L'uomo di mondo/Atto III
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ATTO TERZO.
SCENA PRIMA.
Camera in casa del Dottore.
Eleonora e Beatrice.
Beatrice. Appunto, signora Eleonora, desideravo che terminasse la tavola per parlarvi da solo a solo. Permettetemi ch’io vi dica aver conosciuto benissimo, che avete dell’inclinazione per il signor Momolo...
Eleonora. Sono una fanciulla...
Beatrice. Egli è vero, e non siete per questo da essere rimproverata, nè sopra di ciò intendo io di discorrere. Quel che ho voglia di dirvi, risguarda soltanto la mia persona...
Eleonora. Voi siete finalmente...
Beatrice. Permettetemi ch’io finisca il mio ragionamento. Sono una donna d’onore, signora mia, e le parole vostre e i vostri delicati motteggi mi fanno dubitare che sospettiate di me. Stimo il signor Momolo, le sono obbligata per qualche piacere ch’egli ha fatto a mio marito, ma non sono capace...
Eleonora. Non vi è bisogno...
Beatrice. Sì, signora. Vi è bisogno che voi sappiate che io non sono capace di certi amori sospetti, e che temendo di disgustarvi, siate1 certa che il signor Momolo non lo tratterò più, fino ch’io resti in Venezia. Eleonora, Non mi crediate così indiscreta...
Beatrice. So il mio dovere in questo...
Eleonora. Volete parlar voi sola?
Beatrice. Compatitemi. Si tratta dell’onor mio.
Eleonora. Vi confesso ch’io l’amo, confesserò ben anche che ho avuto di voi qualche picciola gelosia, fondata unicamente sul vostro merito; ma vi son altre che mi fan sospirare, e che non hanno nè il vostro carattere, nè la vostra virtù. Pure mi lusingo di vincerlo colla sofferenza.
Beatrice. Certamente coi giovani di quell’età e di quello spirito non si può sperar di vincere diversamente.
Eleonora. Eccolo alla volta nostra.
Beatrice. A rivederci, amica.
Eleonora. Restate...
Beatrice. No, certo. So le mie convenienze. (parte)
SCENA II.
Eleonora, poi Momolo.
Eleonora. Parmi vedere in lui un certo rispetto verso di me, che un giorno potrebbe anche cangiarsi in amore.
Momolo. Siora Leonora, la prego de compatirme. L’averà ben capio dal carattere de quella signora, se mi gh’ho nissuna cattiva intenzion.
Eleonora. Son persuasa di questo. E credo che siate tanto indifferente con lei, quanto lo siete con me.
Momolo. No, patrona, ghe xe qualche differenza, e gnanca tanto pochetta.
Eleonora. Chi sta peggio da lei a me?
Momolo. Non so gnente. So che co ve vedo, me sento un certo bisegamento in tel cuor, che in mi xe qualcossa de straordinario.
Eleonora. Permettetemi che io mi faccia interprete del vostro cuore. Un’occulta simpatia lo fa inclinare forse alla mia persona, e voi, nemico del vostro medesimo cuore, volete opporvi alle sue inclinazioni.
Momolo. Ve dirò, siora Leonora; no me oppono all’inclinazion del cuor, ma ve digo ben che per ascoltarlo no voggio perder la libertà.
Eleonora. Dunque per me non vi è speranza veruna.
Momolo. (No la voria desgustar). (da sè) Chi sa? Poi darse col tempo, che me mua de opinion.
Eleonora. Bramo una consolazione da voi, senza che perdiate la libertà.
Momolo. Comandeme.
Eleonora. Se chiedo, temo che mi neghiate il favore.
Momolo. Me fe torto a dubitar. Fora dell’impegno d’un matrimonio, ve prometto tutto quel che volè.
Eleonora. Voi per ora non vi volete ammogliare2.
Momolo. No certo.
Eleonora. Ma non siete determinato di voler vivere sempre così.
Momolo. Certo, che me poderave scambiar.
Eleonora. Promettetemi dunque che, risolvendo di maritarvi, non isposerete altra donna che me.
Momolo. Sì, ve lo prometto. Ma vu avereu pazienza de aspettar che me vegna sta volontà?
Eleonora. Sì, certo, ve lo prometto, ve lo giuro, vi aspetterò.
Momolo. E se stasse dies’anni?
Eleonora. Per tutto il tempo della mia vita. È troppo grande l’amore che ho per voi. La sola speranza basta per consolarmi.
Momolo. Patti chiari. Con tutto sto impegno mi no vôi suggizion. No gh’ha da esser pettegolezzi de zelosia.
Eleonora. Mi riporterò sempre alla vostra discrezione.
Momolo. (Questo el xe un amor particolar). (da sè)
Eleonora. (Spero colla cortesia di obbligarlo). (da sè)
Momolo. Siora Leonora, a bon reverirla, vago dalla mia ballarina.
Eleonora. Pazienza. Ricordatevi qualche volta di me.
Momolo. (Se stago troppo, me cusino de fatto). (da sè) Brava, cussì me piase. Pol esser che in sta maniera la indovinè. A revederse.
Eleonora. Addio, caro.
Momolo. Bondì... (tenero) (Oe, Momolo, forti in gambe). (da sè, e parte)
Eleonora. È una gran pazienza la mia, dover soffrire la gelosia, senza dimostrarla. Basta, confido nel tempo. Momolo non ha il cuore di sasso; si piegherà, se non altro, al merito della mia tolleranza. (parte)
SCENA III.
Strada colla casa e colla locanda.
Ludro, poi Momolo.
Ludro. No ghe vôi andar in casa de sior Dottor. Xe meggio che l’aspetta qua sior Momolo. Se vago desuso, e che el diavolo fazza che qualchedun senta sto negozio che ghe voggio far far, i me rebalta a drettura. El xe avisà, el doverave venir. Zitto, che el xe elo.
Momolo. Seu qua, sior Ludro?
Ludro. Son qua. Xe da sta mattina in qua, che cammino. Al dì d’ancuo se stenta a trovar bezzi, specialmente senza pegno.
Momolo. Li aveu trovai?
Ludro. A forza de suori ho trovà i mille ducati.
Momolo. Bravo. Dove xeli?
Ludro. A pian, che ghe xe da discorrer.
Momolo. Coss’è? Scomenzemio a contar sul trenta?
Ludro. Oibò. L’amigo che fa el servizio, no xe de quelli che voggia scortegar la pelle ai galantomeni. El se contenta de un onesto vadagno; nol pretende più del sie per cento; mezzo per cento al mese, a uso de piazza.
Momolo. Benissimo; fin qua no gh’è mal.
Ludro. El negozio bisogna che ve contente de farlo per tre anni.
Momolo. E se i so bezzi ghe li dago avanti?
Ludro. Degheli co volè, ma el contratto bisogna farlo per tre anni.
Momolo. Femolo per tre anni. Al sie per cento.
Ludro. Mille ducati al sei per cento importa sessanta ducati all’anno. Tre fia sessanta, cento e ottanta; el prò de tre anni importa cento e ottanta ducati, e questi bisogna dargheli subito, avanti tratto.
Momolo. E se ghe li dago avanti?
Ludro. No ghe li dare; ma se anca ghe li dessi, co xe paga, xe paga. Donca de mille ducati resta ottocento e vinti; batter cento e diese ducati, che m’ave da dar per la sigurtà del forestier...
Momolo. Quelli ve li darò doman, se elo no ve pagherà.
Ludro. Caro sior Momolo, per vu xe l’istesso. Resta settecento e diese ducati; batter da questi la mia sanseria sul corpo dei mille ducati, al do per cento (che manco no me podè dar), resta siecento e nonanta ducati, e questi ve obbligherè a pagarli in tre rate a dusento e trenta ducati all’anno, e no so che grossia.
Momolo. Donca, compare Ludro, questi xe tresento e diese ducati de manco, che me vien in scarsela, e ho da pagar el prò de mille; e de più, pagando un terzo all’anno de capital, ho sempre da pagar el prò dell’intiero. Un bel negozio, che me volè far far! Ma pazenzia! per una volta se pol far un sproposito. Andemo a tor i bezzi, e farò la cambial.
Ludro. (Se lo so, che el gh’ha da cascar). (da sè) Aspettè; bisogna che ve averta d’un altra cossa. Sappiè che l’amigo no gh’ha altro che tresento ducati in bezzi, e el resto el ve lo darà in tanta marcanzia.
Momolo. Semo qua co la solita stoccada. Che marcanzia xela?
Ludro. Bella e bona, che se saverè far, ghe vadagnerè drento.
Momolo. Via, sentimo che sorte de roba, che el me vol dar.
Ludro. Tolè, questa xe la nota dei capi de marcanzia, che el gh’ha da darve; e se questa no ve serve, no ghe xe altro.
Momolo. Sentimo: (legge, di quando in quando scuotendosi) Otto lettiere da letto, quattro de ferro, e quattro de legno intaggià, coi so pomoli dorai, senza una tara immaginabile, a rason de trenta ducati l’una, val ducati dusento e quaranta. Una botta de vin guasto da far acquavita, mastelli dodese, a rason de cinque ducati al mastello, val ducati sessanta, e la botta ducati diese. Caregoni de bulgaro quattro, a diese ducati l’un, ducati quaranta. Scatole da perucche numero cento, a mezzo ducato l’una, vai ducati cinquanta. Do ferriade da balcon ducati cinquanta. Guanti de camozza ducati vinti, e el resto in tanti corni de buffalo a peso, in rason de sie ducati la lira. Ah, tocco de fio, e de fionazzo, questi xe contratti da proponer a un galantomo della mia sorte? Tiolè, sior poco de bon, e diseghe a quel furbazzo, vostro compagno, che ha fatto sta nota, che no son desperà, e che gh’ho ancora diese ducati da farghe scavezzar i brazzi a elo e anca a vu.
Ludro. Mi me sfadigo per farve servizio, e vu cussì me trattè?
Momolo. Andè via de qua, che adessadesso me scaldo, e se la me monta, ve ne arecorderè per un pezzo.
Ludro. Deme i mi trenta zecchini.
Momolo. Ve li darò quando che vorò, sior baro da carte.
Ludro. Son un galantomo; e no se tratta cussì.
Momolo. No zigar, che te dago un pie in tela panza.
Ludro. E se no me darè i mi bezzi... (forte)
Momolo. Via, sior furbazzo. (gli vuol dare)
SCENA IV.
Il Dottore di casa e detti.
Dottore. Che cosa c’è? Signor Momolo, con chi l’avete?
Momolo. La gh’ho con quel poco de bon.
Dottore. Che cosa vi ha egli fatto?
Momolo. Gnente, gnente.
Ludro. Adessadesso ve svergogno in fazza de tutto el mondo.
Momolo. Mi no fazzo cosse, che m’abbia da far vergognar. Sior sì, son in caso d’aver bisogno de mille ducati; ghe l’ho dito a costù, el me li ha trovai con un stocco de sta natura, che de mille ducati ghe ne aveva a pena tresento. Un omo d’onor ste cosse noi le pol sopportar.
Dottore. Meriterebbero la galera questi sicari della povera gioventù.
Ludro. Basta, arecordeve i mi trenta zecchini.
Momolo. Son galantomo, doman ve li farò aver forsi a casa; ma andè via subito.
Ludro. Benissimo; tornè da mi, che ve servirò pulito.
Momolo. No ve indubitè, che no ghe torno più, compare.
Ludro. (Za sta roba che Momolo no ha volesto, troverò qualcun) altro che la torà. Dei desperai ghe n’è sempre). (da sé, e parte)
SCENA V.
Momolo ed il Dottore.
Momolo. Cossa diseu, che razza de zente che se trova a sto mondo?
Dottore. Guai a quelli che han bisogno di loro.
Momolo. Veramente xe un poco de vergogna, che mi me trova in sto caso, ma, grazie al Cielo, gh’ho tanto al mondo, che con un anno solo de regola posso remetterme facilmente; e sta insolenza de Ludro prencipia a illuminarme, e farme toccar con man a cossa se se reduse colla mala regola, e col no pensar ai so interessi.
Dottore. Quantunque, per dir il vero, vi piaccia un po’ troppo l’allegria, si sente dalle vostre parole che avete buon fondo, e solo che vogliate farlo, si può vedere da voi una ragionevole mutazione. Per l’avvenire consigliatevi colla vostra prudenza, ma intanto, se le vostre urgenze vi obbligano a rimediare a qualche impegno, a qualche disordine, signor Momolo, fra gli amici non ci vogliono cerimonie, mille ducati li ho, grazie al Cielo, e sono a vostra disposizione.
Momolo. Son confuso per tanta bontà, che gh’avè per mi. Se sarò in bisogno, me prevalerò delle vostre grazie.
Dottore. Non occorre vergognarsi cogli amici. Ecco qui una borsa con cento zecchini, e il resto dei mille ducati sono pronti, sempre che li vogliate.
Momolo. Per farve veder che fazzo capital delle vostre grazie, torò trenta zecchini in prestio, per pagar una piezaria. Gh’ho qualche debito, ma i me crede, e pagherò quanto prima, e senza aggravarme de più, me regolerò in te le spese.
Dottore. Eccovi trenta zecchini e più, se volete.
Momolo. Andemo, che ve farò la ricevuta.
Dottore. Mi maraviglio; coi giovani della vostra sorte non vi è bisogno di ricevuta.
Momolo. Sempre più me trovo obbligà e confuso. Credeme, sior Dottor, che pensando ai mi desordeni me vien malinconia.
Dottore. Eh, caro amico, io ho motivo di rattristarmi da vero.
Momolo. Per cossa?
Dottore. Per causa di mio figliuolo.
Momolo. Coss’halo fatto sior Lucindo?
Dottore. Avete osservato, che oggi non è nemmeno venuto a pranzo?
Momolo. Xe vero. Cossa vol dir?
Dottore. Ho scoperto ch’egli ha la pratica di una ragazza, che dicesi voglia fare la ballerina.
Momolo. Pur troppo xe vero. Mi no gh’aveva coraggio de dirvelo; ma ghe l’ho visto in casa più di una volta.
Dottore. Ci andate voi da colei?
Momolo. Sior sì, ghe vago qualche volta.
Dottore. Per amor del Cielo, vi supplico, vedete di far in modo che mio figliuolo non ci vada, che non si precipiti.
Momolo. Lassè far a mi, ve prometto che noi gh’anderà.
Dottore. Ma non vorrei per allontanar Lucindo, che v’impegnaste voi con la donna.
Momolo. No, no; son anzi in caso de disimpegnarme.
Dottore. Caro signor Momolo, abbiate a cuore la vostra riputazione.
Momolo. Con un poco di tempo le cosse anderà pulito.
Dottore. Pensate a maritarvi.
Momolo. Ghe penserò, chi sa che no me rissolva?
Dottore. Ma prima, ehi, in confidenza, pensate a cambiar vita.
Momolo. Certo che bisognerà...
Dottore. Vi raccomando l’affare di mio figliuolo. (parte)
Momolo. Nol xe sta a disnar a casa, poi esser benissimo che el sia dall’amiga, e che la cara siora Smeraldina scomenza a far el mestier della ballarina colle scondariole. Vôi andar subito, e se lo trovo... Gran obbligazion che gh’ho co sto sior Dottor! a bon conto pagherò sta piezaria, per no far dir de mi da quel desgrazià. Un cortesan onorato xe stimà da tutti; e anca in miseria, co no s’intacca la pontualità, se pol dir a tutti l’anemo soo, e no xe mai perso tutto, co resta el capital dell’onor. (parte)
SCENA VI.
Camera di Smeraldina, con tavola apparecchiata per mangiare e lumi.
Smeraldina e Lucindo.
Smeraldina. Stemo un poco in allegria tra de nu. Magnemo un bocconcin in pase; za sior Momolo de sera no vien.
Lucindo. Non vorrei che capitasse quel diavolo di vostro fratello.
Smeraldina. Se el vegnirà, lo sentiremo. Lasse far a mi, che lo farò taser. Via senteve, e magnemo. (siedono)
Lucindo. Che dirà vostro fratello, se ci vede mangiare?
Smeraldina. Cossa porlo dir? Magnemio gnente del soo?
Lucindo. Se sa che voi mi avete dato l'anello da impegnare, povero me!
Smeraldina. Vardè che casi! l’anello xe mio, el me xe sta donà, posso far quel che voggio.
Lucindo. Chi ve l’ha dato? Il signor Momolo?
Smeraldina. Sì ben, Momolo me l’ha dà.
Lucindo. Un giorno spero che anch’io sarò in caso di regalarvi.
Smeraldina. Me basta che me voggiè ben.
Lucindo. Mi dispiace in verità; ho rossore a pensare che, in vece di donarvi qualche cosa del mio, abbia dovuto, per fare una piccola cena, impegnare un vostro anelletto.
Smeraldina. Mo via, fenila; no parlè de ste cosse, ve darave altro che un anello. Se vadagnerò, sarè paron de tutto.
Lucindo. Le cose mie non anderanno sempre così.
Smeraldina. Sentì sto potacchietto, che ho fatto co le mie man.
Lucindo. Buono da vero. Tutto quello che fate voi, è squisito.
Smeraldina. Disè, Lucindo, me sposereu?
Lucindo. Non passa un anno, che voi siete mia moglie.
SCENA VII.
Truffaldino e detti.
Truffaldino. Patroni, bon pro ghe fazza.
Lucindo. L’ho detto.
Smeraldina. Chi v’ha averto la porta?
Truffaldino. L’ho averta mi.
Smeraldina. Senza chiave? Come aveu fatto?
Truffaldino. Ho cazzà la spada in te la sfesa della porta. Ho alzà el saltarellob e ho averto, patrona.
Smeraldina. Caspita, donca bisogna3 che fazza giustar la porta. Me arecordo che una volta anca sior Momolo ha averto cussì. Voggio dar el caenazzo.
Truffaldino. La diga, cara madama, chi gh’ha insegnà la maniera de trattar?
Smeraldina. E cussì? Cossa diressi? Sior Lucindo ha portà una cenetta, e se la magnemo.
Lucindo. Compatite, se mi sono presa una tal libertà.
Truffaldino. No me lamento che abbiè porta la cena; me maraveggio che se magna senza de mi.
Smeraldina. Via, senteve, e magnè anca vu.
Lucindo. Caro amico, non vi prendete collera.
Truffaldino. Co vegnirè co ste bone maniere, no dirò gnente. Se patron de casa a tutte le ore. Animo, che se magna, che se beva e che se staga allegramente.
Smeraldina. Mio fradelo po el xè de bon cuor.
Truffaldino. Co se tratta de ste cosse, ghe stago. (si mette a mangiare)
SCENA VIH.
Momolo e detti.
Momolo. Bravi, pulito, me ne consolo.
Lucindo. Povero me! (si alza)
Smeraldina. (Si alza, subito che lo vede) Vedeu, sior Momolo, le belle bravure de mio fradelo? Nol vol in casa sior Lucindo; e po per una strazza de cena, el lo fa vegnir a mio marzo despetto. Gh’ho una rabbia maledetta. Vedeu, siori, per causa vostra sior Momolo crederà che sia una finta, una busiara; credeme, sior, da putta da ben, mi no ghe n’ho colpa. (a Momolo)
Momolo. Sì, fia mia, ve lo credo. So che se una putta schietta e sincera. Vardè che baronade! Poverazza! Far vegnir la zente, che ghe despiase co fa el zucchero ai golosi. Lassemo andar sti descorsi, che no conclude; sior Lucindo, v’ho da parlar.
Lucindo. Caro signor Momolo, vi prego di compatirmi.
Momolo. Per mi ve compatisso e stracompatisso. Son omo de sto mondo anca mi, e so cossa che poi sta sorte de musi su la povera zoventù.
Smeraldina. Coss’è, sior? cossa voressi dir?
Momolo. Gnente. Lasseme parlar.
Truffaldino. Patroni reveriti; sento che i gh’a dei interessi da discorrer. Lori i dà incomodo a mi, mi posso dar incomodo a lori; onde acciò che tutti gh’abbia la so libertà, togo suso ste bagatelle e vado a devertirme in cusina. (prende la roba da mangiare, e parte)
Momolo. Bravo, monsù Truffaldin. Sior Lucindo caro, son qua per vu; son vegnù per cercarve vu; ho trova la porta averta e son vegnù avanti.
Smeraldina. L’averè averta col cortelo, come che avè fatto dell’altre volte.
Momolo. No so gnente. Aveva da vegnir, e son vegnù.
Lucindo. Vi torno a dire compatitemi....
Momolo. Sappiè, putto caro, che vostro sior padre xe fora de elo per causa vostra. Poverazzo! dopo che l’ha fatto tanto per vu, xela questa la recompensa che ghe dà so fio? El padre a sfadigar per l’onor, per el mantenimento della so casa, e el fio a perder el so tempo, a sacrificar la so zoventù cussì malamente? Me dirè che l’ho fatto anca mi, ma mi son solo, no gh’ho padre da obbedir, no gh’ho sorelle da maridar. No considera che la vostra mala condotta poi pregiudicar a quella putta, che gh’avè in casa, e che sul dubbio che possiè far un sproposito, nissun se azarderà de sposarla? Vergogneve de vu medesimo, e se la vergogna no basta, sentì cossa che ve digo da parte de vostro padre, e ste parole lighevele al cuor. O cambiar vita, o cambiar paese. O una carica in Venezia, se farè a modo de chi ve vol ben, o un capotto da mariner, se farè el bell’umor.
Lucindo. A me un capotto da marinaro?
Momolo. Sior sì, a vu. Xe sta mandà su la nave dei musi meggio del vostro, co no i ha volesto far ben. Vostro padre xe risoluto, e mi me impegno de darghe man.
Lucindo. Che dite voi. Smeraldina?
Smeraldina. A mi me domande? cossa ghe pensio dei fatti vostri? (Adesso me preme Momolo, fina che el me mette in stato de vadagnar). (da sè)
Lucindo. Capisco che l’interesse vi fa parlare così, e se in voi prevale l’interesse all’amore, penso anch’io a’ casi miei e stabilisco di non precipitarmi per cagion vostra. Signor Momolo, vi prego, accomodatela voi con mio padre; farò tutto quello ch’egli vorrà.
Momolo. Andè là; aspetteme al caffè, che vegno. Ve menerò mi da vostro sior padre, e la giusteremo.
Lucindo. Addio, Smeraldina.
Smeraldina. Bon viazo.
Lucindo. (Che crudeltà! Era pur pazzo io a coltivarla). (da sè.)
Smeraldina. (Me despiase; ma bisogna dissimular). (da sè)
Lucindo. Se ci vengo più, mi si scavezzi l’osso del collo, (parte)
SCENA IX.
Momolo e Smeraldina.
Smeraldina. Bravo, avè fatto ben. (a Momolo) (Za gh’ho speranza che el torna). (da sè)
Momolo. Vedeu se so far? Ho visto che Lucindo ve vegniva a insolentar, che no lo podè veder, che ve preme el vostro Momolo, e ho trovà la maniera de cazzarlo via. (Ti te inganni, se ti credi che no te cognossa). (da sè)
Smeraldina. Sto ballarin i’aveu gnancora trovà?
Momolo. Ho parla con diversi, ma tutti m’ha dito che butterè via el tempo, che spenderemo dei bezzi e no faremo gnente.
Smeraldina. Per cossa?
Momolo. Perchè per prencipiar a imparar a ballar, ghe vol zoventù, e vu gh’averè i ossi duri.
Smeraldina. Vardè che sesti! Songio qualche vecchia? no gh’ho gnancora disdott’anni.
Momolo. Colla fodra.
Smeraldina. De botto me fe vegnir suso el mio mal.
Momolo. No, cara colona, no ve instizzè, che vegnirè verde.
Smeraldina. Se no imparo a ballar, cossa donca voleu che fazza? imparerò a cantar.
Momolo. Pezo; a ora che abbiè imparà, vegnì in età da desmetter.
Smeraldina. Mo cossa faroggio donca?
Momolo. La lavandera.
Smeraldina. Adesso vedo el ben che me volè. Cussì se burla le putte?
Momolo. Povera innocentina!
Smeraldina. Per causa vostra ho lassà andar tante bone occasion.
Momolo. Me despiase dasseno, ma no posso pianzer.
Smeraldina. Co vegnì per burlar, andè via de sta casa e no ghe stè più a vegnir.
Momolo. Sì, fia, anderò. No ve scaldè el sangue.
Smeraldina. Tante promesse che m’ave fatto, e cussì me ingannè?
Momolo. Me par fin adesso d’aver fatto el mio debito da galantomo.
Smeraldina. Eh, caro sior Momolo, credeu che no cognossa da cossa vien sta muanza? Semo larghi de bocca, e stretti de borsa. Ma no poderè dir che in casa mia v’abbiè rovinà.
Momolo. Mi no digo sta cossa.
Smeraldina. Cossa aveu speso da mi? Delle freddure che me vergogno. Dov’ele ste ricchezze, che m’avè promesso?
Momolo. Ho fatto quel che ho podesto, e se avessi avù giudizio, averave fatto de più.
Smeraldina. Eh caro sior, i xe tutti pretesti.
Momolo. Tutto quel che volè.
SCENA X.
Un Servitore e detti.
Servitore. È qui il signor Momolo?
Smeraldina. Chi v’ha averto la porta?
Servitore. Me l’ha aperta il signor Lucindo. Signore, di lei cercava. Ho da dargli questa lettera con questa scatola.
Momolo. Da parte de chi?
Servitore. Legga la lettera e lo saprà.
Smeraldina. La sarà qualche morosetta. Chi ela sta pettegola, che manda a cercar sior Momolo in casa mia?
Momolo. (Apre la lettera ed osserva la sottoscrizione) (Siora Eleonora? Sentimo cossa che la sa dir). (da sè) Aspettè da basso, che ve darò la risposta. (al servitore)
Servitore. Benissimo. (parte)
Momolo. Con grazia, siora, che leza sta lettera. (a Smeraldina)
Smeraldina. La se comoda, zentilomo. (con ironia)
Momolo. (Si ritira da una parte, e legge):
Carissimo signor Momolo.
Avendo inteso dal mio signor padre, che vi trovate ora in qualche necessità, mi prendo la libertà, di nascosto del medesimo, di mandarvi le mie gioje, acciò ve ne serviate. Pregovi di accettare questo contrassegno dell’amor mio, e almeno aver riguardo di non valervene in pregiudizio della mia passione, e colla maggior sincerità del cuore mi dico
Vostra per sempre Eleonora Lombardi.
(Sta azion de sta putta me fa restar incantà. Privarse de le so zoggie per mi?) (da sè)
Smeraldina. E cussì? Hala letto, patron?
Momolo. (Una putta no pol far de più de cussì). (da sè, aprendo la scatola)
Smeraldina. (Cossa mai ghe xe in quella scatola?) (da sè)
Momolo. (Vardè, poverazza! I so recchini, i so anelli, el zoggielo. Tutto la m'ha mandà). (da sè, osservando le gioje)
Smeraldina. (Zoggie! Che el le abbia tolte per mi? ) (da sè)
Momolo. (No la merita, che ghe fazza torto). (da sè)
Smeraldina. (Chi sa, che quel che l’ha dito nol l’abbia dito per provarme, e che quelle zoggie.... Se savesse come far a far pase). (da sè)
Momolo. Quando una donna se priva de le zoggie, l’è tutto quello che la pol far per amor). (da sè)
Smeraldina. Sior Momolo, che belle zoggie! (dolcemente)
Momolo. Ve piasele? (affettando tenerezza)
Smeraldina. De chi xele?
Momolo. De una putta, che so che la me vol ben.
Smeraldina. Mi certo ve n’ho sempre volesto, e sempre ve ne vorrò.
Momolo. Donna finta, donna ingrata, credeu che no veda e che no cognossa che ste carezze, che adesso me fè, le tende a far l’amor co ste zoggie? Queste no xe per vu. No sè degna nè de ele, nè de mi. Per vostra confusion, sappiè che siora Leonora Lombardi, savendo le mie indigenze, m’ha manda ste zoggie, perchè me ne serva. Grazie al Cielo, no ghe n’averò4 bisogno, perchè, mancandome vu, me mancarà una piccola sansughetta; ve ringrazio, che co la vostra ingratitudine m’avè averto i occhi. Fè conto de no averme mai nè visto, nè cognossù, e mi col vostro esempio, col vostro specchio, me varderò in avegnir de trattar con zente de la vostra sorte, finta, ingrata e sollevada dal fango. (parte)
SCENA XI.
Smeraldina, poi Truffaldino.
Smeraldina. Hoggio mo fatto una bella cossa? I ho persi tutti do in t’una volta. Adesso sì che stago fresca. Se Momolo sposa siora Eleonora, no gh’è più pericolo che Lucindo vegna da mi. E el mio anelo, che gh’ho dà da impegnar?
Truffaldino. Dove xe andà el protettor?
Smeraldina. Fradello caro, tolè su la cesta, e andemo dai nostri aventori a tor suso la biancaria da lavar. (parte)
Truffaldino. Come! Madama Smeraldina? Monsù Truffaldin? Ela matta mia sorella? Ho promesso de voler viver senza far gnente; son galantomo, la mia parola la vôi mantegnir. (parte)
SCENA XII.
Camera in casa del Dottore.
Eleonora, Beatrice, Silvio, il Dottore.
Dottore. Ecco, signor Silvio, dugento zecchini che ho riscosso per lei dal mercante, ancorchè non sia spirato il giorno della cambiale.
Silvio. Sono tenuto alle vostre grazie. Mi stava sul cuore un impegno di trenta zecchini; ho piacere di poter comparire.
Beatrice. Signor Silvio, badate bene di non giuocare.
Silvio. Non vi è pericolo. Già che la sorte ci fa godere una sì gentil compagnia, voglio che il resto del carnovale ce lo godiamo in Venezia con buona pace.
Eleonora. Sì, caro signor Silvio, siate compiacente colla signora Beatrice, che ben lo merita.
SCENA XIII.
Ottavio e detti, poi Momolo.
Ottavio. Signori, compatite, se vengo innanzi.
Dottore. In questa casa, che vuole Vossignoria?
Ottavio. Ho ricevuto un affronto dal signor Momolo e ne pretendo soddisfazione.
Dottore. Egli non abita qui, signore.
Ottavio. Ma so che ci viene frequentemente; però il rispetto, che ho per voi, mi fa far questo passo, altrimenti mi prenderò io stesso quelle soddisfazioni che mi competono.
Momolo. E Momolo xe capace de dar ve sodisfazion in ogni maniera; ma se penserè meggio alle cosse passade, vederè, sior Ottavio, che quel che avè ricevesto, ve l’avè merità. Vu avè trovà do omeni per farme far un insulto; se lo riceveva, toccava a vu a sodisfarme. Me xe riussio de valerme delle vostre arme istesse per vendicarme; cossa podeu pretender da mi? Vu domandè soddisfazion del fatto, mi la pretendo per l’intenzion. Semo dal pari per la pretesa, podemo esser dal pari, mettendo in taser quel che xe sta; e de più, per quella diferenza che poi passar tra l’intenzion e el fatto, alla presenza de ste degne persone ve domando scusa. Seu contento gnancora?
Ottavio. Per questa parte son soddisfatto, ma circa alla nostra rivalità nel cuore della signora Eleonora....
Dottore. Qui e’entro io, signore. Di mia figlia dispongo io, e non so come c’entrate voi a pretenderla in tempo, che non ho veruna intenzione ch’ella sia vostra.
Ottavio. Questo è un altro discorso; ma quando la figlia avesse della inclinazione per me....
Eleonora. Compatitemi, signor Ottavio: non ne ho mai avuta e non ne avrò.
Ottavio. Pazienza. Vi sposerete al signor Momolo, che menando una vita discola, vi farà pentire d’averlo preferito ad uno che si protesta d’amarvi.
Momolo. Ponto e virgola a sto discorso; m’ave toccà in un tasto che xe assae delicato, e che me obbliga adesso a far quella dichiarazion, che voleva far da qua a qualche zorno. Sior Dottor, la vita da cortesan che fin adesso ho fatto, no merita che ve domanda una putta, ma le massime che ho fissà per l’avegnir, spero che un zorno la poderò meritar. Deme tempo da farve cognosser quel cambiamento che prometto del mio costume....
Eleonora. Senz’aspettar più oltre, mio padre ha tanta fede in voi, che assolutamente vi crede.
Momolo. E vu, fia mia?
Eleonora. Ed io, se il genitore l’accorda, ad occhi chiusi di voi mi fido.
Beatrice. Le buone parti del signor Momolo meritano che gli si presti tutta la fede.
Silvio. Non mi scorderò mai il favore, che fatto mi avete. Eccovi i trenta zecchini; vi prego farli avere a colui....
Momolo. Sarà mezz’ora, che m’ho tolto la libertà de dargheli, essendo certo che da vu i me sarà ve stai remborsadi. Li togo adesso con una man, e con l’altra i restituisso a sto degno galantomo, che me li aveva imprestai.
Dottore. Voi siete l’uomo più onorato di questo mondo. Però, se aggradite la mano di mia figliuola, disponetene liberamente.
Momolo. Cara Leonora, ve son tanto obbligà, che se no basta la man e el cuor, son pronto a darve el mio sangue e la mia vita istessa.
Eleonora. Mi fate piangere per la consolazione.
Ottavio. Dunque io posso andarmene, senza sperare più oltre.
Momolo. Se volè quattro confetti, sè patron.
Ottavio. Come in un tratto può sperarsi da voi un simile cambiamento?
Momolo. Bisogna che me giustifica, per no far sospettar la mia ressoluzion mal fondata. (Siora Leonora, de le bone azion no s’avemo da vergognar). Vedeu sta putta? L’ha avudo coraggio, credendome in necessità, de spropriarse de le so zoggie per mi. Sior Dottor, compatì l’amor de una putta, che adesso xe più mia che vostra. Tolè, siora Leonora, le vostre zoggie, e in contracambio ve fazzo el sacrifizio de la mia libertà, che xe la zoggia preziosa, che fin adesso con tanta zelosia ho custodio5 e che al vostro merito sarà giustamente sacrificada.
Dottore. Oh quanta consolazione io provo nel veder contenta la mia figliuola! Mancami ora, per esser pienamente felice, veder cambiato il vivere del mio figliuolo.
Momolo. Anca per sta parte sarè contento. Sior Lucindo, vegnì pur avanti.
SCENA XIV.
Lucindo e detti.
Lucindo. Non ho coraggio.
Momolo. Vostro sior padre xe pronto a perdonarve, se farè quel che m’avè promesso de far.
Lucindo. Sì, ve lo confermo, ve lo giuro sull’onor mio.
Momolo. Sior Dottor, perdoneghe su la mia parola.
Dottore. Caro figlio, ti rimetto nell’amor mio. Fammi avere consolazione di te prima ch’io mora.
Lucindo. Con queste lacrime...
Momolo. Non occorr’altro. Tutto xe giustà. Se sior Dottor se contenta, siora Leonora, deme la man.
Dottore. Sì, figlia, son contentissimo...
SCENA XV.
Smeraldina, Truffaldino e detti.
Momolo. Cossa feu qua, siori? Che ardir xe el vostro?
Smeraldina. Mi no son qua nè per vu, nè per sior Lucindo, che no gh’ho più in te la mente nè l’uno, nè l’altro. Vedo che tutte le mie grandezze xe andae in fumo, e che per viver bisognerà che torna a lavar. Son vegnua solamente per dir a sior Lucindo in presenza vostra, e in presenza de so sior pare, che se nol vol vegnir più da mi, no me n’importa, ma che almanco el me daga el mio anello.
Momolo. Quello che v’ho dà mi fursi?
Smeraldina. Sior sì, quello.
Momolo. Cossa ghe n’aveu fatto? (a Lucindo)
Lucindo. Arrossisco in dirlo. L’ho impegnato per due zecchini.
Dottore. Vedi a cosa riducono le male pratiche?
Smeraldina. Sior, son sempre stada una putta onesta, e sior Momolo lo poi dir.
Momolo. Me despiase, che se mi lo dirò, pochi lo crederà, ma ve protesto che la xe de le più onorate. Se gh’avesse i do zecchini, ve li darave, ma doman ve li farò aver.
Dottore. Non vi è bisogno di questo. Eccovi due zecchini, e andate, che il cielo vi benedica. (dà due zecchini a Smeraldina)
Smeraldina. Pazenzia. Merito pezo. Me giera messa in gringola de portar la scuffia, ma vedo che bisogna che me sfadiga al mastello, se vôi magnar. Ma sarà meggio cussì; almanco quel poco che gh’averò, el sarà ben vadagnà, perchè ho sentio a dir, a proposito de certe fegure, che la farina del diavolo la va tutta in semola. (parte)
Momolo. La gh’ha pensà un pochetto tardi, ma la xe a tempo.
Truffaldino. Siori, vorave dir una parola anca mi.
Dottore. Via, che cosa volete dire?
Truffaldino. Se mai i gh’avesse bisogno de facchin, che i se arecorda de monsù Truffaldin. (parte)
Momolo. Bravo, el l'ha dita in rima.
Eleonora. Ma qui si sta in piedi senza far niente.
Momolo. Ho capio. So cossa che vorressi far. Deme la man.
Dottore. Sì, figlia, dagli la mano.
Eleonora. Con tutto il cuore. (dà la mano a Momolo)
Ottavio. Servitor umilissimo di lor signori. (parte)
Momolo. Bon viazo. Quello l’intende ben. Per elo no gh’è più speranza, e el se la batte pulito. Siora Beatrice, la perdona se no continuo nell’impegno de servirla, perchè la vede adesso chi me tocca servir. Sior Dottor, sior missier carissimo, ve ringrazio de tutto, e spero che per mi no ve averè da pentir. Cugnà, se la mia maniera de viver fin adesso v’ha servio de cattivo esempio, procurerò in avegnir de darve motivo de imparar a viver da mi. Son sta cortesan, ma cortesan onorato, e anca in mezzo alle debolezze de la zoventù, co ghe xe un fondo de onestà, se sta saldi in cassa, e facilmente se cognosse el debole, se mua costume, e se xe capaci de una vertuosa ressoluzion.
Fine della Commedia.
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