L'astronomo Giuseppe Piazzi/Capitolo X
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X.
L’abbiamo detto: a delineare lo scienziato occorrerebbe una penna speciale, e mente altrettanto dotta quanto profonda; dell’uomo può forse tornare più facile il dire, ma certo riuscirà sempre assai di sotto del merito. Generalmente, nessuno, per quanto elevato e virtuoso, può sottrarsi al dente dell’invidia e, peggio ancora, della calunnia; ma coteste nere guerricciuole, prove perenni della nostra vile e corrotta natura, passano infine tra lo sprezzo e l’obblìo degl’imparziali ed onesti. Poco invero ebbe a temere il Piazzi, e quel poco, anzi che serio, ridicolo e meschino. Si volle — e ’l cennammo — attribuire al caso le sue più meritorie scoperte; tenerlo quasi per geometra modesto, e le stesse cure della tarda età — morì di ottant’anni compiuti — mettergli a carico e disdoro. Viltà insidiosa e ignorante! Cerere, i Cataloghi, il moto sulle stelle, le innumere osservazioni astronomiche sono monumenti del suo sapere profondo, dell’operosità sua sagace ed eletta. Pur troppo il salire costa, e piucchè il salire schivarne le difficoltà pericolose, schermirsi da’ calabroni e da’ tristi. Queste cose ben conosceva il grand’uomo, se le dissimulava e tirava innanzi: era pur questa sapienza di saper vivere, ch’è la più scabra e la più sottile.
Carattere severo, onesto, irreprensibile.
Serbò fede al Borbone; è vero: ed è per lui grande elogio. Ripeteva da quel monarca tutta la sua fortuna; e i benefizi trattine, avea occasionato que’ beni, di cui egli stesso aveva fatto dono all’astronomia. E poichè la scienza non è obbligata ad alcun domma politico, nessuno ebbe mai diritto di violentare la religione di onesti convincimenti; e, d’altra parte, il sapere vive estraneo alle ire di parti e alle mutabilità delle lotte politiche.
I soliti gli attribuivano per vecchiezza una mente non più salda ne’ suoi divisamenti un animo vago di lievi contese e, più che ostinato, caparbio nel proprio avviso; rampogne ch’ei certo conobbe e, com’era dover suo, disprezzò. Onde, «non bene partendo egli i tempi — osserva lo Scrofani — , e discorde con le nuove massime e i nuovi costumi, nè con essi rammorbidito giammai parve negli ultimi anni fastidiosa quella sua antica rigidezza, come d’uomo che, ad altro secolo appartenendo, venisse a predicarci viete dottrine, nè agli uomini più gradite, nè più convenevoli alle cose: perciò a colpa vennegli ascritto e di spirito e di cuore quelli ostinarsi per esse, e forse oltre il dovere, ancorchè mai ad alcuna lusinga non piegasse, e sempre l’onesto più dell’utile fosse dell’opere sue e de’ suoi pensieri l’oggetto.» Pur, bene a fondo osservando, oltre l’ingiustizia acerba, e’ non agguantavano giusto, più fisicosi all’esterno, che dell’intimo conoscitori, del quale non giudici competenti, perchè non a lui benevoli, non amici, nè osservatori imparziali. Del resto astronomo era, cioè uomo tutto inteso a scienza, per la quale potrebbesi dir ch’e’ vivesse; ed era teatino, anzi tanto degnamente conforme allo stato negli usi, che mai ne volle depor l’abito, sì, che non di titoli o di qualsivoglia altro onorifico appellativo e’ si piaceva, solo altero e compiacevolmente soddisfatto di sentirsi chiamare: «Padre Piazzi.» E se frate — si noti bene — non gesuita, anzi tutt’altro che fautore di questi, come vuolsi chiarire a delinearne meglio la fisionomia morale ed il carattere.
Nella dedicatoria a Ferdinando, affermò con severo coraggio, tra le azioni generose che raccomandavano quel monarca alla posterità, essere principalissime l’abolizione del Sant’Uffizio e dei Gesuiti. «L’ignoranza, — scriveva — l’orgoglio e l’invidia per una parte, sotto larva mentita di zelo religioso, sedenti in cattedra d’illegittima autorità, si opponevano inesorabili a’ progressi dell’umana ragione, alla propagazione, anzi alla ricerca delle più utili verità. Per altra parte, un nuovo genere di dispotismo, inteso a dominare con lusinghiera scaltrezza gl’intelletti ed i cuori, avevasi usurpato e custodiva gelosamente il deposito della scienza e delle arti, facendo di esse una specie inaudita di monopolio.»
Nè mutava o pensò d’infingere questi suoi sentimenti allora che la setta esizievole fu ristabilita in Sicilia; ecco un fatto che spiega per bene il carattere. Erasi insinuato presso di lui un padre gesuita; il Teatino, ch’era uomo da non bere grosso, trova tosto il modo di levarsi d’attorno il visitatore importuno. Che fa? prende il volume dell’opera sua anzidetta, lo apre appunto colà dove parlava dell’abolizione dei Gesuiti, e porgendolo al rugiadoso padre, così per dargli una proficua occupazione, lo pianta lì su due piedi, passando in altra stanza. La lezione fu intesa, e il seccatore venne allontanato per sempre.
Per questo i Gesuiti se la legarono al dito, al solito vendicatori implacabili. Onde, venuto il destro, osarono con sottili arti rappresentarlo al Pontefice come miscredente, e questi, che ben lo conosceva, non diede molto peso all’iniqua calunnia, e per sola formalità ne mandava la denunzia a monsignore Gravina, arcivescovo di Palermo, che non le diede corso.1
Nè basta; a conoscere meglio tempra d’animo ch’egli aveva, è ben sapere che, a misura de’ progressi che i suoi più valenti discepoli facevano negli studi, soleva dare preziosi ricordi di libri e di classiche opere, da lui sollecitamente tratti dalla sua piccola libreria; «e piacemi rammentare le opere del grande Astigiano, e tra queste specialmente la Tirannide, per addimostrare quanto alti fossero e vigorosi i di lui intendimenti, e com’ei non si peritasse in quei tempi di dubbi e di sospetti imprimere nel nostro animo giovanile l’amore della libertà, e l’odio alla tirannia.2»
Ne’ colloqui famigliari, facile, allegro e apertissimo, tanto che sarebbesi potuto dire peccasse talora persin d’imprudenza. Il Gallo, amato di paterno affetto dal Piazzi, al quale — com’e’ stesso confessa — deve i felici risultamenti della sua carriera, e cui, sebben giovinetto, volea commensale fra’ più dotti uomini di Sicilia, così ci scriveva: «Il Piazzi era vivacissimo ed irritabile come un poeta; ed io una volta scherzando nello scorgerlo impazientito col suo amicissimo p. Michel Angelo Monti, mio maestro d’oratoria e poetica, di carattere freddo e pacato, gli dissi: «In questo momento scorgo l’astronomo in Monti e il poeta in Piazzi.» Ne risero amendue, e Piazzi, rivolto al Monti, soggiunse: «Ma non vedi, che anche il tuo scuolaro ti dice, che hai nell’anima il gelo delle Alpi?3» Monti invero era un poeta classico, di squisitissimo gusto, di elegantissimo stile, ma di fredda immaginazione, insigne versificatore ed oratore, particolarmente nella parte descrittiva.4
Altrettanto alieno dalle lodi proprie quanto inclinevole a rilevare le altrui e compiacente a udirne gli elogî. Un giorno, che gli veniva notato questo suo interessarsi per i men degni, «Gli ottimi, rispondeva, non hanno bisogno di me.» E a un altro, che lo aveva rimproverato di soverchia caldezza per gli amici, «Che volete, soggiungeva scherzoso, un freddo amico val tanto quanto un freddo nemico; e se l’uno per negligenza non ti fa il bene, l’altro non ti fa il male; onde amato e odiato rimangon sempre gli stessi.» Nodriva invero animo caldo, ma nella amicizia usava savia cautela, geloso di affetti preziosi, nell’esperienza maestro: sapeva ben mantenersi in quel fare che, improntato di grande discretezza, lealtà e merito, ordinariamente si conforma e risponde all’indole dei più. I suoi cari ed intimi, degni di lui; e il seppero i ragguardevolissimi Palermitani di quell’epoca, tra cui a rammentarsi il siculo Anacreonte, Giovanni Meli, e quel nobilissimo uomo che fu il principe di Belmonte. Questo degno patrizio invitava spesso il Piazzi nella sua casina all’Acqua santa, e in quel solitario ricovero giocondo, consacrato all’amicizia, que’ chiari uomini s’intertenevano famigliarmente in dolci colloqui, ispirati dall’amore della sapienza e della virtù. L’ameno sito era convegno ad altri eletti, quali, esempigrazia, il Meli ed il Monti; onde Carmelo Pardi rammenta il bel tempo con versi che ci piace riprodurre nell’elegante lor leggiadria.
«. . . . . Qui torreggia in greche
Forme il palagio di Belmonte, quivi
Egli adunava di Sofia i cultori,
E i cari alunni delle Muse, ed era
A quel gran cor contorto, unico forse,
L’amica di sublimi animi elette
Brigata accolta. Qui coi più soavi
Carmi temprar di tanto amico il duolo
il novello Teocrito solea,
Che le leggiadre immagini concette
Da l’alta fantasia, vestir si piacque
Di nova grazia nel nativo incanto
Del materno idioma. In questi ameni
Recessi, sacri all’amistà, per poco
Tolto a’ severi studi, e a la fiorente
Amata gioventù, cui da la dotta
Scranna le fonti del saper svelava
E i misteri del Bello, anch’esso il Monti
Veniva. E Piazzi, cui di Urania il riso
Le arcane rivelò leggi de’ mille
Mondi rotanti per l’eteree sfere,
Forse da questi poggi al ciel levava
L’avido sguardo, onde spiar quell’astro
Che l’occhio suo. d’ottici vetri armato,
Primo scovriva; ed abbenchè l’ignuda
Pupilla invan lo ricercasse, pure
Una ignota dolcezza in cor del Sofo
Dal gentil vagheggiato astro piovea.
Pur, questo è il ciel di Piazzi, è questo il sole
Che riscaldò quelle sovrane fronti.
Questi gli ameni colli e le ospitali
Soglie, non mai chiuse al tapin, son queste:
Ma più non veggo l’onorata schiera
Che le abitava un dì; mute e deserte
Indarno aspettan le marmoree sale
Il signore del loco. . . . .5»
Modesto e giusto apprezzatoli della scienza, schivava soprattutto di parlarne in privato, ed era persino difficile aprire il discorso a cose di astronomia; e quando per ragioni di urbanità o dovere il faceva, usava modi sì delicati e dicevoli che, chi ci aveva interesse non se ne avvedendo, credeva d’indovinare anzi che seguire i suoi ammaestramenti. Era arte di animo nobile e gentile, la quale però rimaneva inerte dinanzi le imprescioscità ignoranti e le importune prosopopee. Onde, quando gli capitavano di certi saputelli i quali, intesi esclusivamente al proprio vantaggio, non si peritavano di disturbarlo per discutere e sentenziare su materie, delle quali pensavano poi avocarsi il merito esclusivo; egli allora, trovandosi alle strette, ricorreva all’arma che in simili casi non fallisce mai, il silenzio: e così la mediocrità presuntuosa era punita a dovere.
Ma al cospetto del merito sapeva contenersi degnamente.
Non v’era in que’ tempi viaggiatore di giusta fama, il quale, toccando Palermo, non tenesse ad onore di visitare il celebre scienziato; con questi il Piazzi rivelavasi uomo ch’egli era. Pien di contegno nelle prodigategli lodi, non esitava a rispondere con chiarezza alle mossegli quistioni; mostrava spirito perspicace e profondo, ampiezza di dottrina, non soltanto in ciò che s’appartenesse alla geometria e all’astronomia, ma all’ottica, alla meccanica, alla statica, alla dinamica, alla nautica e a tutte quelle discipline che formavano come il compiuto corredo di tutti i suoi studi. Nè s’arrendeva cieco alle autorità, sebbene grandi; ma gli piaceva confrontare, esaminare, dedurre; e quindi a scegliere la sentenza migliore, o quella che tale si fosse avuta per comune consenso. I suoi colloqui, calmi, profondi, ragionati, istruivano: non intendeva imporre vanamente, sì a convincere con efficacia: porgeva con fine stabilito, facendo cioè convergere ad ammaestramento i precetti delle acquisite dottrine.
Soprattutto, ammirabile nella scuola.
Ivi, conscio che nel diffondere la scienza non basta solo il metodo ma richiedesi il modo, si teneva, piucchè maestro, amico agli allievi, sollecitando e sollevando gli animi cogli affetti, non contento alle sole teorie, ma accompagnandole con le prove. Quindi osservatore minuto d’ogni fenomeno, interprete sagace di calcoli, or semplice ora sublime, sempre paziente, non ostante la estrema vivacità del carattere, massime nello sciogliere le difficoltà dei giovani che ricorrevano a lui.
Nè mancarongli discepoli degni, quali l’abate Giuseppe Pilati, il canonico Nicola Carioti ed altri; ma tra essi primissimo Niccolò Cacciatore, non solo discepolo, ma amico e chiaro successore a lui nella specola, quegli stesso che lavorò sì lodevolmente nella revisione del gran catalogo, per testimonianza dello stesso maestro, che di lui scriveva: Multum me debere lubentissime fateor.
Così conosciuto poi per la sua fermezza ed onestà che, quando dal re Ferdinando furono esiliati nelle isole circostanti alla Sicilia cinque baroni siciliani, promotori della rivoluzione del 1812, amici dell’astronomo, il sovrano, a chi lo calunniava al suo cospetto, rispondeva sicuro: «Non lo credo. Piazzi è stato, sì, amico dei baroni; ma è il suddito più fedele e affezionato, ch’io mi conosca. E il re fece sì che il cortigiano denunziante alla regina, non avesse più a frequentare le stanze di lui.» E allora che, nel 1798, si volle da taluno che egli sgombrasse l’Osservatorio per alloggiarvi la famiglia reale, esule da Napoli, il re non permise che si disturbasse l’Astronomo. Ma sebbene e’ fosse famigliare con alti personaggi e ministri, seppe così nobilmente sentire la propria dignità e ’l decoro, che nulla mai chiese per sè; solo sollecito d’interporre i suoi uffici a pro di sventurati, dei timorosi d’avvicinarsi al trono, o di chi avesse ragion di domandare nel nome della giustizia e della verità.
Note
- ↑ Tale denunzia trovasi oggidì in mano del cav. Agostino Gallo, che l’ebbe dagli eredi di monsignore.
- ↑ Lettera di G. Cacciatore, Direttore dell’Osservatorio di Palermo, a B. E. Maineri, pubblicata la prima volta per intiero dalla Valtellina di Sondrio, n.º 239, 27 gennaio 1866, anno VI.
- ↑ V. lettera di Agostino Gallo, diretta al teologo L. Guicciardi di Ponte e a B. E. Maineri, pubblicata dalla Valtellina, il 2 febbraio 1865, n.º 270.
- ↑ Michel Angelo Monti, genovese, professore di eloquenza e poetica, e Cancelliere nell’Università di Palermo, poeta ed oratore latino ed italiano, a cui i buoni studi dell’amena letteratura in Sicilia debbono gran parte dell’incremento.
Morì il 13 febbraio 1822, in età di 71 anni. - ↑ Scritti vari, vol. I: Palermo, tip. del Giornale di Sicilia, 1870.