva ansietà, avvicinandosi sempre più a quel fragore che diventava di minuto in minuto più distinto.

— Presto! Presto! — ripeteva il dottore, che faceva sforzi straordinari per tenere dietro ad Alonzo. — Fra breve saremo a bordo della scialuppa.

Dieci minuti dopo sfondavano una triplice linea di macumucù e giungevano sulle sponde dell’Orenoco.

— Urrah! — gridò Alonzo.

— Vedi la scialuppa? — chiese il dottore con voce rotta.

— Sì, la vedo a trecento passi da noi.

— Don Raffaele! Don Raffaele!

Nessuno rispose alla tuonante chiamata del dottore.

— Che dormano? — si chiese. — Scarica il tuo fucile, Alonzo.

Il giovanotto ubbidì. Lo sparo si ripercosse nei boschi della sponda opposta ed in quelli che s’allunga[p. 188 modifica]vano verso la foce del Cassanare, ma nessuna detonazione rispose.

— Cosa vuol dir ciò? — mormorò il dottore, impallidendo.

— Forse saranno nei boschi in cerca di noi — disse Alonzo.

— Possa esser vero: affrettiamoci.

Ripartirono con passo rapido seguendo la sponda del grande fiume, avvicinandosi alla scialuppa che si cullava nell’istesso posto ove l’avevano lasciata la sera precedente.

Stavano per raggiungerla, quando videro due grossi volatili che rassomigliavano a giganteschi pipistrelli, alzarsi presso il tronco d’una simaruba e volarsene via emettendo due strida di spavento.

— Cosa sono? — chiese Alonzo.

— Due vampiri, — rispose il dottore, facendo un gesto di ripugnanza, — due luridi succhiatori di sangue.

— Ma... non vedete nulla presso quella simaruba?

— Cosa vedi?

— Due forme oscure.

— Forse degli animali dissanguati dai due vampiri?

— Dottore... no... non sono due animali — balbettò Alonzo. [p. 189 modifica]

— Cosa vuoi dire? — chiese Velasco.

— Sono due uomini!...

— Gran Dio!...

Velasco si era precipitato ai piedi del simaruba. Un grido d’orrore gli uscì dal petto.

Don Raffaele e l’indiano giacevano appoggiati contro il tronco dell’albero, come se dormissero, ma entrambi erano imbrattati di sangue, il quale colava lentamente dalle loro tempie.

— Una torcia, Alonzo!... — gridò il dottore.

Il giovanotto con un balzo si gettò nella scialuppa, frugò rapidamente in una cassa, trasse una candela, l’accese e si precipitò verso il dottore.

— Sono stati assassinati? — gridò con voce rauca.

— No — disse Velasco che aveva acquistato rapidamente il suo sangue freddo. — Sono stati dissanguati dai vampiri che abbiamo veduti volare via.

— E sono morti?

— No, ma svenuti per la perdita di sangue.

— Non corrono pericolo alcuno?

— Rimarranno deboli per alcuni giorni, ma nulla di più. Se tardavamo a giungere però, poteva a loro toccare di peggio. Attendimi un istante.

Il dottore si recò nella scialuppa, prese una piccola farmacia portatile ed estratta una fiala di essenza for[p. 190 modifica]tissima, la fece fiutare replicatamente a don Raffaele e all’indiano.

Dopo alcuni istanti, entrambi riaprivano gli occhi.

— Dove sono? — chiese il piantatore con voce debole.

— Fra i vostri compagni — rispose il dottore.

— Ma... cos’è accaduto?... Mi sento debole... assai debole.

— I vampiri vi hanno dissanguato.

— Ah! I malefici volatili — mormorò don Raffaele, rabbrividendo. — Ed Alonzo?

— Eccomi, cugino.

— Siete tornati... tardi.

— Ci siamo smarriti nella foresta, Raffaele.

— Quante... inquietudini. E... gl’indiani?...

— Non li abbiamo veduti — disse Velasco. — E voi?

— Le tracce... le tracce...

Non potè dire di più. Ricadde pesantemente a terra e si assopì. L’indiano già russava sonoramente.

— Lasciamoli riposare tranquilli — disse il dottore. — Un riposo prolungato farà bene a loro.

— Ma non v’è proprio alcun pericolo?

— No, Alonzo, te l’ho già detto.

— Ma cosa sono questi vampiri? [p. 191 modifica]

— Enormi pipistrelli che succhiano il sangue agli uomini ed agli animali che trovano addormentati.

— Ma sentendosi dissanguare, non si svegliano le vittime?

— No, poichè i vampiri operano con una delicatezza infinita. Essendo forniti d’una piccola tromba formante una ventosa e armata di papille perforanti, calano lentamente sulla persona addormentata, forano la pelle lentamente, senza produrre dolore e cominciano a succhiare. Onde l’uomo non si svegli, hanno la precauzione di agitare lentamente le ali, procurando all’addormentato una leggera corrente d’aria. Quando sono gonfi di sangue da scoppiare, se ne volano via, e se l’uomo o l’animale non si svegliano, corrono il pericolo di morire, continuando il sangue ad uscire dalla ferita.

— Che ributtanti volatili!

— Sono veri assassini, che uccidono a tradimento, senza correre pericolo.

— Dottore, avete udito cosa ha detto Raffaele?

— Delle tracce degli indiani?

— Sì.

— Forse avrà scoperto qualche cosa. Attendiamo che si svegli.

Accesero della legna secca per tenere lontane le [p. 192 modifica]zanzare che sull’Orenoco si radunano a milioni e che producono atroci punture, e si sdraiarono presso ai compagni, sorvegliando attentamente la vicina foresta e la sponda del fiume.

La notte però passò tranquilla, quantunque più volte sotto le fitte piante, echeggiassero i miagolamenti formidabili dei giaguari e le urla dei coguari; animali questi più piccoli e meno feroci dei primi, ma pur sempre pericolosi.

Verso l’alba don Raffaele, che aveva dormito profondamente, si svegliò. Era però sempre assai debole; tuttavia si alzò da solo e si diresse verso la scialuppa dicendo ai compagni:

— Bisogna partire.

— Siete pazzo, amico mio? — disse il dottore. — Vi occorre del riposo.

— Riposerò più tardi. Del resto con del buon vino e della carne mi rimetterò presto in forza.

— Ma che necessità vi è di partire?

— Gl’indiani ci precedono.

— Quali? Quelli della freccia? — chiese Alonzo.

— Sì, cugino.

— Ma cos’hai scoperto?

— Le loro traccie.

– Raccontate, don Raffaele – disse il dottore. [p. 193 modifica]— Sono stati assassinati? — gridò con voce rauca (pag. 189). [p. 195 modifica]

— Imbarchiamoci prima. Dov’è Yaruri?

— Eccomi, padrone — rispose l’indiano, che li aveva raggiunti.

— Puoi tenere la barra?

— Sì, padrone.

— Imbarchiamoci.

Il dottore ed Alonzo s’affrettarono a spiegare le vele, e la scialuppa, spinta da una leggiera brezza, si mise a risalire il fiume con velocità stimata non inferiore ai quattro nodi.

— Ora potete parlare, don Raffaele — disse il dottore. — Siamo impazienti di sapere come avete scoperto le tracce degli indiani che ci lanciarono quella freccia.

— Temo che qualcuno ci abbia traditi, amici — disse il piantatore. — Quegli indiani, ormai ne son certo, ci precedono per prepararci forse un agguato.

— Ma da chi traditi?... Non vi era nessuno sulla terrazza, fuori di noi.

— Non lo so, ma ascoltatemi: io e Yaruri ci eravamo inoltrati nelle foreste del Cassanare, quando in mezzo ad una fitta macchia trovammo un fuoco che non era ancora completamente spento. Sulla terra umida si vedevano le tracce di due calci di fucile e delle orme di piedi nudi; di più trovammo una freccia eguale a [p. 196 modifica]quelle lanciate contro di voi. Voi sapete che gli indiani sono famosi nel seguire le orme e Yaruri si mise a seguirle finchè giungemmo sulla sponda del Cassanare. Colà trovammo, profondamente impressa nel fango, la traccia d’un canotto. Invano lo cercammo, seguendo le rive, e girammo la foce del fiume, ma poco dopo il tramonto vedemmo un punto nero che spiccava sulle acque biancastre dell’Orenoco. Non si poteva sbagliare: era il canotto che fuggiva verso l’ovest rimontando la corrente.

— Ma chi possono essere quegli indiani? — chiese il dottore, dopo alcuni istanti di silenzio.

— Ecco quello che ignoro — rispose il piantatore.

— Non avete alcun sospetto?

— Nessuno finora.

— Ed io ho sempre in mente quel grido che udimmo sulla terrazza, don Raffaele.

— Che qualcuno abbia seguito Yaruri, sospettando lo scopo della sua fuga dalla sua tribù?

— È possibile anche questo.

— Ma sai almeno, cugino mio, di chi vuol vendicarsi Yaruri?

— Sono riuscito a saperlo — disse don Raffaele, abbassando la voce. — Egli era uno dei più valorosi indiani della tribù dei Cassipagotti, alleata degli Epe[p. 197 modifica]romerii e degli Orecchioni, ma assai ambizioso, a quanto ho potuto comprendere, e aspirava a diventare il capo supremo dei figli del Sole. Ma un altro, pure valoroso, aspirava a tale carica, certo Yopi. Morto il capo, si contesero accanitamente la carica, ma pare che le tribù alleate fossero più favorevoli alla nomina di Yopi che a quella di Yaruri. Il fatto è che quest’ultimo non fu nominato e giurò odio eterno, non solo contro il rivale, ma anche contro tutte le tribù. Egli certo sapeva degli sforzi tentati dagli esploratori bianchi per accertare l’esistenza della famosa città e perciò è venuto da noi. Senza dubbio egli spera in una invasione d’uomini bianchi per far precipitare Yopi.

— Non facciamo una bella parte in questa faccenda, cugino — disse Alonzo. — Ci facciamo i paladini d’un traditore.

— A me basta constatare l’esistenza dell’Eldorado, — disse don Raffaele, — e ciò nell’interesse della storia e della geografia. Di Yopi e di Yaruri non mi occuperò e li lascerò a disputarsi il potere. Se non avremo i tesori promessici da Yaruri, ne faremo senza. Sono abbastanza ricco oggi e tu, lo sai bene, sei il mio erede.

— Grazie, cugino — disse Alonzo, sorridendo. — Ma quando saremo giunti a Manoa, Yaruri reclamerà il nostro aiuto. [p. 198 modifica]

— Cercheremo di fare qualche cosa per lui, ma se le tribù dei figli del Sole rifiutano di accettarlo come capo, se la sbrigherà da solo.

Un urto violentissimo che per poco non capovolse la scialuppa, li fece cadere l’uno addosso all’altro, troncando di colpo la conversazione.

— Mille fulmini! — esclamò Alonzo, rialzandosi prontamente. — Cosa succede?

— Yaruri, abbiamo urtato? — chiese don Raffaele.

— Ma no, padrone — rispose l’indiano. — Non vi sono rocce, nè bassifondi dinanzi a noi.

Un nuovo urto, più potente del primo fece indietreggiare la scialuppa e la rovesciò sul babordo, facendole imbarcare parecchie ondate.

Don Raffaele ed i suoi compagni, impugnate delle scuri e dei fucili si precipitarono verso prua e videro una massa enorme agitarsi dinanzi alla scialuppa.

— Un lamantino! — gridò il dottore. — Mano alle scuri ed ai fucili!