L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte III/Commiato
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COMMIATO
§. XVIII.
Sogno composto tra un raglio di Asino ed un altro. Viaggio di Maometto. Bicchiere di acqua rovesciato. Dove e perchè nasce il Don Chisotto. Il polso del moribondo Lefever. Le Baccanti e i Coribanti. La dama macabra. Il Decamerone. Novelle di Franco Sacchetti. Don Pietro il giustiziere; suoi balli terrebili. Miserie nostre. Nostro premio. Marino Faliero. Leggenda sopra la Italia, finchè la tirannide austriaca dura.
Io domando mercè per questo sogno: in verità, comunque lungo ei vi appaia, io vi dico che venne composto fra un raglio di Asino ed un altro. Non mi vogliate chiamare bugiardo, perocchè io m’ebbi sempre in uggia bugiare, ed in meno ora cose più lunghe rimasero compite: ricordatevi di Maometto, il quale invitato dallo Arcangiolo Gabriele a viaggiare per i sette cieli, cotesto viaggio imprese e compì in tanto breve ora che svegliandosi fa in tempo di reggere il bicchiere che l’Arcangiolo urtando per inavvertenza coll’ala aveva tolto di bilico dal tavolino.
E posto eziandio, che il libro non fosse stato partorito da un sogno, perchè e come si potrebbe pretendere discretamente ch’io dovessi aggiogare ogni dì la ragione a riprendere il solco per campi squallidi, tutti pieni di angoscia, attraverso terra deve non avrei potuto seminare altro che tristi disinganni, del futuro incerti presagi, e memorie del passato amarissime?
Michele Cervantes, poeta, egregio del pari che prò soldato, dalla miseria disfatto e dalla persecuzione travolto in carcere, il quale, secondochè egli a buon diritto pur troppo ammonisce, è luogo pieno di ogni malinconia e vuoto di ogni sollievo1 — qual libro ci dettava egli? — Il Don Chisotto, eterno riso della Spagna e del mondo. Vuolsi considerare proprio benedizione di Dio la facoltà del pensiero in tanta notte della mente di andarsene randagio, a mo’ di Cane senza padrone, e accettare in dono quello che il cielo gli manda, e se il cielo t’invia nel deserto la manna, e tu piglia la manna, senza ricordare il pesce, i cotonieri e le cipolle di Egitto2. Lo zio Tobia, tastato il polso al Lefever, conobbe ch’e’ sussultava, si fermava, sussultava da capo e da capo si fermava3, e così doveva essere, perchè Lefever moriva. Scompiglio deriva da malattia; che intelletto sano in corpo sano procedono olimpicamente sereni. Quando l’anima, bevuto tutto il liquore dell’angoscia, si è inebriata, non sa staccare le labbra dal tristo boccale e ci tracanna la follia rimasta in fondo: allora erompe lo sghignazzamento che ha virtù di sbigottire coloro, i quali non si commovono al pianto, imperciocchè la procella che l’imperversa dentro strascini il tuo pensiero, nel modo che i venti fanno della banderuola, i quali ne voltano la punta nella direzione opposta a quella donde essi soffiano: la morte hai nel cuore, e il riso trema su i labbri. Lo spirito umano ebbro di affanno corre in fuga disonesta, come le sacerdotesse di Bacco, anzi pure come i sacerdoti di Cibele urla, salta, mena strepito di scudi percossi e giunge perfino a fare di se medesimo strazio: non pertanto dura più infelice dei Coribanti, dacchè questi, favoleggiano i poeti, pervennero a celare i vagiti di Giove fanciullo al divoratore Saturno, mentre lo spirito non giunge ad attutire il grido interno che gli fa paura. Questo poi, se tu bene intendi, vedrai essere accaduto così presso i popoli e i collegi, come negl’individui. La Francia nel secolo decimoquinto, da cima in fondo messa a soqquadro, pianta l’ultima lacrima sopra la fame, la peste e la guerra, di punto in bianco si volta a ridere ed immagina la danza macabra: al fiero dramma non tratti lieti, non motti giocondi, non viluppi di festose avventure somministrano argomento, bensì la Morte, la quale nel suo caribo travolge turbinosa la sabbia dei papi, degl’imperatori, di ogni maniera monarchi e baroni e moltitudine di gente senza nomenota. Davanti lo spettacolo delle opere della livellatrice di tutte cose terrene, della saldatrice di tutti i conti umani il popolo della Morte rideva ed alla Morte applaudiva. La peste partorì le cento Novelle di Messere Giovanni Boccaccio; anche Franco Sacchetti mosse a dettare il suo libro piacente, l’affetto di sovvenire ai desolati: e questo con bel garbo ci fa sapere nel Proemio delle trecento Novelle: e considerando (egli scrive ed io lo riporto per mostrare ai giovani quale fosse la dettatura dei vecchi e si vergognino della loro) «al presente tempo ed alla condizione della umana vita, la quale con pestilenziose infermità e con oscure morti è spesso visitata, e veggendo quante rovine, con quante guerre civili e campestri in essa dimorino, e pensando quanti popoli e famiglie per questo
(552) IACOBBE, Danza macabra. sono venute in povero ed infelice stato, e con quanto amaro sudore conviene che comportino la miseria là dove sentono la loro vita essere trascorsa; e ancora immaginando come la gente sia vaga di udire cose nuove e specialmente di quelle letture che sono agevoli ad intendere, e massimamente quando danno conforto, per lo quale tra molti dolori si mescolano alcune risa..... io Franco Sacchetti fiorentino, come uomo discolo e grosso, mi proposi di scrivere la presente opera.» Narrasi eziandio di Don Pietro il giustiziere come, poichè nello acerbo duolo per la sua Agnese trafitta, sopra le piume invece di riposo trovò febbre e stridore di denti, erompesse fuori di casa e, seguitato da molta mano di fanti, i quali portavano torce a vento, baccasse per le vie di Lisbona dando fiato a trombe squillanti ed altri parecchi strumenti acuti e assordanti, strepitoso di furibonda allegrezza. I cittadini desti al rombazzo, quasi percossi da infermità contagiosa, si versavano per le vie unendosi alla lugubre comitiva, alternando insieme con quella tresche convulse e risa da frenetici, finchè l’alba sorgente rivelando agli uni le sembianze disfatte degli altri si separavano, quasi spettri, ricorrendo nelle domestiche mura per quietare l’anelito di cotesta gioia infelice4.
Troppo maggiori furono i nostri infortunii di quelli; non dico dei privati, dacchè questi non vale il pregio nemmeno ricordare, bensì i pubblici. Durante la nostra vita con lungo studio e indefesso volere ci affaticammo a voltolare il sasso della necessità in vetta al monte; e quando tratto sul comignolo credevamo traboccarlo giù dalla pendice opposta, ecco ci scappò di mano: noi dall’alto lo vedemmo rotolare nelle nostre terre da capo, funesto per la celerità e pel moto che noi medesimi gli partecipavamo; poi conducendo gli occhi a guardare le braccia affralite dalle fatiche e dagli anni, il cuore ci scoppia dentro come per morte: intanto il sasso prosegue il suo corso fatale schiacciando speranze, vite, desiderii e disegni, nè si fermerà prima che sia giunto a valle. Si rinnova il tormento che gli antichi attribuirono a Sisifo. Noi sopravviviamo a noi stessi; la nostra vita percorsa fu inane, quella che avanza il fulmine l’ha colpita, nè refrigerio alcuno ci conforta, dacchè il popolo non giace seduto sopra i sepolcri de’ suoi, nè col capo declinato su le ginocchia piange; non accarezza egli la sua ferita, e pensando alla vendetta ride del dolore; no, il popolo ha gittato via la corona dal capo quando si è sentito pungere; le corone egli amò, ma di rose e di mirto, quali i nostri padri adoperavano nei gioiosi conviti prima di bere. Il popolo italiano si aggira come l’Orso per le fiere, e come l’Orso bastonato balla! Altri lo applaude schernitore, altri l’offende molesto. Molti dei nostri amici velaronsi gli occhi con uno strato di terra fuggendo la vista di tanta ignominia: beati loro! I posteri ci aborriranno o piuttosto prenderanno a schifo, però che ai Popoli sia mancato il cuore, agli Ottimati la mente, a tutti il feroce volere, unico padre dei concetti magnanimi, e la concordia che li conduce a compimento e, caduti una volta, perfino la dignità nel patire, ch’è il pudore della sventura. Le eredità dei padri, il retaggio dei figliuoli, anime sbiancate, noi avventurammo a tale gioco dove non ci bastarono le mani: per noi la ragione dell’avvenire fu guasta...... e viviamo! Una grazia ci avanza, e deh! almeno ci venisse concessa: questa sarebbe che corpo, spirito e fama in una medesima fossa restassero eternamente sepolti.
Là sulle rive dell’Adda nella serie dei ritratti dei Dogi che ressero Venezia ne manca uno. Un velo nero sta disteso nella cornice e vi si legge sopra come in quel posto doveva comparire Marino Faliero traditore della patria; così io con tutto il cuore desidero che di un panno nero sia coperta la Italia dal 1846 fino al giorno in cui sorga una generazione di uomini che la vendichi dalla tirannide austriacha, e sopra il panno si legga: anni cancellati dal secolo per delitto di viltà!