L'uccisione pietosa/11
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Scarso valore psicologico del “consenso„.
Fino ad ora la letteratura giuridica sulla Eutanasia è assai povera; quella sociologica ed eugenetica, alquanto più copiosa, si limita ad affermare la opportunità di una selezione artificiale anche in seno alla specie umana e proclama la necessità di modificare le nostre concezioni sul diritto individuale.
I progetti Americani di Legislazione al riguardo citano dei giuristi di avanzato pensiero che non negano all’individuo ambedue i diritti sulla propria vita, quello di uccidersi e quello di farsi uccidere. Enrico Ferri è con essi: e certo l’opinione del valoroso penalista e sociologo ha per me molto peso; ma se la dottrina di tanta libertà corrisponde in astratto ai principî etici e giuridici sempre più dominanti nella coscienza dei popoli civili, restano in pratica più che mai valide le ragioni di dubbio che a me, come a tanti altri, si sono affacciate. Sta bene il diritto in ognuno di voler farsi uccidere: ma chi potrà considerare valido quel consenso e ritenersi legalmente investito della facoltà di accogliere e sodisfare quel desiderio? Dove termina il dovere fondamentale del rispetto alla vita altrui, e dove comincierebbe il diritto individuale di troncarla? Potrebbe dirsi sempre sano di mente un malato che domandasse la morte? Non è spesso il suicidio un motivo per dubitare della sanità mentale di chi lo ha effettuato?
Per il giurista Binding l’eutanasia dovrebbe applicarsi a tre categorie di soggetti, due di veri ammalati, ed una intermedia. E sarebbero: 1° individui irrimediabilmente perduti in seguito a malattia o a ferita, come i cancerosi, i tisici condannati, i mortalmente colpiti, i quali, avendo coscienza del loro stato, concepissero il desiderio di esserne liberati e lo manifestassero in qualsiasi modo; 2° i dementi incurabili, o per vizio costituzionale o per lesione acquisita cerebrale; 3° quelle persone sane di mente, che avendo perduta la coscienza in seguito ad incidenti improvvisi fossero destinate a sicura morte, e che, se si risvegliassero, si riconoscerebbero in una condizione assolutamente disperata. Nel primo caso si avrebbe la uccisione consensuale del paziente; negli altri due mancherebbe il suo consenso per ovvie ragioni, ma gli si sustituirebbe il giudizio autorizzato e inappellabile di una speciale Commissione. Bisogna, dunque, esaminare il valore psicologico, e per conseguenza anche giuridico, del “consenso„.
Io non ho intenzione di trattare a fondo l’argomento sotto l’aspetto giuridico, mi vi dichiaro incompetente; se ne potrà leggere una trattazione parziale, anzi accidentale, nei libri e nei periodici di Diritto e Giurisprudenza penale, dove si vedranno subito specialmente i contrasti, dapprima vivissimi, indi vieppiù ammansati, fra i sostenitori della così detta Scuola classica (Carrara, Holtzendorf, ecc.) e i seguaci del novello indirizzo positivo (Ferri, Grispigni, Lino Ferriani), in riguardo alla uccisione del consenziente. Un punto di accordo pare si sia trovato in questo, che il consenso alla morte per mano altrui sia libero, dimostrativamente libero nella vittima; e che l’uccisore agisca dietro motivi di disinteressato amore o di compassione. Ma questo è, come abbiam visto, un solo dei lati che presenta il poliedrico problema dell’eutanasia; e anche nel caso che il consenso sia dato per sfuggire a mali fisici insopportabili (lascio da parte i doppî suicidî per amore o per miseria), si tratta di un’applicazione del principio etico-giuridico della libertà individuale a casi singoli, ad uccisioni pietose isolate.
L’Eutanasia ha ben maggiore complessità. Anzi tutto, non solo ai pazienti consapevoli delle loro decisioni (e sarebbero i meno) essa si applicherebbe, ma più estesamente a persone inconsapevoli o per malattia, o per involuzione senile, o per ingenita mancanza di criterio. In secondo luogo, essa non avrebbe come molla d’azione la sola pietà verso i patimenti, ma si assumerebbe l’incarico ragionato di una soppressione umana, metodica, artificiale, a scopo utilitario. Infine, dovrebbe essere elevata a regola di condotta delle collettività, non solo per il bene degli individui, ma per il vantaggio della razza, per la Eugenetica. La cerchia del Diritto si viene così allargando su territorî immensamente più estesi e finora quasi inesplorati della vita sociale; ciò vuol dire che anche sotto il punto di vista giuridico, come da quello etico, il principio dell’eutanasia deve essere ripreso in esame, sia dai giuristi (abituati a considerare questi problemi con vedute spesso ristrette ed unilaterali), sia dai sociologi, dai moralisti, dai filosofi, dai teologi, in quanto lo stesso principio tocca, stimola, colpisce una folla stragrande di idee, di opinioni, di sentimenti e di interessi relativi al consorzio civile. Si tratta, in sostanza, di rifare in parte il cammino fin qui percorso dalla Civiltà, tornando verso quello stato sociale, in cui l’individuo era sagrificato al bene comune e gli si limitavano tutti i diritti, compreso quello a vivere, mentre gli si imponevano tutti i doveri verso l’orda, il clan, la tribù, la città, lo Stato.
L’Ughetti, uno dei pochi medici che abbiano abbordato il tema, pone come condizione giuridica e morale dell’omicidio pietoso che esso sia domandato dal paziente stesso, con che verrebbe a mancare ogni responsabilità nell’uccisore o in chi gli fornisse i mezzi di morire: e questi sarebbe il medico. È una soluzione che complica, non semplifica il contenuto dell’omicidio medico. Anche nelle conclusioni del dibattito avvenuto in seno alla Società medico-psicologica di Gottinga, si parlò del “consenso„ del soggetto; ma già il problema si presenta arduo per il semplice trattamento medico-chirurgico, avente per iscopo la liberazione più o meno sicura da un male mediante un’operazione che leda la integrità personale del paziente. Gravi discussioni si son fatte su questo punto, che al paragone dell’uccisione misericordiosa sembra quasi più un quesito “elegante„ di Diritto privato che un problema di Diritto pubblico e di Morale sociale. Invero, il consenso a lasciarsi operare non ha, in sostanza, nessun contenuto etico; e non solleva neanco il dubbio religioso, che viene svegliato dallo “stato di peccato„ in cui può trovarsi la vittima consenziente dell’omicidio medico. Dico questo per guardare il tema anche dal lato della Fede, che non può essere trascurato in un’epoca di viva e diffusa credenza nella “sopravvivenza„. Ognuno che desideri o consenta ad essere operato, e sia conscio del pericolo cui in certi casi si espone, prende le sue precauzioni rispetto alla “salute dell’anima„ ed alla espressione delle sue ultime volontà.
Disputano i giuristi sulla “capacità negoziale„ del consenziente ad un’operazione grave; bisogna, essi dicono, che il soggetto sia in grado di disporre di sè medesimo, sia libero veramente di rinunziare alla protezione giuridica pel caso che l’operazione leda definitivamente la sua integrità corporea o gli possa togliere la vita: e dico “corporea„ perchè nessuno accetterebbe mai un intervento che si sapesse ledergli l’integrità mentale. Ma io parteggio qui la opinione del Grispigni; il soggetto consenziente non rinunzia già alla protezione della propria persona ed esistenza perchè queste siano minacciate: anzi, qualora il chirurgo commettesse nell’operare atto di imperizia o trascuranza, egli è pronto, se soppravvive a quel nocumento, a domandare indennizzo e sanzione contro l’imperito o l’incauto sanitario: e qualora l’operato morisse, son pronti a farlo i suoi parenti od eredi. Quella rinunzia alla propria integrità è rilasciata in vista di una probabile continuazione della vita; e dato pure che il soggetto sappia (per lo più glielo si nasconde) che l’operazione può arrecare la morte anzichè la salvezza, egli si sottopone all’atto colla speranza di scampo, o almeno con la prospettiva di addolcire i proprî mali.
Disporre della propria persona a scopo salutare è lecito, è giuridicamente assiomatico, è umanamente concepibile, è socialmente utile: ma ben altro è il caso di disporre della propria vita, anche se questa è angustiata da mali tormentosi. Converrà in ogni caso cercare di riconvincere il malato che la Medicina non ha certezza di criterî per la inguaribilità delle malattie individualmente considerate; può sbagliare le sue diagnosi, può errare nelle sue prognosi, ma non può mai, pel suo continuo progresso, proclamarsi incapace di curare quei morbi che fin ad un dato momento ha giudicato o giudica irreparabili. Io faccio mie le considerazioni di un dott. G. B., che trattando il nostro tema nel 1913, metteva innanzi l’obbligo del medico di usare del suo ascendente per suggestionare il malato con la speranza della guarigione: soltanto per le agonie ormai dichiarate, egli non escludeva invece l’uso di calmanti che addolciscano il passaggio sopprimendone la coscienza.
Può darsi che questo trattamento psicoterapico raggiunga l’effetto. Io invoco qui la testimonianza, un po’ singolare, se si vuole, sotto la mia penna, delle guarigioni così dette “miracolose„ di malattie giudicate inguaribili. Finchè saranno indecisi i criterî dei diagnostici, finchè il giudizio dei medici davanti ad un qualunque ammalato non sarà almeno concorde, finchè esisteranno casi, massimamente nel campo delle malattie psico-nervose, in cui, per quanta persistenza e gravità possano avere i loro sintomi e patimenti, non è possibile eliminare l’elemento psicogeno come causale, e quindi l’elemento psico-terapico come cura. L’uccidere i sofferenti dietro loro domanda e col loro consenso, l’aiutarli a suicidarsi, saranno sempre misure praticamente discutibili e perciò pericolose. E dal punto di vista teorico, finchè il fatto culminante della coscienza rimarrà oscuro nella sua genesi e nei suoi limiti, finchè la Psicologia anche più avveduta o fornita dell’armamentario psico-analitico più meticoloso, non saprà dirci la esatta natura di quella nostra facoltà suprema che è la consapevolezza del Micro- e Macrocosmo, dovremo ritenere che abbiano poca consistenza giuridica un desiderio od un consenso espressi o concessi in momenti di sconforto, quando la mente è dominata dalla emozione e dall’angoscia, quando per lo stato autotossico del cervello posson mancare del tutto od essere scemate grandemente, come dice la Legge Penale, la coscienza o la libertà dei proprî atti.
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Ma sempre in considerazione del lato giuridico, gli eutanatisti sostengono che il consenso abbia lo stesso valore dell’atto suicida. Se ogni individuo ha diritto alla integrità della sua persona fisica e morale da parte degli altri conviventi, avrà pure il diritto di rinunziarvi: il suicidio rappresenta, ormai per unanime consenso, la affermazione più assoluta di questo diritto. Oggidì si ammette che se esso lascia insoluto il problema della responsabilità religiosa verso Chi dai credenti si ritiene che dia la vita e la morte, la salute o la malattia, trova invece diggià risolto in senso liberale il problema giuridico e sociale dell’eutanasia volontaria. Se un sofferente di mali incurabili o di dolori fisici non sa nè può più sopportarli, niuno lo rimprovererà mai di liberarsene colla morte.
Nella mia opera sul “Suicidio„ dimostrai che allora in Italia il 7-8% delle morti volontarie era motivato per malattie fisiche, in Francia dal 9 al 12%, in Prussia e Sassonia dal 5 al 7%, nel Würtemberg fino al 20%! La proporzione in generale è maggiore nelle donne, ciò che sta in rapporto, non ad una più squisita loro sensibilità, ma alla diversa proporzione dei motivi di suicidio. In trancia il Binet-Sanglé ha calcolato che su 45.000 suicidî ben 20.000 avvengono per insopportabilità di mali dolorosi e cronici. Uno di questi sopratutto conduce alla disperazione, pur dopo avere indotto nei pazienti un lungo, ingannevole periodo di euforia, ed è la tubercolosi; un altro è il cancro; e un terzo è la sifilide, che però in generale non provoca dolori. Nelle statistiche degli ultimi decenni si scorge un aumento notevole della proporzione di queste morti violente volontarie; siamo noi diventati più sensibili o più intolleranti del dolore?
Però i mezzi scelti dai suicidi fra quelli che comunemente sono a loro portata di mano, non sono in realtà nè indolori, nè estetici; talvolta si addimostrano inefficaci, e il suicida si vede crescere coi postumi del suo tentativo le proprie sofferenze. Ha bisognato dunque pensare a mezzi che non offendano la sensibilità e garantiscano il transito con la maggior quiete possibile e, come vedemmo, vi si è pensato. Nel Guermonprez si legge che A. Nobel, il celebre chimico e filantropo, aveva proposto al Governo Italiano di lasciare erigere a Roma e a Milano degli Istituti forniti dei mezzi necessarî per chi avesse voluto suicidarsi, e a tale uopo proponeva un gaz di sua invenzione, capace di dare una “dolce„ morte; ma Crispi, allora Ministro onnipotente, pur trovando buona la idea, non aveva creduto di accettare la proposta.
Non so quanto ci sia di vero in questa notizia; ad ogni modo, si sarebbe dovuto circondare quegli “Istituti Nobel pei suicidi„ d’ogni cautela possibile. Anche il Binet-Sanglé si è domandato se la scienza medica non debba venire in soccorso di questi infelici col procurar loro una morte dolce e calma; ed ha arditamente proposto che, nei casi di decisione al suicidio derivata dall’intollerabilità di dolori fisici, una Commissione di tre “eutanatisti„, un medico, un patologo ed uno psicologo, sia incaricata di esaminare prima, sotto l’aspetto della costituzione, dell’ereditarietà morbosa, delle condizioni fisiologiche e dello stato psichico, la persona che intende por fine alla sua esistenza. Solo quando la Commissione avrà giudicato che quelle sofferenze sono davvero intollerabili (?) o che il male è incurabile, i tre Giudici potranno eseguire la estrema volontà del paziente e gli propineranno la morte col metodo che più addietro ho indicato. In caso contrario, il soggetto sarà inviato in un Ospedale, o ricoverato in un Istituto di Beneficenza, o internato in un Manicomio. Con che, però, a me pare che le sue sofferenze non verranno mitigate, bensì accresciute dal fatto di avere anche perduta la libertà di morire a modo suo!
Abbiamo veduto in altro capitolo come fra gli Antichi il suicidio per intolleranza del male o della vecchiaia fosse comune e considerato per lo più con grande indifferenza, anzi spesso volte lodato: in alcuni luoghi concesso da un’Autorità speciale, in altri giustificato pubblicamente; chi voleva morire non tanto cercava di svegliare la commiserazione dei suoi concittadini, quanto di convincerli della ragionevolezza del suo atto disperato. Questo giustificarsi davanti alla pubblica opinione, questo appello al consentimento dei cittadini, come aveva fatto Albuzio Silo, mostra anche che fra gli Antichi l’eutanasia volontaria doveva avere dei limiti, per così dire etico-sociali, se non giuridici; occorreva cioè che fosse proporzionata ai motivi. In quei casi il popolo, o, meglio, la gente raccolta attorno al suicida perorante la propria causa teneva posto e vece di una Commissione tecnica o giudiziaria, cioè di un Tribunale secondo le proposte più recenti in riguardo all’eutanasia autorizzata. Non si conosce se vi siano stati casi di negato consenso; ma se ne può dubitare, tanto era fra gli Antichi, pur civilissimi, il disprezzo della morte e l’impassibilità con cui si assisteva allo spettacolo dei morienti. La bella e voluttuosa Cleopatra, prima di farsi mordere dall’aspide venefica, aveva fondata in Egitto con Marco Antonio una strana Accademia dei “Conmorienti„, il cui còmpito precipuo era di fare esperienze, secondo quanto ce ne scrisse Plutarco, sul modo più spiccio e men doloroso di morire.
Contro chi si procura la morte colle proprie mani la Civiltà moderna non sancisce pene come in passato, neanco proietta sentimenti di disprezzo o di orrore: sul corpo del suicida scende il più delle volte una parola comune di pietà e persino di simpatia, sia che la morte ei l’abbia voluta per liberarsi da mali fisici e morali, sia che vi si sia deciso per togliersi al rimorso e alla vergogna di una colpa. Perfino la Chiesa ha smessa l’antica animavversione verso i colpevoli di autochiria, e con qualche pretesto non ne esclude i cadaveri dal sacro recinto dei morti. La sua indulgenza ha adottata una formula nettamente psicopatologica; si suppone che ogni suicida abbia compiuto un atto di follia, e con questa discolpa postuma non si lascia mancar alla salma l’“assoluzione„; si legga in proposito l’“Histoire comique„ di Anatolio France! Pertanto si è consigliato dai sostenitori dell’eutanasia misericordiosa un possibile mezzo di tradurre in atto la loro tesi: — che si solleciti, anzi, che si favorisca l’atto suicida di chi vuole sfuggire ai dolori dell’esistenza; che si ponga in mano al desolato infermo il veleno o la rivoltella, e lo si lasci compiere il proprio destino. Mori licet cui vivere non placet!
Un alienista Inglese qualche anno fa notava che i pazzi tentano spesso o consumano il suicidio, e diceva: “Poichè la Natura ha provveduto al modo di disfarsi di tali soggetti dannosi o inutili dando loro questa propensione a morire, non si dovrebbe contraddire gli sventurati nei loro propositi, anzi la Legge dovrebbe favorire per essi l’acquisto dei veleni necessari„. È facile obiettare che questa facilitazione al possesso di sostanze mortifere creerebbe ben presto un grave pericolo sociale, in quanto ne approfitterebbero, più dei vogliosi di suicidio, i delinquenti assassini. Ma anche prescindendo da ciò, che sarebbe un non grande inconveniente e sempre suscettibile di prevenzione, c’è da domandarsi a chi spetterebbe il favoreggiamento di fronte ai propositi suicidi dell’alienato, se non ai famigliari qualora egli fosse ancora a domicilio, naturalmente sperando nel tacito consenso e nel passivismo del medico curante quando i parenti avessero pensato a chiamarlo (il che non sempre avviene!); oppure all’alienista, qualora il malato fosse già stato ricoverato in un Asilo o in una Casa di salute.
Il primo caso si vede abbastanza spesso, giacchè in generale i pazzi in casa sono mal custoditi e peggio vigilati dai loro famigliari, che sono quasi sempre restii ad accettare la diagnosi di pazzia e si rifiutano per lo più ad internare in tempo il malato. La comune ignoranza e sopratutto i pregiudizî che circondano le malattie mentali considerate come una vergogna e non comprese nelle loro forme lucide, spiegano la incredulità, associata talvolta ad ironia o a rancore, con cui si ascoltano i consigli del medico, e fino a un certo punto giustificano la frequente noncuranza domiciliare delle più semplici norme di prudenza. Nessun medico pratico, e men che mai lo specialista, vorranno non che dare i mezzi di suicidarsi al malato, neppur incoraggiare nè tollerare questa trascuratezza, massime quando la malattia sia ancora allo stadio acuto e presenti, se ben curata coll’isolamento, probabilità di guarigione. D’altra parte, si è avuto l’esempio di medici imputati di negligenza a tenore dell’art. 375 del Codice Penale, perchè avendo in cura o in consegna temporanea fuori dei Manicomî qualche alienato, non hanno saputo, secondo il giudizio del Giudice inquirente, impedirne il suicidio!
Peggio vanno le cose nell’altro caso, quando cioè l’alienato, fisso nell’idea del suicidio o preso da violento impulso suicida, tenta o compie l’atto funesto mentre è internato in un Asilo: è un incidente che impegna troppo fino ad ora la responsabilità dei medici addetti all’Istituto di ricovero, perchè possa passare liscia la proposta del collega Britannico. Per ora la coscienza giuridica dei Magistrati non accetta tanto facilmente neanco l’ovvia tesi psichiatrica dell’inevitabilità di quei suicidî e della quasi assoluta impossibilità di impedirli, data l’agevolezza con la quale chi vuole assolutamente morire troverà sempre i mezzi per farlo in qualsiasi ambiente anche accuratissimamente vigilato. Col rigore attuale delle Legge l’alienista può sentirsi colpito dall’accusa di imprudenza o di negligenza o di imperizia nell’esercizio delle sue funzioni e incorrere in gravi rischi di sanzioni penali, fra cui presentemente fa presa il risarcimento pecuniario dei danni verso terzi. Sarà ben difficile convincere le famiglie a considerare quell’evento come una liberazione eutanatistica del loro malato, anche se fossero certi che la malattia era incurabile e avrebbe arrecato inutili sofferenze al paziente, ed ai parenti lunghe ansie, nocumento negli interessi e spese purtroppo inutili.
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Ma lasciamo in disparte i casi qui prospettati di tacito incoraggiamento o di istigazione al suicidio di malati di mente; guardiamo al problema riguardo ai sani di mente, per certuni dei quali la morte volontaria costituirebbe una vera eutanasia, sia per ragioni morali, sia per ragioni fisiche.
Esempî del primo genere sono le istigazioni al suicidio o le somministrazioni dei mezzi per compierlo a chi voglia o debba sfuggire alla vergogna di una condanna o alla pena capitale; ne furono in ogni tempo effettuate da parenti o amici di imputati o di ricercati dalla Giustizia. Oltre al notissimo caso di Arria, moglie di Cecina Peto accusato di congiura contro Claudio, — la quale si suicidò, prima collo spezzarsi il capo contro il muro, poi con immergersi una spada nel petto a spettacolo incoraggiante pel pavido marito, — altri molti ve ne sono di consimili dei tempi Romani, e si leggono in Appiano Buonafede (Cap. VI, p. 95 e s.). Ma non ne mancano ai tempi nostri, e il Ferri, nel suo citato libro, ne cita uno accaduto a Bologna poco prima del 1884, dove l’Autorità però non perseguì la persona che al reo aveva procurato il veleno, quantunque se ne propalasse per la città il nome. Altro caso è quello della Contessa Batthiany, che al marito carcerato procurò un temperino per tagliarsi le vene.
Ma gli esempî più caratteristici di suggestione al suicidio si hanno nelle coppie suicide, generalmente di amanti, più raramente di parenti stretti, di coniugi, che si votano alla morte, ordinariamente l’uno per mano dell’altro, spintivi da passioni d’amore contrastato, da sconforto per miseria, ecc. Nella coppia v’è quasi sempre, come avvertì Scipio Sighele, un istigatore ed un istigato, un suggestionatore ed un suggestionato, ed i generi preferiti di morte sono per lo più la rivoltella, o il carbone, o il veleno, talvolta per rara eccezione l’allacciamento dei due corpi e la precipitazione in acqua o dall’alto, rarissimamente, a differenza degli Antichi, l’arma da taglio e punta. Questi casi, oggidì numerosissimi, esulano però dal dominio della vera eutanasia, quantunque la morte sia desiderata voluta e raggiunta per sfuggire ad agonie e strazî morali o a privazioni crudeli, che rendano la vita insoffribile alle due vittime, e corrispondono, in sostanza, ai dolori fisici di un male insopprimibile; ritorniamo, in ogni modo, alle morti volontarie anzi tempo richieste, e se non propriamente istigate nel vero senso del termine, almeno non sconsigliate nè impedite, di coloro che patiscono di malattia organica.
Il surrogato eutanastico del suicidio consigliato favorito ed aiutato dal medico o dai famigliari non può passar liscio finchè durano le attuali concezioni del Diritto. L’art. 370 del nostro Codice Penale punisce chiunque istiga al suicidio o aiuta a compierlo, e così altri Codici stranieri; dunque, converrebbe domandare prima col Binet-Sanglé e col Binding la riforma delle nostre Leggi. Vero è che il pubblico si scuote quando viene a sapere di persone sottoposte a mali trattamenti, a violenze brutali, a tormenti morali, con lo scopo tacito o magari manifesto di spingere l’infelice vittima a suicidarsi. Ma ciò nondimeno la Legge trova in pratica gravissimi ostacoli per essere applicata anche in quei casi dove la malvagità della forzata suggestione risulta evidente. La stessa manchevolezza della Legge si scorge nel fatto abbastanza frequente di quelle coppie suicide, dove uno dei due riesca a sopravvivere; non è allora quasi mai applicabile una qualsiasi sanzione penale, sia perchè ha preceduto l’accordo fra i due, e perciò si prova o si desume ragionatamente il consenso della prima vittima, sia perchè in parecchi casi non si sa da chi sia partita la istigazione a morire di quella violenza.
Anche quando sia provato essere proprio il superstite (ordinariamente l’uomo nelle coppie di amanti o di coniugi) colui che provocò il più o men libero consentimento dell’ucciso, l’opinione pubblica, dimostrantesi attraverso il verdetto indulgente dei Giurati, frustra quasi sempre, con la scusante dell’infermità mentale, i criteri ben più severi della Magistratura giudicante. Del resto, i giuristi della Scuola positiva, con a capo Enrico Ferri, propendono alla indulgenza dietro la considerazione dello stato passionale, e quindi non libero psicologicamente dei suicidi. Ben altro è il concetto che si ha della responsabilità di chi consiglia o provoca un suicidio nella Cina; là non occorre neanche essere istigatori: basta l’essere causa indiretta e involontaria della morte di una persona per suicidio, sia pure un debitore perseguitato dal suo creditore!, per venir puniti severissimamente. Durante molti secoli vi si applicarono pene corporali e perfino la morte (per legge di taglione o, come diceva Dante, di “compromesso„): adesso i Cinesi infliggono soltanto un’ammenda pel Fisco e un’indennità pecuniaria agli eredi del morto; il che lascia aperto l’adito alla più sfacciata speculazione, a deplorevoli ingiuste incolpazioni di responsabilità, e a soprusi giudizarî. Un esempio poco incoraggiante, in verità!